IL-MITO-DI- Atlantide- Italian-E-Giulio-Leoni PDF

Title IL-MITO-DI- Atlantide- Italian-E-Giulio-Leoni
Author mmmm mmmm
Course Big Data analytics
Institution Università di Pisa
Pages 20
File Size 226.7 KB
File Type PDF
Total Downloads 84
Total Views 129

Summary

Download IL-MITO-DI- Atlantide- Italian-E-Giulio-Leoni PDF


Description

Giulio Leoni IL MITO DI ATLANTIDE

Copyright © Giulio Leoni 2020. Tutti i diritti riservati.

“Quella terra il cui nome comincia per A, ma che non si può pronunciare.”

C’è un primo aspetto straordinario nel mito di Atlantide, la sua parabola. Perché sottratta per la prima volta alle nebbie del tempo dal grande Platone, la misteriosa isola tornò a sprofondare nei venti e più secoli successivi per infine riemergere trionfante ad opera di tale Ignatius Loyola Donnelly, avvocato, saggista, fondatore di comunità utopiche, deputato al Congresso, inventore di nuovi partiti. Insomma uno di quegli americani che piacevano a Jules Verne, e che potendo si sarebbero volentieri imbarcati su un proiettile per la Luna, o su un pallone intorno al mondo. E nel lungo intervallo, come per una grande Balena Bianca dell’Immaginario, solo qualche sporadico avvistamento tra i flutti convulsi in qualche scarno riferimento nei mitografi alessandrini, e poi un suo modesto utilizzo solo come pretesto nel Rinascimento per alcune utopie sociali o politiche, e nulla più. Forse anche per la sua natura di miraggio che appare e si disfa all’orizzonte con il muoversi dei venti, sin dall’inizio i non molti commentatori si divisero tra coloro che credevano alla cosa come “storia vera” e coloro che come Aristotele ritenevano che “colui che l’ha sognata, l’ha fatta anche scomparire”. Vi credettero e ne riportarono notizia Crantore di Soli e Posidonio di Rodi, altri come Teopompo di Chio e Zotico vi si ispirarono per le loro storie e poemi. Diodoro Siculo, con l’animo razionalista dello storico

interpretò la leggenda come ispirata a Cartagine, Francesco Bacone la colloca in America, Olaus Rudbeck in Svezia, e persino Isaac Newton ne ricorda il mito, nel suo The Chronology of the Ancient Kingdoms Amended. Ma è solo nel secolo XIX e in America che il mito nato in Grecia per testimonianza di un sacerdote egizio, Salchis, l’uomo che nel tempio di Sais narra a Solone la “storia vera” di Atlantide trionfante e sommersa ben novemila anni prima, rinasce, in un tempo in cui i non più coloni ma ormai stabili abitanti del Nuovo Continente cominciano a interrogarsi sulla propria eredità ancestrale, vera o presunta. C’è all’origine di ogni riflessione su questo tema una domanda, che necessariamente precede ogni successiva argomentazione: è plausibile che sia esistita ima civiltà avanzata nei tempi e con le caratteristiche descritte da Platone, entrata in conflitto con i popoli greci guidati da Atene e sconfitta non da questi ma solo dalla Natura? In linea di principio, non v’è alcun motivo che impedisca di credere che la nostra civiltà, così come la conosciamo, non sia la prima apparsa sulla terra. Anzi, considerando che un antropoide evoluto dotato di intelligenza si stima già presente sul pianeta da almeno mezzo milione di anni, è probabile il contrario. Altrimenti dovremmo immaginare un essere che per quattrocentonovanta mila anni indugia al sole limitandosi a sopravvivere e poi improvvisamente si risveglia e in soli diecimila anni scopre l’agricoltura, l’allevamento, la fusione dei metalli e poi d’un balzo la macchina a vapore e arriva sulla Luna. E a poco valgono le obiezioni che di tali presunte altre civiltà non esiste alcuna prova archeologica. Qualche anno fa il canale televisivo History Channel realizzò un documentario sugli effetti della eventuale scomparsa dell’uomo sui suoi manufatti, macchine, edifici ecc. avvalendosi della consulenza di architetti, ingegneri, esperti di metalli. Il verdetto che ne scaturì fu che soltanto cinquecento anni dopo la cessazione della manutenzione non sarebbe restata traccia alcuna di ogni nostra costruzione,

a parte qualche edificio in pietra come le piramidi. Il punto è però che nessuna civiltà avanzata costruisce in pietra: anzi, col progredire del tempo ogni tecnologia tende a ridurre consumo e peso dei materiali usati, puntando in ogni campo alla leggerezza. Per concludere se la nostra odierna civiltà venisse annientata da una qualche catastrofe, tra mille anni l’archeologo del futuro ritroverebbe magari ancora pressoché intatte piramidi e Sfinge, ma assolutamente nulla dei nostri ponti, autostrade, macchine e grattacieli. Se però estendiamo il ragionamento al racconto platonico, e prendiamo alla lettera la prima coordinata del mito, la cosa diviene difficile da accettare. Novemila anni prima di Platone potrà anche essere esistita una civiltà avanzata, ma certo non esisteva alcuna Grecia come comunità organizzata, e tanto meno una città Atene in grado di capeggiarla. Per quanto le ricerche archeologiche negli ultimi tempi abbiano spinto sempre più indietro l’inizio delle civiltà conosciute, con la palma della vetustà attualmente assegnata al tempio di Gobleki Tepe in Anatolia che si stima risalente ad addirittura dodici mila anni fa, non v’è nulla di simile nell’area mediterranea. Non sembra quindi possibile la coesistenza su uno stesso piano temporale di Atlantide e di Atene nel decimo millennio a.C. Esiste però un elemento che può rimettere in gioco l’attendibilità del racconto, il linguaggio. Nel racconto platonico Crizia, pronipote di Solone, narra di come l’avo viene a conoscenza del mito appunto per bocca di un sacerdote del tempio di Sais. Il quale presumibilmente parlava in egiziano, e parlando utilizzava le categorie temporali della propria gente. Si potrebbe ipotizzare quindi che Solone abbia capito “anni” laddove Salchis parlava di “mesi”, e in questo caso i novemila anni si ridurrebbero a poco più di settecento. Ma settecento anni sono troppo pochi. Significherebbe che la remota vicenda sarebbe occorsa approssimativamente all’epoca della guerra di Troia, e senza che nessuno dei cantari del ciclo omerico vi faccia cenno. Qualcuno ha ipotizzato che l’isola dei Feaci dell’Odissea potesse essere modellata sull’antica Atlantide, sulle affermazioni dello storico Strabone che immaginava che essa fosse in appunto Atlantico, ma l’atmosfera

idilliaca e pacifica descritta da Omero poco si adatta ai costumi di un popolo che Salchis definisce senza esitazioni guerriero e conquistatore. Inoltre parrebbe impossibile che non vi fosse alcuna memoria di un fatto così importante nella tradizione di Atene, come la vittoria in una guerra contro un terribile nemico che aveva salvato l’intera Grecia dalla schiavitù, un’Atene che invece manteneva quella di altrettanto remoti primi re della città, a partire dal mitico Cecrope, in cronache risalenti addirittura al 1500 a.C. La cosa sembrerebbe in un vicolo cieco, ma l’ostinato ricercatore ha ancora una possibilità da esplorare, di nuovo suggerita dal computo egizio del tempo. Quella dei faraoni era infatti una civiltà essenzialmente agricola, che divideva l’anno in dodici mesi come noi, ma in sole tre stagioni legate alle funzioni fondamentali della coltivazione: Akhet il tempo dell’esondazione del Nilo, Peret il tempo della semina e Shemu quello del raccolto. Se dunque Solone ha scambiato per anni quelle che in realtà erano stagioni, allora il computo si riduce a tremila anni, compatibile con la coesistenza in Grecia e in qualche “altrove” di due stadi di civiltà analoghi e coerenti con il racconto platonico, collocato appunto in un’età remota ma non fantastica di transizione dall’era degli dei a quella dei semidei: una plausibile civiltà allo stadio del bronzo, in possesso di tecniche costruttive sia di edifici che navali relativamente avanzate ma non in contrasto con quanto conosciamo di quella stagione. Sistemato in qualche modo il problema temporale, resta quello geografico: dov’era situata Atlantide, e qual’era il suo aspetto fisico e le sue dimensioni? Qui la descrizione di Platone non sembra dar luogo a equivoci, è precisa e dettagliata: una grande isola al di là delle colonne d’Ercole, in quel grande mare che si apre al di là di esse. Indicazione talmente precisa da non aver mai indotto dubbi, fino alla riscoperta di Donnely compresa: Atlantide sorgeva dunque in mezzo all’Atlantico, a partire dalle Azzorre che ne sono il solo residuo dell’inabissamento e poi in avanti verso ovest, fin quasi alle coste americane. Questo credono Strabone e Diodoro Siculo, questo credono i pochi commentatori nel Medio Evo, questo credono i conquistadores del Nuovo

Mondo, che immaginano di aver trovato proprio nelle grandi civiltà centro americane la lontana eredità dell’isola. In questo confortati dalle locali leggende, che volevano il popolo azteco originario della mitica terra di Aztlan, nome talmente ad hoc da sgombrare decisamente il campo da ogni equivoco. Il problema… è che ci sono problemi. Anzitutto Aztlan non sembra aver alcun rapporto né con Atlante né con Atlantide, ma la sua etimologia seppure incerta parrebbe ricondurre o a un paese degli aironi, oppure a una terra bianca. E anche il famoso Viracocha, l’uomo barbuto il cui ritorno dal mare essi stavano aspettando, parrebbero anch’esso aver poco a che fare con l’isola perduta. La civiltà azteca al momento della conquista non datava più di qualche secolo, ed è improbabile che potesse serbare memoria di fatti avvenuti migliaia di anni prima. La questione quindi, se fatto vero e non semplice mito di fondazione, potrebbe semmai aprire il grande capitolo di eventuali altri barbuti viaggiatori precolombiani, vichinghi o fenici che fossero, ma è questione che esula dal nostro discorso. Né a vedere in Atlantide un ponte tra le due sponde dell’oceano valgono i raffronti tra talune somiglianze nei costumi o nelle strutture piramidali meso americane e quelle egizie e medio orientali, che al di là di uno skyline superficiale non hanno nulla in comune: piattaforme per templi e sacrari le prime, camere funerarie le seconde, costruite le prime per essere più vicini agli dei e le seconde nella speranza invece di divenire dei, impadronendosi della loro immortalità. Assenza di contatti inoltre suggerita proprio da Salchis, che in nessun punto del suo racconto delinea una possibile relazione tra il suo paese e l’isola misteriosa, alle cui vicende dunque la terra dei faraoni avrebbe assistito con superiore indifferenza, e confermata dalla inesistenza a oggi di un solo papiro, benda funebre o iscrizione parietale che riporti un qualsiasi cenno alla vicenda. Come non esistono le presunte radici comuni tra le lingue parlate sui due lati dell’oceano, somiglianze sostenute inizialmente con grande entusiasmo, ma presto smentite da una analisi linguistica più approfondita.

Per di più gli studi geologici sul fondale atlantico dimostrano che non v’è stata alcuna significativa modifica dello stesso in epoca storica, e nemmeno migliaia di anni prima. Affermazione questa che, anche se talora smentita da ricercatori indipendenti o occasionali testimoni di intensa attività vulcanica rimane comunque maggioritaria nella comunità scientifica. Di contro esiste una suggestiva narrazione, che viene ripresa praticamente da tutti i cacciatori di Atlantide in Atlantico, la vicenda del mercantile Jesmond, in rotta da Messina a New Orleans nel 1883. Narra il suo capitano Robson nel diario di bordo che una volta raggiunto il punto nautico a circa 160 miglia dalle Azorre si imbatté in acque fangose e costellate di pesci morti, quindi avvistò una grande isola da cui salivano imponenti colonne di fumo. Isola non segnata in quel punto da alcuna carta. Incuriosito fece accostare e vi sbarcò con un piccolo gruppo di uomini. L’isola non recava alcuna traccia di vegetazione né di alcun tipo di fauna, ma v’erano segni di una qualche presenza umana. Il capitano vi scoprì resti di costruzioni, punte di freccia, monili, due grandi vasi, statuette e infine un sarcofago contenente un corpo mummificato. Trasportato tutto il materiale sulla nave, il capitano riprese la sua rotta, e una volta in America rivelò l’accaduto, promettendo di consegnare tutto il materiale al British Museum. Materiale però di cui nel museo non v’è traccia, così come è scomparso il diario di bordo della nave, perduto in un bombardamento del 1940. Non serve aggiungere che l’isola non fu più avvistata da nessuno. C’è poi un elemento di carattere storico culturale, ancor più decisivo, che contrasta con il posizionamento in Atlantico dell’isola: non v’è traccia di essa nel folklore celtico o scandinavo, al di là di fantasiose attribuzioni di significato alle pietre di Stonehenge. Tutti i popoli insediati sulla costa atlantica dell’Europa, dagli iberici ai vikinghi, hanno nella loro tradizione il ricordo di un’isola meravigliosa: Avalon presso i popoli anglosassoni, Tír na nÓg ("Terra del giovane eterno") l’isola dei morti nella mitologia irlandese, l’isola delle Esperidi o la terra magica da cui si innalza il ponte arcobaleno verso Asgard. Ma tutte queste terre hanno sempre un risvolto magico, religioso o escatologico, mai

in nessun caso si fa cenno a una potenza militare e imperiale come sarebbe stato logico se tali leggende si riferissero a un luogo reale. È del tutto implausibile che tra quei popoli e Atlantide non vi fosse un contatto: una potenza imperiale come quella descritta da Salchis, prima ancora di avventurarsi alla conquista di terre distanti migliaia di chilometri dal territorio metropolitano avrebbe ovviamente sottomesso per primi proprio i popoli nord europei, da cui era separata appena da un braccio di mare. Popoli che invece sembrano non averne notizia. E se poi Atlantide, come alcuni ipotizzano, fosse stata non una potenza colonizzatrice, ma solo un grande impero commerciale marittimo, simile alle potenze inglesi o olandesi dei secoli XVI e XVII, non si vede quale interesse avrebbe avuto allora a scontrarsi con la lontanissima Atene, che in nulla poteva esserle rivale. Come è possibile inoltre che un cataclisma atlantico sia sconosciuto a coloro che geograficamente avrebbero dovuto esserne maggiormente coinvolti, e sia invece noto ai popoli mediterranei, e loro patrimonio esclusivo? E che la sua storia fosse conservata nella memoria dei sacerdoti egizi, ma non i quella dei druidi celtici? Se mai esistita, dov’era dunque Atlantide? Non è facile, e forse inutile, tentare una sintesi della proposte di localizzazione che hanno fatto seguito all’opera di Donnely. A rispettare la lettera dei dialoghi platonici, non sembrano esserci dubbi: oltre le Colonne d’Ercole, dunque al di là dello stretto di Gibilterra. Non a caso Sprague de Camp, uno dei più attenti e acuti specialisti del fantastico, afferma semplicemente: “Se non è in Atlantico, non è Atlantide.” Eppure questo stesso autore, nel sottolineare come la bibliografia sull’isola perduta sia talmente sterminata da essere seconda solo a quella della Bibbia, non nasconde come a partire dall’800 siano proliferate le più diverse ipotesi sulla sua posizione geografica. Così numerose che prima di esaurire anche soltanto le teorie più diffuse si esaurirebbe la pazienza dei lettori.

I primi dubbi al proposito apparvero già a ridosso della riscoperta di Donnely, tanto che ben presto comparvero diverse ipotesi di collocazione alternativa dell’isola, un po’ à la carte a seconda dei gusti e più spesso ancora delle inclinazioni politiche del loro autore. In estrema sintesi si danno quattro grandi scuole di pensiero: coloro che la collocano in mezzo al mare, altri che la situano sulla terra ferma, una terza schiera che la relega nel ghiaccio e infine coloro che la situano in una sorta di universo parallelo, separato da noi nel tempo e nello spazio. Insomma in quella regione “ai confini della realtà” che piaceva tanto a Rod Serling. I primi si possono permettere un’ampia scelta, data la vastità della superficie equorea: a cominciare dai conservatori ostinati, che insistono sulla dorsale atlantica, ovviamente, da qualche parte intorno alle Azzorre. È l’ipotesi classica, che gode i favori potrei dire dei puristi, di quelli insomma che non vogliono discostarsi in nulla dal dettato platonico. Golfo del Messico e isole caraibiche sono preferiti da temperamenti più inclini al sogno, come i seguaci di Edgar Cayce, mentre spiriti più sobri e razionalisti inclinano verso il bacino del Mediterraneo, tra Cartagine, la Sardegna e l’isola di Santorini esplorata in tempi recenti dall’archeologo greco Marinatos. Ipotesi quest’ultima che ha goduto di un grande favore, insieme con quella simile che vede in Atlantide una rielaborazione fantastica della Creta minoica. Studiosi germanici preferiscono il Baltico, già meta delle loro vacanze, e i più arditi tra loro si spingono fin verso le Orcadi ed Helgoland, su fino alle isole Svalbard. Mentre amanti dei ristoranti etnici, animalisti e mondialisti in genere non disdegnano addirittura l’immenso Pacifico, ove impastano allegramente Maori e isola di Pasqua, Mu e barriere coralline in una improbabile mélange degna questa sì di un menù a prezzo fisso. Quelli che voglio restare con i piedi per terra hanno a disposizione diverse alternative. Le foreste amazzoniche sulle orme del colonnello Fawcett, la pianura messicana con le sue città perdute di Cibola o le vette andine tra Machu Picchu e Tiahuanaco, le luminose caverne tibetane ove si sa che soggiornano i Signori del Mondo, ultimi eredi della razza scomparsa. Oppure le paludi della Florida, e poi l’Islanda e le coste norvegesi, e

volendo anche la Nuova Inghilterra con tutte le sue premonizioni lovecraftiane. Tra le Atlantidi non a bagno ma sommerse semmai da liane o sabbie devo confessare che i miei favori vanno senz’altro all’ipotesi sahariana di Frobenius, non fosse che per la versione che ne dà Pierre Benoit nel suo classico L’Atlantide. Anche se un po’ invecchiato, con la sua allure polverosa di dromedari e legionari in chepì, continua secondo me a dividersi con la She di Rider Haggard la palma di miglior racconto sul tema, e fonte di innumerevoli trasposizioni cinematografiche tra cui immortale La regina di Atlantide di Pabst.. Col ghiaccio non c’è molto da scegliere: o verso sud, nell’Antartide preistorica e di clima mite del nostro ammiraglio Barbiero, o verso nord, nella Urheimat boreale e ariana dei torvi nazisti. Non è forse un caso che proprio Rosenberg, nel suo Mito del secolo XX, nel teorizzare gli antenati nobili dei teutonici parli di razza ariano-atlantidea, Certo un panorama vetrificato e cristallino, un biancore accecante di nevi eterne non si concilia troppo con la solarità equatoriale e gli elefanti del racconto platonico, ma non bisogna essere troppo puntigliosi. Quanto invece alla quarta schiera, al di là di chi la immagina ancora presente al riparo di cupole di cristallo, come i creativi di Hollywood o gli arditi capitano Blake e professor Mortimer di Edgar P. Jacobs, vi sono di quelli che la collocano nell’iperspazio, nell’inconscio collettivo, in immense bolle trasparenti ondeggianti qua e là o tra le schiere angeliche da cui attingere messaggi di luce e salvezza per via di comunicazioni ultrafaniche, ma qui non sembra il caso di procedere oltre. Eppure la soluzione dell’enigma si trova proprio nel racconto platonico, sua prima e unica fonte. Cosa dice infatti Crizia, riportando le parole del sacerdote Salchis all’avo Solone? "Davanti a quella bocca che viene chiamata, come voi dite, Colonne di Eracle, c'era un'isola. Quest'isola, poi, era più grande della Libya e dell'Asia messe insieme e coloro che ci arrivavano, allora, potevano passare da questa alle altre isole, e dalle isole al continente opposto che circonda quel vero mare. Perché tutto questo mare che sta al di qua della bocca che ho detto, sembra un porto di angusto ingresso, ma l'altro potresti chiamarlo vero mare, e la terra che per intero lo

circonda, un vero continente.” La descrizione parrebbe attagliarsi perfettamente ad un’isola nell’Atlantico, con un continente di fronte, tranne che per un particolare: il profilo delle Americhe non la circonderebbe, come detto, ma vi farebbe semplicemente da quinta sul fronte opposto. Il punto è il riferimento geografico: Salchis dice: la bocca che “voi” chiamate le colonne d’Ercole. Si riferisce quindi a una definizione in uso presso i greci, non a un limite condiviso dagli egizi. Ma per i greci le “colonne” avevano un significato simbolico, più che strettamente topografico, segnavano non il confine del mondo, ma quello delle terre degli uomini, con un implicito divieto a superarlo per il rischio di hybris conseguente all’avventurarsi in acque sconosciute e forse riservate al d...


Similar Free PDFs