L\'eroe Manzoniano PDF

Title L\'eroe Manzoniano
Author Le Le
Course Letteratura italiana
Institution Università degli Studi di Napoli Federico II
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Appunti relativi all'Eroe in Manzoni. ...


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Gli eroi e gli umili

Manzoni introduce il tema dell’eroe nelle Odi Civili, scritte tra il 1814 (con due tentativi infelici: “Aprile 1814” e “Il Proclamo di Rimini”) e il 1821 (con la stesura delle sue odi più importanti e famose quali:"5 Maggio” e “Marzo 1821”), riprendendolo poi nelle tragedie, “L’Adelchi” e “Il Conte di Carmagnola”, e nei “Promessi Sposi” sempre in chiave diversa. L’eroe manzoniano, in generale, è colui che nella storia opera per il bene del prossimo e di solito è rappresentato dalla figura dell’umile (come ad esempio nei Promessi Sposi), che interessa molto il poeta poiché, nel corso della storia, è stata emarginata dalla descrizione dei fatti, concentrata prevalentemente degli aristocratici. Infatti egli riprendendo lo studio di Thierry (un intellettuale francese) scrive il “Discorso sopra alcuni punti della storia longobardica in Italia” studiando la successione degli eventi dal punto di vista dei vinti e degli oppressi concentrandosi soprattutto sul popolo latino dominato prima dai Longobardi e poi dai Franchi. Il popolo latino che, saputa la notizia della guerra fra Franchi e longobardi, sperano di riguadagnare la loro libertà perduta da generazioni ingenuamente poiché cambierà il signore dominante, ma non la loro condizione e rimarranno sempre un “volgo disperso” (metafora per illustrare la condizione degli italiani durante quegli anni di fermento politico dove invita il popolo a lottare per la loro libertà e di combattere una guerra legittimata anche da Dio, poiché lo scopo di tale guerra è il raggiungimento della libertà privata). Questo tema viene sviluppato in particolare attraverso dei personaggi tragici come: Adelchi, Ermengarda, Francesco Bussone che per la loro nobiltà d’animo non vengono compresi dalla società in cui vivono, presa da intrighi politici, e che li condanna ad una vita di sofferenza che verrà espiata e veramente vissuta nella gloria celeste. Dunque la morte è il riscatto in un’altra dimensione, immune dalla degradazione dell’esistenza storica, se l’eroe non è fatto per la brutalità del reale, può trovare la sua vera patria nell’altra vita. Per quanto riguarda il primo personaggio, figlio di Desiderio - re dei Longobardi accecato dal desiderio di potenza e assoggettato completamente dalla logica politica - è un animo nobile che vuole compiere grandi imprese che non coincidono con le volontà paterne. Questo conflitto tra aspirazioni ideali e realtà colloca il personaggio di Adelchi in un clima decisamente romantico: si tratta di un tipo di eroe negativo che ha le sue radici negli eroi tragici alfieriani, in Werther, in Jacopo Ortis, ma a differenza di tanti altri eroi romantici, Adelchi non è un ribelle, bensì una vittima, infatti egli osserva silenziosamente la sconfitta dei suoi desideri a quelli paterni che lo portano a morire in guerra. La sua morte viene descritta nell’atto V, dove durante un duello, egli viene ferito mortalmente da Carlo Magno, e il suo primo pensiero va al re Longobardo e chiede al nemico di potergli assicurare una prigionia dignitosa e invita il padre a non lamentarsi della perdita del regno (vv. 342/343, 351) poiché, non potendo più esercitare il potere politico e quindi provocare sofferenza agli altri (vv. 353/59), trascorrerà serenamente gli ultimi anni della sua vita interrompendo il circolo di violenza della propria stirpe (che verrà scontato da Ermengarda) e ciò fa sì che Desiderio ottenga il perdono divino e la vita ultraterrena. “Cessa i lamenti, Cessa o padre, per Dio! Non era questo Il tempo di morir? Ma tu, che preso Vivrai, vissuto nella reggia, ascolta. Gran segreto è la vita, e nol comprende Che l’ora estrema. Ti fu tolto un regno: Deh! nol pianger; mel credi. Allor che a questa Ora tu stesso appresserai, giocondi Si schiereranno al tuo pensier dinanzi Gli anni in cui re non sarai stato, in cui Nè una lagrima pur notata in cielo Fia contro te, né il nome tuo saravvi Con l’imprecar de’ tribolati asceso.

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Godi che re non sei; godi che chiusa All’oprar t’è ogni via: loco a gentile, Ad innocente opra non v’è: non resta Che far torto, o patirlo. Una feroce Forza il mondo possiede, e fa nomarsi Dritto: la man degli avi insanguinata Seminò l’ingiustizia; i padri l’hanno Coltivata col sangue; e omai la terra Altra messe non dà. Reggere iniqui Dolce non è; tu l’hai provato: e fosse; Non dee finir così? Questo felice, Cui la mia morte fa più fermo il soglio, Cui tutto arride, tutto plaude e serve, Questo è un uom che morrà.”

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Invece Ermengarda, moglie ripudiata di Carlo Magno e figlia di Desiderio, è un’eroina triste, malinconica, che non si rassegna, e rifugiatasi nel convento di Brescia riflette sul suo “amor tremendo” che l’accompagna nei suoi ultimi istanti di vita, ma arriva alla morte certa di accedere a un’altra vita, consolata dalla provvida sventura e convinta che Dio l’aspetti per abbracciarla. Il suo personaggio è ripreso principalmente nell’atto IV. Nella prima scena, nuova anche nell'assetto poiché a differenza del teatro greco, il conflitto di passioni è un argomento coniugale piuttosto che incestuoso infatti il matrimonio è uno dei temi fondamentali della scena dato che è il motivo della sofferenza della giovane eroina. Ella, dopo aver abbandonato gli amori terreni (senza rinnegare il suo matrimonio che le impedisce di accettare l'unione con il Signore vv. 95/98) per quello eterno è immersa in una quiete apparente preoccupata soltanto per il padre e per il fratello tanto da non curarsi di sé (vv. 42/61), appena venuta a conoscenza della nuova unione di Carlo Magno con Ildegarbe, per opera della badessa del convento, viene riavvolta dalle fiamme dell'amore tremendo per il marito che s'immagina di aver davanti e al quale si rivolge dichiarando i suoi veri sentimenti che aveva mascherato perché troppo sicura di esser felice e di essere amata reciprocamente dal marito (vv. 148/153). Accompagnata da “alcuni cortesi” nella propria camera li rassicura che quella sarà l'ultima fatica che chiederà, ma che in generale tutte le fatiche sono tenute conto da Dio; ed è proprio questa dichiarazione a renderla un'eroina. “Io nol vedrò: disciolta Già d’ogni tema e d’ogni amor terreno, Dal rio sperar, lunge io sarò; pel padre Io pregherò, per quell’amato Adelchi, Per te, per quei che soffrono, per quelli Che fan soffrir, per tutti. - Or tu raccogli La mia mente suprema. Al padre, Ansberga, Ed al fratel, quando li veda - oh questa Gioia negata non vi sia! - dirai Che, all’orlo estremo della vita, al punto In cui tutto s’obblia, grata e soave Serbai memoria di quel dì, dell’atto Cortese, allor che a me tremante, incerta Steser le braccia risolute e pie, Nè una reietta vergognar; dirai Che al trono del Signor, caldo, incessante, Per la vittoria lor stette il mio prego; E s’Ei non l’ode, alto consiglio è certo Di pietà più profonda; e ch’io morendo Gli ho benedetti. […..] Ch’io mentisca al Signor! Pensa ch’io vado Sposa dinanzi a Lui; sposa illibata,

Ma d’un mortal. [.…] Amor tremendo è il mio. Tu nol conosci ancora; oh! tutto ancora Non tel mostrai; tu eri mio: secura Nel mio gaudio io tacea; nè tutta mai Questo labbro pudico osato avria Dirti l’ebbrezza del mio cor segreto. [….]”

Nel coro ella rimembra due momenti particolari con Carlo (il suo ritorno dalla guerra e dalla caccia) che le logorano il cuore con una fiamma amorosa così come il sole inaridisce gli steli di erba appena bagnati dalla rugiada di primo mattino; il poeta invita la giovane sofferente ad abbandonare tali ardori terreni per potersi offrire in dono all’Eterno e come il fratello e il padre i suoi patimenti le garantiranno una miglior vita in un miglior mondo. “Come rugiada al cespite Dell’erba inaridita, Fresca negli arsi calami Fa rifluir la vita, Che verdi ancor risorgono Nel temperato albor; Tale al pensier, cui l’empia Virtù d’amor fatica, Discende il refrigerio D’una parola amica, E il cor diverte ai placidi Gaudii d’un altro amor. Ma come il sol che reduce L’erta infocata ascende, E con la vampa assidua L’immobil aura incende, Risorti appena i gracili Steli riarde al suol; Ratto così dal tenue Obblio torna immortale L’amor sopito, e l’anima Impaurita assale, E le sviate immagini Richiama al noto duol. Sgombra, o gentil, dall’ansia Mente i terrestri ardori; Leva all’Eterno un candido Pensier d’offerta, e muori: Nel suol che dee la tenera Tua spoglia ricoprir, Altre infelici dormono, Che il duol consunse; orbate Spose dal brando, e vergini Indarno fidanzate;

Madri che i nati videro Trafitti impallidir.” Manzoni delinea nel “Il Cinque Maggio” e “Adelchi” due modelli di eroe romantico: Napoleone da una parte e Ermengarda dall’altra che si presentano caratterialmente diversi. Napoleone è stato un comandante vittorioso, ha avuto una vita intensa e tumultuosa, attiva e dinamica; ma purtroppo, questo suo agire nella storia, questo sua ricerca della grandezza, lo ha portato alla sofferenza e alla morte, lo ha isolato da tutto e da tutti. A Sant’Elena cercava conforto nel passato glorioso contro un presente statico, ma la solitudine lo ha portato alla morte. Ermengarda invece è l’innocente sposa fedele, ma che comunque finisce in solitudine nel convento delle suore dopo il ripudio, ella muore dal dolore, mirando verso il cielo, ansiosa di trovarvi pace e liberazione dai suoi tormenti. I due personaggi hanno in comune la sorte avversa, la riacquistata fede, ma soprattutto la Provvida Sventura: Napoleone voleva essere come Dio, in eterna ricerca del successo terreno ma l'intervento della Provvida Sventura lo confina nella solitudine e nella disgrazia, portandolo a capire la vita con un riavvicinamento a Dio; mentre Ermengarda viene spinta alla scelta definitiva della propria purificazione dalla Divina Provvidenza, la quale libera la donna dalla colpa di appartenenza alla stirpe degli oppressori e la rende degna di ascendere a Dio. In conclusione, i due eroi, morti entrambi distanti dal luogo dove hanno condotto la loro vita (Napoleone in esilio a Sant’Elena, Ermengarda nel monastero), entrambi oppressori ed assaliti dal ricordo del passato (la tremenda passione di Ermengarda per Carlo Magno; passione per la guerra, per l'ambizione di Napoleone), alla fine sono accolti nella immensa pietà di Dio che con la morte dà a loro quel conforto tanto sperato. La figura dell'eroe assume un volto differente nel romanzo storico de “I Promessi Sposi” dove l'eroe manzoniano è chiunque che sopporta cristianamente, quindi con pazienza, le difficoltà fermando il circolo di violenza della realtà. Gli esempi più eclatanti sono Fra Cristoforo e L'Innominato. Il primo, dopo aver avuto uno scontro ed ucciso un signorotto, davanti alla morte, fa sì che nasca un imperativo etico in lui che gli fa comprendere che la strada precedente da lui percorsa, quella del potere reale o della violenza e della prevaricazione del più forte sul più debole, era sbagliata, e lo immette in una strada giusta che è quella della cristianità. Infatti egli è simbolo della cristianità e della devozione, ma conserva ancora il carattere vivace di Lodovico, il suo fascino è costituito dal contrasto tra uomo vecchio e uomo nuovo, simboleggiato dalla metafora dei suoi occhi. Il fervore religioso di fra Cristoforo non è mera oratoria e moralismo apologetico, ma segno di un ideale calato nella realtà a rappresentare le note eroiche di quel cristianesimo pugnace e sempre militante che è il vero cristianesimo manzoniano. Egli diventa una figura di guida per i due innamorati, soprattutto per Renzo in cui si immedesima, cerca sempre di dissuaderlo da azioni avventate poiché teme che il giovane possa commettere un errore simile al suo, infatti gli ricorda spesso di potare pazienza e di non agire inconsciamente. Celebre è il suo comportamento nella scena del perdono (capitolo IV) dove in ginocchio chiede scusa al fratello dell'ucciso e per la sincerità e la carità dei suoi sentimenti le sue parole suonano tremule ma sincere, e il suo volto traspare di umiltà e pentimento; alla fine, prima di partire, a Cristoforo viene donato dal gentiluomo un pane, come "segno del suo perdono". Il secondo è presentato ormai sul limitare della vecchiaia, e roso interiormente dai dubbi di una vita condotta a perpetrare assassini e altre scelleratezze nei confronti dei più deboli. Incaricatosi di rapire Lucia dal monastero di Monza con un inganno, l'Innominato si lascia turbare dalla semplicità e dalla fragilità emotiva della giovane, che scatenano in lui un turbamento interiore che si protrae per tutta la notte. All'alba la notizia dell'arrivo del cardinale Federico Borromeo lo devia dall’uccidersi, spingendolo anzi a recarsi al villaggio vicino per parlare col cardinale che lo spinge definitivamente alla conversione. Anche i due innamorati, figure umili, vengono considerate eroi. Lucia è un personaggio caritatevole che non perde mai la speranza in Dio infatti prega assiduamente ed intensamente, quando ogni speranza sembra crollare, la preghiera è il suo porto sicuro, è la riconquista della calma e della fiducia. Ella simboleggia l'accordo, fra il dovere religioso ed il legittimo sentimento d'amore. Ella ama il suo promesso sposo con amore intenso, vivissimo, ma la pazienza calibra sempre le sue azioni attentamente.

Renzo è un’anima semplice ed ottimista che conosce il male del mondo nei soprusi degli uomini potenti, ma non è disposto a lasciarsi piegare da loro, è un ingenuo che conosce poco del mondo e quindi facile ad esser preso dagli avvenimenti esterni, ma nello stesso tempo è abbastanza accorto ed intelligente per cavarsi d'impaccio o mettersi in salvo. Egli si commuove davanti ai poveri e dà loro quello che ha, prega di fronte alla madre di Cecilia e davanti a don Rodrigo agonizzante, perdonandogli tutto il male ricevuto. Alla fine il suo carattere impetuoso e poco riflessivo che viene placato dalla vista del morente Don Rodrigo poiché lo vede non più come nemico ma come semplice uomo e ciò gli fa acquistare la pazienza....


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