Mos italicus PDF

Title Mos italicus
Author Fatmir Shekaj
Course Storia Moderna
Institution Università degli Studi di Roma Tor Vergata
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Summary

mos italicus/mos gallicus...


Description

mos italicus/mos gallicus La coppia di concetti mos italicus/mos gallicus entrò in uso nel Cinquecento, allorché la metodologia nuova dell’Umanesimo giuridico – che si affermò soprattutto in Francia (da qui il nome: mos gallicus) – penetrò nella cultura e nell’insegnamento del diritto, proponendosi con tratti differenti da quelli tradizionali irradiati dagli studia italiani. Se a prima vista essa indica una contrapposizione tra due accostamenti allo studio del diritto, storiograficamente il problema da affrontare è quello dell’impatto della nuova metodologia sui canoni consolidati della scienza giuridica tardomedievale, che suole anche denominarsi bartolismo (da Bartolo da Sassoferrato). L’Umanesimo si era affermato in Italia nel Trecento, in coincidenza con il nascere di nuove forme di organizzazione della vita civile. Il tramonto della civiltà comunale e la sua trasformazione in signorie, la crisi dell’impero e il declino del papato si combinarono a eventi bellici e a sciagure come la grande peste, e investirono gli ordinamenti, incidendo profondamente sugli aggregati sociali e sulle collocazioni dei ceti e delle élites. La spinta alla revisione delle mentalità e della cultura avvenne in questo quadro, e si manifestò con uno spirito critico che finì per mettere in discussione dogmi consolidati e principio di autorità. In un mondo sempre più connotato da contrasti e violenze, ma anche da speranze e aspirazioni a riorganizzare la società politica, come protagonisti dell’ordine su cui puntare apparivano ora l’uomo, formatosi negli studia humanitatis, e le istituzioni del potere, nelle varie forme in cui esse andavano costruendosi. La nuova sensibilità artistica rendeva evidente il rivolgimento incentrato su questi poli: l’esigenza di riappropriarsi della filosofia e delle lettere si manifestava con una spinta che vedeva impegnati le nuove figure insediate nelle corti, committenti e mecenati, intellettuali e uomini di Stato, e guardava anche a una rinnovata funzione del diritto. Nessun dubbio che già nel tardo Medioevo italiano il mondo del diritto si dimostrasse permeabile all’Umanesimo, manifestando: a) una certa cura per la pulizia dei concetti e del linguaggio;

b) una qualche applicazione di criteri filologici e strumenti storici alle fonti, che, come espressioni di un diritto ricondotto all’uomo, dovevano essere riportate al tempo e al testo originari; l’attitudine filologico-storica cominciò a riguardare il Corpus iuris e in genere i documenti rilevanti per l’esperienza giuridico-politica, come quello contenente la supposta donazione di Costantino, di cui Lorenzo Valla – non a caso anche autore dell’invettiva contro Bartolo – dimostrò definitivamente la falsità; riguardò inoltre la stessa produzione dei giuristi (per es., la ricerca della paternità effettiva delle opere attribuite a Bartolo); c) l’accentuata attenzione per la varietà delle fonti giuridiche e per il diritto posto dall’autorità (lex), con la conseguente propensione ad apprezzare la diversificazione del diritto; d) l’interesse per il diritto pubblico, studiato in forma specifica e in evidente collegamento con le forme attuali di potere (ne è una spia il frequente impiego dei giuristi per missioni diplomatiche); e) la fondazione e gestione dirigistica delle università. E tuttavia l’Umanesimo, pur presente come cultura critica e di stimolo, penetrò diffusamente nel campo del diritto solo agli inizi del Cinquecento, in presenza di condizioni nuove. Innanzi tutto, l’incontro con il mondo americano, ignoto, sconfinato, strutturalmente autonomo. Ben presto fu evidente che i rapporti con le popolazioni (numerose e già organizzate secondo proprie istituzioni) e con le terre non potevano essere gestiti con il vecchio strumentario tecnico-giuridico, ma sarebbe stato necessario uno sforzo di reimpostazione delle ideologie e del diritto. In secondo luogo, la formazione di entità statuali forti, che tendevano a costruirsi con obiettivi e spirito unitario. Si trattava di un’emersione che non fece venire meno il pluralismo di ceti e dei centri di potere, ma che comunque postulava la revisione dei rapporti tra le fonti del diritto (si guardava alla legge come strumento di certezza e di disciplinamento), il rinnovamento delle magistrature e in generale della funzione dei giuristi.

In terzo luogo, l’invenzione e la diffusione della stampa. Il nuovo mezzo funse da volano nell’accrescere la circolazione delle idee. Le scoperte di documenti storici erano messe a disposizione di un pubblico relativamente vasto e a loro volta innescavano ulteriori prospettive di ricerca, i classici erano riediti e meditati con gli strumenti filologici nuovi, si ampliavano la conoscenze e gli aspetti critici della cultura. Gli studia non erano più i principali luoghi depositari di scritti, e dunque si allargavano i centri di riflessione intellettuale, con due conseguenze apparentemente contraddittorie ma tra loro collegate: l’accentuarsi dello specialismo delle discipline – per es., la politica si distinse dall’etica e dal diritto – e l’arricchirsi delle discipline tradizionali (quali la giurisprudenza) con le suggestioni derivanti dalle altre scienze o arti (la filosofia, la storia, l’etica e la retorica). Diventava possibile parlare di res publica dei letterati, di cui il giurista umanista faceva parte a tutti gli effetti. Infine, lo scisma della Chiesa e la riforma protestante: fenomeni che rientravano pure nella cultura dell’Umanesimo, e che a loro volta accentuavano il processo di relativizzazione degli ordinamenti e la costruzione di un nuovo ordine inter gentes. Tutto ciò spiega perché l’Umanesimo giuridico spesso propose le opere più originali al di fuori dei canali accademici, anche se lo Studio di Bourges divenne la roccaforte dei nuovi gusti culti, annoverando quali insegnanti molti dei principali esponenti dell’Umanesimo giuridico, da Andrea Alciato in poi. Si trattava di una cultura cosmopolita, che nel contempo era attenta alla singola polis e che si esprimeva come una ideologia 'del fare', sia tra quanti focalizzavano l’interesse verso un ordine fondato sull’equità, sia tra coloro che preferivano badare ai profili utilitaristici del diritto. L’aspetto più vistoso della penetrazione dell’Umanesimo nel diritto fu il mutare della considerazione dei due corpi normativi attorno a cui era stato costruita la riflessione dei giuristi medievali. Quello canonico era violentemente attaccato nelle terre protestanti perché ritenuto espressione della Chiesa di Roma, e per lo più sostituito con le fonti dirette dell’Antico e Nuovo testamento; ma anche nei Paesi cattolici, esso andò trasformando le sue funzioni, per la spinta alla semplificazione e alla certezza (che produsse

l’esigenza di disporre di un manuale con i capisaldi della materia) e alla formazione di norme ecclesiastiche nazionali. Quanto alla compilazione giustinianea, se ne accreditava l’immagine di testimonianza del passato. Non essendo più diritto vigente, cadeva anche la concezione che essa fosse di per sé espressione di ordine e armonia: un ius civile riportato al primitivo significato di diritto di un ordinamento particolare (la civitas Romanorum) da studiare per l’utilità che la storia offre per il presente. E questa utilità era sostanzialmente rinvenuta nel tesoro di soluzioni ragionevoli (rationes) depositate nel Corpus. Gli atteggiamenti umanisti nei confronti del diritto possono sintetizzarsi come segue. In primo luogo, la propensione a storicizzare le fonti, che spiega la ricerca di antichi documenti della giurisprudenza e della legislazione romana, il raffronto tra le fonti precedenti e la compilazione giustinianea, lo scavo entro quest’ultima, smontata attraverso una nuova esegesi. Tale lavorio consentiva al giurista di far propri i testi come oggetto di conoscenza, e contemporaneamente ne segnava il distacco, perché essi venivano relativizzati come un prodotto storico. Quindi, l’aspirazione a sistemare razionalmente il diritto. I commentatori avevano utilizzato la compilazione giustinianea per trarne rationes sempre più attualizzate, ferma restando l’indiscussa autorità delle leges, e proprio per le costruzioni arbitrarie che si venivano a sovrapporre al testo essi venivano criticati dagli umanisti. Con i culti il Corpus tendeva a essere considerato come un deposito di materiali di ragione, ma non più in maniera esclusiva: un deposito non ordinato e non ordinante, per il semplice dato della sua storicità. Quei materiali, inoltre, abbisognavano di essere pazientemente colti e incastonati in un’armatura fondata su una dialettica rinnovata. Infine, la spinta alla raccolta, edizione e studio delle fonti del diritto patrio. Era un altro risvolto dell’attitudine a storicizzare il diritto: relativizzati e ridotti a una funzione di 'deposito' di principi i due grandi corpora iuris, si trattava di accertare, sistemare, studiare le fonti effettivamente vigenti nell’ordinamento dato.

Questi tre atteggiamenti erano tra loro legati, ma non sempre si trovano congiunti e nella medesima misura in ciascun giurista, a riprova che l’opera degli umanisti è difficilmente inquadrabile entro schemi precostituiti. La storiografia ci ha provato e per lo più ha proposto due distinzioni di massima, volte, da un lato, a individuare al suo interno i diversi filoni dell’Umanesimo e, dall’altro, a rimarcare i connotati essenziali del cultismo rispetto alla scienza tradizionale. Sotto il primo profilo, sin dalla storiografia ottocentesca (Stintzing 1880) si è prospettata la distinzione tra indirizzo erudito, attento all’indagine storico-filologica dei testi, e indirizzo sistematico, volto a redigere in artem (in maniera logica e sistematica) la materia giuridica. Sotto il secondo profilo si è scolpita la contrapposizione tra mos italicus e mos gallicus. Se ne parlerà, rispettivamente, nei prossimi paragrafi. Indagine storico-filologica e costruzione del sistema nel mos gallicus La prima distinzione può servire a fornire una prima idea degli interessi della scuola culta; ma non conviene enfatizzarla, onde evitare di limitare, per esigenze classificatorie, la ricchezza propria del mondo umanistico. Insomma, se appare utile riconoscere una propensione di tipo erudito e un’altra di tipo sistematico, esse però si intrecciavano in seno alle tante forme di umanesimo, manifestandosi anche nei percorsi di uno stesso autore. I caratteri salienti delle opere culte sembrano essere i seguenti. I generi letterari utilizzati. La loro diversificazione è imponente, e mostra forme tipicamente umanistiche. Divennero di moda le epistulae (come quella De ratione docendi, discendique iuris conscripta, del 1544, indirizzata da Francesco Duareno [François Duaren o Douaren] ad André Guillart [o Guillard], autentico manifesto sull’insegnamento e apprendimento del diritto) e i pamphlets di battaglia politico-intellettuale (come l’ Antitribonian, 1567, di François Hotman), spesso rivolti a un pubblico più vasto che non quello dei giuristi. Soprattutto, l’insegnamento acquisì modalità espressive specifiche: orazioni o prolusiones vennero adoperate per introduzioni metodologiche o programmatiche, mentre si diffusero i manuali esemplati sulla falsariga

delle Istituzioni giustinianee, con indicazioni sul diritto praticato.

trattazioni

agili

e

stringate

La lingua. La ricerca dei valori fondanti delle varie civiltà, a cominciare da quelle classiche, indusse gli umanisti ad appropriarsi delle lingue antiche: il greco, in particolare, divenne patrimonio comune dei giuristi culti. D’altro canto, la dimensione pratica dello studio e l’accentuata consapevolezza del variare delle storie dell’uomo portavano a occuparsi della propria civiltà (istituzioni, consuetudini, credenze religiose) maneggiando gli strumenti più adatti per divulgarla. Da qui una spinta verso l’uso delle lingue nazionali. Nel campo del diritto questa direttrice si raccordava ai bisogni di accertamento e di semplificazione del mondo dei pratici (notai, giudici, ufficiali delle istituzioni cittadine, ecc.), che utilizzavano il volgare negli atti processuali e nel dar forma ai negozi. S’intende, poi, che l’affermazione del volgare negli usi giuridici fu favorita dal proliferare delle normative locali e principesche. Le fonti. In generale il Corpus iuris mantenne un posto centrale nell’insegnamento, ma la scienza giuridica umanistica allargò il proprio spettro d’indagine. Andò a caccia di fonti antiche e, ora che graeca leguntur, di testi della legislazione e giurisprudenza bizantine. Si dedicò inoltre al diritto nuovo, non solo di matrice regia, ma anche quello consuetudinario. Sotto quest’ultimo profilo, dagli inizi del Cinquecento in Francia è significativa l’attività di redazione e di commento delle coutumes, che segna una saldatura tra l’azione del sovrano, la giurisprudenza pratica e la dottrina di scuola. La ricerca di un 'sistema ordinato'. La proposta di riordinamento del diritto espressa nel 1508 dal padre degli umanisti francesi, Guillaume Budé (Annotationes in quatuor et viginti Pandectarum libros), ricevette vasta eco nel corso del secolo. Talora dominava l’esigenza della sintesi e della chiarezza, che spesso si esprimeva nella formulazione di un compendio racchiuso in tavole schematiche (è il caso della Iuris universi distributio di Jean Bodin nella sua prima edizione del 1578); talaltra prevaleva l’obiettivo di disporre organicamente la materia entro una partizione basilare, fosse quella gaiano-giustinianea (personae, res, actiones), o un suo derivato (è il caso di François de Connan, che intese per actiones i negozi giuridici e non lo

strumento per agire in giudizio) o ancora uno schema nuovo (è il caso di Nicolaus Vigelius [Nikolaus Vigel] e di Hermann Vultejus). In tutti gli orientamenti la questione del redigere in artem il diritto significò uno sforzo per impiegare strumenti logici, principi filosofici e contenuti almeno parzialmente nuovi. Le prime sistemazioni furono tentate già negli anni Trenta e Quaranta nell’area tedesca – è un dato che mette in guardia dal confinare l’esperienza complessiva dell’umanesimo giuridico in terra francese –, ove, nel fertile ambiente della cultura luterana e grazie anche all’insegnamento di Filippo Melantone (Philipp Schwarzerdt), circolavano opere rinnovate di logica e si affermò la tendenza a introdurre nel diritto principi tratti dal cristianesimo delle origini (Berman 2003). Furono comunque due giuristi francesi, François de Connan (15081551) e Hugues Doneau (Ugo Donello, 1527-1591), a distinguersi: il primo trasfigurò i materiali del corpus giustinianeo in una versione razionalizzata e ispirata ai principi filosofici neoaristotelici (Commentarii iuris civilis, 1553), mentre il secondo offrì una sintesi (ma in forma alquanto prolissa) di un sistema saldamente incentrato sull’uomo (Commentarii de jure civili, 5 voll., 15891596). Le opere di de Connan e di Doneau comunque hanno caratteri comuni, come sistemazioni razionali del diritto privato su basi giusnaturalistiche. Premesso che il diritto doveva rispecchiare l’ordine naturale delle cose, essi procedevano attraverso l’esposizione dei principi, la definizione degli istituti e la successiva articolazione delle regole. Dato questo impianto, si comprende come le trattazioni si distaccassero dalla compilazione giustinianea, pur richiamandovisi continuamente. Quest’ultima veniva sì nobilitata con la considerazione che esprimesse la ratio scripta, ma a prezzo di una condanna a morte del diritto comune (Cortese 2000, pp. 410-11) in nome delle costruzioni giusnaturalistiche. Le due opere pretendevano di essere espressione di ragione, e quindi questa era la loro fonte autoritativa, non più l’antico corpus sanzionato da Giustiniano. Al centro della redazione in artem del diritto venivano posti gli elementi fondanti e comuni delle diverse esperienze, nella consapevolezza che il diritto non si identifica con le leggi (ben possono darsi leggi

antigiuridiche, per es. da parte dei tiranni), né con le opinioni dottrinali (di per sé arbitrarie e incerte). Per lo più gli sforzi sistematici si rivolsero nel Cinquecento al campo privatistico, e questo dato sembrerebbe accreditare l’idea che il diritto sistemabile fosse unicamente quello riguardante le relazioni interpersonali, quasi che la relativa disciplina (il diritto privato) fosse espressione costante, a differenza del diritto pubblico, più legato alle contingenze e a una regolamentazione arbitraria. Ma, come esplicitava Doneau, anche il diritto pubblico muoveva da principi razionali ed era del resto pensabile solo come ambito funzionale al privato, da cui mutuava la nomenclatura e le categorie. La sensibilità per l’autonomia di nuove materie. Come si è intravisto poc’anzi, la cultura umanistica si interessava alla materia pubblicistica: di solito, come in Francia, al di fuori delle aule scolastiche, sia per il coinvolgimento dell’alta magistratura nelle questioni più rilevanti del diritto pubblico (ivi compresi i rapporti con la Chiesa), sia perché le vicende politico-religiose che presero la forma di guerra civile portarono in primo piano la questione della sovranità. Ciò spingeva a ricostruire storicamente, anche con l’aiuto dei modelli classici, il processo attraverso cui la struttura istituzionale e le norme pubblicistiche si erano affermate. È in questo quadro che opera la riflessione di Jean Bodin, sia sul piano della metodologia storica (Methodus ad facilem historiarum cognitionem, 1566), sia sul piano teorico della sovranità (Les six livres de la République, 1576). Nella prefazione della Methodus, dopo aver sostenuto che ogni scienza doveva basarsi su princìpi universali, Bodin criticava i giuristi intenti a rimasticare il ius civile (Romanorum), cioè il diritto di un ordinamento particolare, privo di ordine e storicamente passato. Nell’esperienza quotidiana si rinnovavano continuamente leggi, costumi, istituzioni: con il bagaglio delle humanae litterae, che gli consentiva di padroneggiare la storia e il metodo, e altresì con l’uso della filosofia, il giurista doveva cimentarsi nel presente, secondo la duplice dimensione del diritto, relativistica e mutevole eppure razionale e universale. Un altro giurista, Franҫois Baudouin (1520-1573), esortava ad accantonare le leptologias (sottigliezze, sofisticherie) e ad aprire

gli orizzonti ai tanti aspetti del vivere organizzato che attenevano al diritto pubblico: quelli de gubernatione Reipublicae, de bello, de pace, de foederibus, de vectigalibus. Insomma: riscoperta del diritto pubblico come nodo della giurisprudenza e settore in cui in primo luogo si esplicava l’impegno civile del giurista. E, in quell’ambito, un posto centrale ebbe la materia criminale, in uno sforzo teso a enucleare modelli di giustizia imperniati sull’idea del reato come offesa pubblica e a ridisegnare complessivamente il processo. I contenuti. L’attenzione per la prassi costituiva uno stimolo continuo a rinnovare costruzioni e soluzioni giuridiche. La stessa attitudine critica nei confronti delle elaborazioni «gotiche e deformi» dei giuristi medievali imponeva un ritorno al testo classico, salva però la possibilità di produrre nuove soluzioni con l’elastico ricorso alla ratio scripta. Infine la methodus, che non era solo armatura formale bensì strumento di ritrovamento e di disposizione ordinata di argomentazioni, consentiva al giurista di sottrarsi a schemi e istituti precostituiti. Si può pensare, per es., alla differenziazione della categoria della proprietà da quella dei diritti su cosa altrui, connessa alla centralità che il proprium del soggetto andava assumendo nelle sistemazioni umanistiche. O ancora alla enucleazione di parti generali comuni a un’intera branca di istituti, sia nel campo del diritto penale (T. Deciani, Tractatus criminalis [...], 1590), sia nella materia dei contratti, ove tese a costruirsi una categoria generale di contratto a partire dalla sua definizione (conventio cum causa): una definizione onnicomprensiva dei singoli tipi, incentrata sull’accordo delle parti (conventio) che, proprio in quanto munito di causa, era protetto dall’ordinamento. Il mos italicus Che gli ambienti italiani fossero, in chiusura dell’età medievale, 'territori' di mos italicus, ovvero ambiti ove perduravano il metodo e la pratica della scu...


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