Docsity-maraini-la-lunga-vita-di-marianna-ucria-tesina PDF

Title Docsity-maraini-la-lunga-vita-di-marianna-ucria-tesina
Course academic
Institution Istituto Superiore Lorenzo Federici
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marianna ucria...


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Maraini - La lunga vita di Marianna Ucria - Tesina Letteratura Università degli Studi di Padova 8 pag.

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Dac ia

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“Sposare, figliare, fare sposare le figlie, farle figliare e fare in modo che le figlie sposate facciano figliare le loro figlie che a loro volta si sposino e figlino [..] voci dell'assennatezza familiare, voci zuccherine e suadenti che sono rotolate lungo i secoli conservando in un nido di piume quell'uovo prezioso che è la discendenza.”1 Questa è la strategia famigliare della discendenza Ucrìa, la storia della Sicilia del 1700 e soprattutto, quella di una donna: Marianna. Duecentocinquant’otto pagine per raccontare la storia della lunga vita di Marianna Ucrìa, che è la storia di molte donne, non solo del Sud e non solo del passato; la storia di donne mute, isolate, assoggettate al mondo, al marito, a sé stesse, donne violate, spaventate, a cui è stato tolto tutto: la consapevolezza di sé, del proprio corpo, dei propri figli, della parola e della propria identità di donna. Marianna è una di queste, una delle tante ma unica fra tante, forse la più coraggiosa e audace, perché ha lottato facendo del suo silenzio un’arma invincibile. Siamo nel lontano, ma mai così contemporaneo XVIII secolo, in Sicilia: una terra profumata, colorata, feconda, torrida, cupa e contradditoria; di ville, monti e colline, di vinti, di cechi, d’inetti, di delitti, d’incappucciati, delfini e “gattopardi”, di monache e spose, di miserie, proverbi, regole e silenzi. Quella di Marianna è una famiglia palermitana nobile e numerosa, quelle famiglie di una volta, di sempre: la campagna, i campi, gli animali, i servi e i padroni, la domestica e la Signora, i figli e le balie, cugini e fratelli, zii e nipoti; in quelle case grandi, con muri freddi e spessi che non fanno uscire le grida di nipoti, cugini, figli e signore che chiedono aiuto, quei muri restano lì, per anni, testimoni di segreti e orrori. Marianna era una di quelle figlie, in una di quelle case; una bambina innamorata del padre e della vita, e come tutte le bambine cantava, o meglio, si ricordava di aver cantato, o forse, s’immaginava di aver un tempo cantato: “e pì e pì e pì Sette fimmini p’un tarì E pì e pì e pì Un tarì è troppu pocu Sette fimmini p’un varcuocu..”2 Marianna però, a differenza delle altre bimbe, questo ritornello lo canta nella sua mente, perché da quella sua piccola bocca di pesce non usciva alcun suono: è muta.

1 D. Maraini, La lunga vita di Marianna Ucrìa, Milano, Rizzoli, 2003 p. 218. Le citazioni inserite in corsivo direttamente nel testo sono tratte dall’opera medesima. 2 Ibidem p. 17

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A soli cinque anni, la piccola duchessa è mutola e priva di udito, senza sapere perché a un certo punto della sua vita era calato su di lei il silenzio; nulla era più stato detto e nulla era più stato udito. Questa sua anomalia però non le taglierà mai nulla; il silenzio diventerà una serra, dove coltivare se stessa e pensieri che si faranno sempre più rigogliosi. Marianna non sarà mai sconfitta dalla sua sordità, sarà solo diversa, più profonda e intelligente, non parlerà ma scriverà, non ascolterà ma leggerà. Grazie alla lettura, riuscirà a farsi delle domande, a riflettere, capire e sentire gli altri e i loro pensieri. La cultura sarà per lei un’ancora di salvezza, che le consentirà di superare molti ostacoli mantenendosi lucida e consapevole. Con la sua forza d’animo questa donna, superiore a tutte le altre femmine aristocratiche indottrinate a usanze e costumi, riuscirà a distaccarsi dai rituali dell’antica aristocrazia che la vorrebbero senza sospetti, senza curiosità, senza dubbi.3 “..si torce come un bruco, frastornata dalle voci degli avi che le chiedono ossequio e fedeltà. Mentre altre voci petulanti come quella del signor Hume col suo turbante verde le chiedono di osare, mandando al diavolo quella montagna di superstizioni ereditarie”. 4 “Il suo mondo interno si arricchisce nel silenzio che scavalca il muro invalicabile che pare separarla dalla partecipazione alla vita che la circonda e la trasforma lentamente in una donna consapevole di sé [..] Il romanzo racconta la storia di Marianna, la sua scoperta delle verità nascoste proprio grazie alla menomazione che l’ha resa più attenta a sé e agli altri, tanto da riuscire a capire i pensieri di che le sta accanto: una doppia menomazione la sua, perché fimmina e mutola; la metafora del silenzio diventa allora anche metafora dell’identità femminile negata e del suo esplicarsi, ora, nella soggettività di chi cerca una parola nuova e diversa per una nuova storia. [..] La sua mutilazione, il suo doppio handicap in cui si riflettono metaforicamente radici arcaiche, le consentirà di sentirsi progressivamente estranea alla strategia del simbolico patriarcale che le viene imposta dalla famiglia e agli stereotipi di casta, e di trasformarsi in un’arguta e disincanta osservatrice della sua gente, capace di abbozzare perfino una severa riflessione sulla storia contemporanea della sua polis..”5 A tredici anni è data in sposa a uno zio, di trent’anni più anziano di lei, come volevasi tradizione. “Nessuno ti prende attia Marianna mia. E per il convento ci vuole la dote, lo sai. [..] Lo zio Pietro ti prende senza niente perché ti vuole bene e tutte le sue terre seriano le tue, intendisti?”6 ; queste sono le parole con cui la madre, giustifica la decisione che è imposta alla piccola mutola. “Silenzioso, solitario, la testa incassata fra le spalle come una vecchia tartaruga, l’aria sempre scontenta e severa, lo zio era infondo più tollerante di tanti mariti che lei conosceva. [..] Con lei 3 Ivi p. 219 4 Ivi p. 219 5 S. Chemotti, L'inchiostro bianco. Madri e figlie nella narrativa italiana contemporanea, Padova, Il Poligrafo, 2009. P. 256-257 6 D. Maraini, La lunga vita di Marianna Ucrìa, Milano, Rizzoli, 2003. P.30

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era corese ma freddo ”.7 Il signor marito zio le darà cinque figli, senza mai far l’amore con lei. Cinque figli per cinque violenze, che Marianna alleverà con amore, o forse solo con la consuetudine di quel suo mondo e di quella sua nobiltà più sorda di lei. Signoretto era il più piccolo dei suoi figli, a lui era visceralmente legata, e lui sedeva accanto a lei a tavola contro le consuetudini del casato, sempre in braccio alla sua madre-bambina. Marianna però, come l’udito, la voce e l’amore, perde presto anche quel bambino tanto amato. A soli quattro anni, per una malattia, quel piccolo che ha lo stesso nome del nonno, morirà lasciando Marianna nuovamente distrutta, ma non sconfitta. Sarà la prematura morte del marito ad aprire, nella vita di questa coraggiosa donna, un nuovo capitolo; nel quale è svelato a Marianna il perché della sua mutilazione. Il silenzio era calato su di lei, bambina, in seguito alla violenza subita dallo stesso zio che pochi anni dopo era stata costretta a sposare; e lei di tutto questo per anni aveva avuto presentimento, ma mai nitida memoria. Marianna non sarà vinta neanche da questa truce verità. Questa bambina, cresciuta troppo in fretta, già nonna, ormai non ha più catene né paure; libera da quel marito-carnefice mai amato, che non aveva potuto neanche odiare. Libera da quei figli già grandi e poco suoi, grazie al suo silenzio, alla sua forza, alla sua intelligenza, alla cultura di cui ha capito l’importanza, si liberà anche di quell’isola di cui non era padrona ma schiava. Non fuggirà Marianna, ma salperà, muta, alla ricerca di se stessa. “Rinnovata e ricomposta nella sua soggettività esistenziale di donna-figlia-madre, adesso Marianna sa che vale solo il presente in cui agisce perché non c’è né partenza né punto d’arrivo, ma l’andare soltanto”.8 Questa è la verità di Marianna ed è raccontata, con un realismo commovente da Dacia Maraini, una donna forte e coraggiosa come la sua protagonista, che ha fatto come lei della scrittura la sua dimensione. Il suo è un romanzo storico sul Settecento, per le dinamiche dell’aristocrazia e della proprietà, contemporaneo riguardo alla situazione di prevaricazione subita dalle donne. L’autrice ritrae, spietata ma non ingiusta, la società siciliana del tempo, nei suoi usi e costumi imprigionati e costruiti sulla gerarchia patriarcale e nobiliare. Nonostante l’angolazione soggettiva attraverso la quale si contesta quest’antica strategia familiare che divora tutto inesorabilmente, Marianna non è una vittima, ma un personaggio positivo, che si emancipa affermando se stessa e abbattendo i pregiudizi nonostante l’ambiente che la circonda e le proprie difficoltà individuali.

7 Ivi p.32-33 8 S. Chemotti, L'inchiostro bianco. Madri e figlie nella narrativa italiana contemporanea, Padova, Il Poligrafo, 2009. P. 270

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Il suo silenzio non è anatomia ma, metafora del mutismo e della soggiogazione femminile all’ideologia maschile, e all’autorità patriarcale e maritale. È una denuncia rivolta, con un linguaggio appositamente semplice e chiaro, a tutte le donne di ieri e di oggi; il presente quindi, non è una scelta di grammatica casuale ma funzionale a dare immediatezza e longevità al messaggio: per noi, per le nostre figlie, per le nostre nipoti. La cultura è salvezza, è questo che Marianna scriverebbe se dovesse farci avere uno dei suoi bigliettini: è con la cultura che ha raggiunto la sua autonomia di donna consapevole e forte, non più logos imperfectus. “I libri della Maraini propongono spesso storie private che diventano storie esemplari [..] squarci di vita di donne, a cui è stata negata la condizione di soggetto e che reificano la loro faticosa e spesso drammatica presa di coscienza, abbandonando il falso io, la pseudoidentità, l’indeterminato imposto loro dalle norme e dalle convenzioni delle gerarchie autoritarie, dai precetti dell’ordine simbolico maschile, anche evidenziando la natura politica dei rapporti fra uomo e donna, fra donna e istituzioni, fra donna e cultura”. 9 “Credo in generale che le donne possano contare su poche cose: non consiglierei di fare affidamento né sui soldi, né sulla posizione sociale, né sul matrimonio. Se una donna vuole essere veramente libera deve basarsi sulla propria forza di carattere e sul proprio intelletto, posizione che si ottiene approfondendo la conoscenza. Il pensiero non è un’astrazione, fa parte del corpo femminile, anche se ne siamo state considerate prive; questa è una fondamentale riacquisizione”.10 Così Marianna si fa carico di questa indispensabile riacquisizione e, senza accorgersene, introduce il tema della questione femminile, portando a galla la realtà di molte donne; la storia di sempre: le umiliazioni, i soprusi, le violenze taciute, i matrimoni senz’amore, le carceri domestiche, i ricatti, i sensi di colpa. Il suo mutismo anatomico acquista valenza universale, è il silenzio che avvolge le donne e dietro alle quali sono imprigionate, che imposto e accettato divora tutto senza lasciare alcuno spazio. La protagonista diventa a questo punto un simbolo di riscatto: donna menomata, sconfitta in partenza, perdente più di ogni altra, si rivelerà sorprendentemente vincente, riconquistando il suo spazio di consapevolezza e libertà proprio attraverso lo studio e la scrittura. La scrittura cresce in lei e per lei, come per l’autrice, divenendo vita e unica parola, forza e libertà, ma soprattutto: liberazione e vittoria. È la menomazione che cambierà il suo destino, trasformata in forza, tenacia e volontà inarrestabile, mai in sconforto e rassegnazione: è la riaffermazione del “cogito ergo sum”, e Marianna pensa, capisce, s’interroga, si afferma e definisce: è, esiste in quanto donna più che mai. 9 S. Chemotti, Op. cit. P. 252 10 D. Maraini in un’intervista di G. Filippini: Marianna, come s’affranca una donna, L’arena, 11 aprile 1990

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La protagonista mette in atto il riscatto di cui l’autrice afferma la necessità, e che ha le sue radici nella conoscenza, nell’intelligenza, nella consapevolezza; è la libertà che, una volta raggiunta, non può più essere portata via, da nessun marito, da nessun padre, da nessuna ideologia, pregiudizio o costrizione. Forse una donna per essere libera deve essere un po’ straordinaria, e Dacia Maraini, attraverso Marianna, mostra la forza di questa eccezionalità e infonde una volontà spessore, spessore intellettuale che da sostanza, e che non lascia mai schiacciare. La duchessa Ucrìa è strumento per l’autrice, e a sua volta l’autrice è lo strumento di questo personaggio, che si delinea sempre più autonomo, cercandola e chiedendole di essere raccontato. La protagonista del romanzo infatti, nasce da un quadro che l’autrice scopre nella Villa Valguarnera di Bagheria. Il ritratto rappresentava una nobildonna: Marianna Alliata di Valguarnera, antenata dell’autrice da parte di madre, vissuta a Palermo intorno alla fine del Seicento, sposa a tredici anni. L’autrice fu colpita da un particolare del quadro: un bigliettino scritto, che la donna stringeva tra le mani. Furono forse quel bigliettino, piccolo segreto, lo sguardo della Marianna del ritratto, il legame di sangue anche se annacquato del tempo, che spinsero la scrittrice a cercare di decifrare quel messaggio, raccontare di quella donna e del suo mondo: nacque così Marianna Ucrìa. Il legame con la Sicilia, che emerge in ogni parte del romanzo, si giustifica nelle origini dell’autrice; Dacia Maraini è nata a Firenze del 1936, da madre pittrice di origine sicula. Il padre, Fosco, per metà inglese, per metà fiorentino, era un famoso etnologo e saggista. Nel ’38 la famiglia Maraini segue Fosco in Giappone, e qui, con lo scoppio della seconda guerra mondiale sconta pesantemente la posizione antifascista con anni di freddo, miseria e maltrattamenti in un campo di concentramento. Rilasciati solo alla fine della guerra dagli alleati, possono far ritorno Italia; tornata in patria, la famiglia trova dimora in Sicilia, nella villa in decadimento dei nonni materni. Qui la Maraini intraprenderà i suoi primi studi, la sua permanenza nell’isola tuttavia non sarà lunga, e dopo la separazione dei genitori sceglierà di seguire il padre a Roma. La Sicilia, con la quale avrà sempre un rapporto controverso di odio e amore, farà sempre parte della vita dell’autrice, che dopo la riscoperta e la riconciliazione con questo luogo, sceglierà appunto Bagheria per ospitare più d’uno dei suoi personaggi. Sono dunque due i tratti caratterizzanti all’interno del romanzo; la tradizione sicula del Settecento, e la difficile affermazione dell’identità femminile. Dacia Maraini si dimostra in questo scritto, una donna attenta ai problemi del proprio genere e della propria identità. Non si limita, nel corso della sua produzione letteraria, ad esprimere il suo desiderio di libertà e autonomia, ma analizza, a partire dai suoi personaggi, con sensibilità pacatezza nonostante la denuncia, il processo e l’ideologia che ha visto negl’anni la donna relegata ad un ruolo sempre più marginare e sottomesso.

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Mi sono più volte interrogata sulle diverse accezioni che configurano il termine “maschilismo” e “femminismo”. Il primo, dotato di più largo seguito, presenta un’ideologia nella quale il ruolo femminile è subordinato e sottomesso a quello maschile: il maschio è princeps speciei, la donna, logos imperfectus, mero contenitore, debole e dipendente. Quest’ideologia ha origini antiche e indubbiamente distinte, potendone conferire ad Aristotele e Platone la prima paternità; dall’origine quindi, domina la cultura occidentale, e si pone alla base di ogni stereotipo di genere. La comune accezione di “femminismo”, viceversa, non si basa su gerarchie di genere, ma si pone come modesta ma indispensabile difesa dei diritti d’individuo e cittadino che alla donna spettano come persona; nonostante ciò il termine risulta ben più sovversivo e pericoloso della sua antitesi. Con questa premessa, pur ripugnando ogni etichetta, posso affermare che Dacia Maraini è una scrittrice femminista, che scrive alle donne, per le donne. La strada, auspicata dall’autrice, è lunga e tortuosa; eliminare pregiudizi, convenzioni, obblighi, riti e usanze, etichette, ruoli millenari è difficile e doloroso. Il messaggio che lancia la Maraini non è solo di speranza e riscatto, è anche di responsabilità: la responsabilità che ogni donna ha di lottare per il proprio spazio, per la propria libertà, istruzione e consapevolezza, per sé e per l’identità che la distingue. La libertà di studiare, viaggiare, leggere, esprimersi, scrivere, parlare, gridare, amare un uomo o un’altra donna, amare se stessa prima di chiunque altro, non è una possibilità, ma un’acquisizione necessaria, per la quale può valere che di ritrovarsi sole, con una serva pazza, in balia del mare.

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Bibliografia

■ D. Maraini, La lunga vita di Marianna Ucrìa, Milano, Rizzoli, 2003

■ S. Chemotti, L'inchiostro bianco. Madri e figlie nella narrativa italiana contemporanea, Padova, Il Poligrafo, 2009

■ G. Filippini: Marianna, come s’affranca una donna, L’arena, 11 aprile 1990

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