NascitaDellaClinica_Foucault PDF

Title NascitaDellaClinica_Foucault
Course Pedagogia generale
Institution Università di Pisa
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Summary

Riassunto, analisi e passi scelti dell'opera di M Foucault...


Description

FOUCAULT Notiamo dunque una crescita abbastanza lenta del numero dei folli - almeno. degli ìnternati riconosciuti e catalogati come tali - lungo tutto il XVIII secolo, un passaggio al massimo negli anni 1285-1788, poi una caduta brusca a partire dall’inizio della Rivoluzione. Attraverso tutta l’Europa si può osservare la stessa cosa. Improvvisamente si ricomincia a praticare il vecchio internamento dei folli già adottato al tempo della Renaissance. Si direbbe trattarsi di una nuova esclusione all’interno della vecchia, come se fosse stato necessario questo nuovo esilio perché la follia trovasse infine il proprio posto, una patria che le è congeniale. La presenza dei folli tra i prigionieri non costituisce il limite scandaloso dell’internamento, ma la sua verità; non ne è l’abuso, ma l’essenza. La polemica del XVIII secolo contro l’internamento si dirige sì contro la promiscuità di folli e di sani di mente; ma non contro il rapporto fondamentale che è ammesso tra i folli e l’internamento. Questo rapporto non è mai in discussione, qualunque atteggiamento si adotti. Il fatto è che a partire dal 1770, e per tutto il periodo della successiva recessione, la pratica dell’internamento comincia a diminuire; alla nuova crisi che si presenta non si risponderà più con l’internamento, ma con misure che tendono a limitano. Tutta la politica tradizionale dell’assistenza e della repressione della disoccupazione è rimessa in causa. Una riforma si impone. L’indigenza diventa una questione economica. Ma non contingente, né destinata a essere soppressa per sempre. C’è una certa quantità di miseria che non si riuscirà a far sparire. Questo fondo di miseria è in qualche modo inalienabile. Questa parte di povertà è necessaria perché non si può sopprimerla, ma anche perché rende possibile la ricchezza. Lavorando, e consumando poco, la classe dei bisognosi consente a una nazione di arricchirsi, di valorizzare i propri campi, le colonie, le miniere, di fabbricare prodotti che saranno messi in vendita nel mondo intero; insomma, un popolo che non avesse poveri sarebbe povero. L’indigenza diventa un elemento indispensabile nello stato. In essa si nasconde la vita più segreta ma più reale d’una Società. I poveri formano il substrato e la gloria delle nazioni. E la loro miseria, che non si riesce a sopprimere, dev’essere esaltata e rispettata. Nell’economia mercantilista, non essendo né produttore né consumatore, il Povero non aveva posto: ozioso, vagabondo, disoccupato, non apparteneva che all’internamento, sistema per cui si trovava esiliato e come astratto dalla società. Con l’industria nascente che ha bisogno di braccia, egli fa parte di nuovo del corpo della nazione. Fisiocrati ed economisti sono d’accordo. La popolazione è in se stessa uno degli elementi della ricchezza, di cui costituisce, oltre tutto, la fonte certa e inesauribile. Una popolazione sarà, paradossalmente, tanto più preziosa quanto più sarà numerosa, poiché offrirà all’industria manodopera a buon mercato: il che, abbassando il prezzo di costo, consentirà uno sviluppo della produzione e del commercio. Il grossolano errore dell’internamento, è uno sbaglio economico: si crede di poter sopprimere la miseria mettendo fuori corso e mantenendo per carità una popolazione povera. In realtà si maschera artificialmente la povertà; e si sopprime effettivamente una parte della Popolazione, ricchezza sempre presente. Utilizzare i poveri, i vagabondi, gli esiliati e gli emigrati d’ogni sorta è uno dei segreti della ricchezza, nella concorrenza tra le nazioni. La libertà è la sola forma di assistenza che sia valida: “Ogni uomo sano deve procurarsi da vivere col proprio lavoro, perché, se fosse nutrito senza lavorare, lo sarebbe a spese di quelli che lavorano. Ecco ciò che lo stato deve fare per ciascuno dei suoi membri: sopprimere gli ostacoli che lo intralcerebbero. Al contrario il malato è un peso morto, rappresenta un elemento “passivo, inerte, negativo”, poiché non interviene nella società se non quale mero consumatore. Occorre dunque dissociare, nel vecchio concetto di ospitalizzazione, ciò che vi si trovava confusamente mescolato: l’elemento positivo dell’indigenza e il fardello della malattia. E il povero malato? Soltanto !1

lui, reclama un’assistenza integrale. Così, mentre tutte le altre figure imprigionate tendono a sfuggire all’internamento, la sola follia vi resta, ultimo relitto, estrema testimonianza di questa pratica che fu essenziale al mondo classico, ma il cui senso ci appare ora misterioso. E per la prima volta, nel mondo cristiano, la malattia si trova isolata dalla povertà e da tutte le figure della miseria. E alla fine del XVIII secolo riappare la follia stessa, condannata ancora alla vecchia terra di esclusione, come il delitto, ma altresì messa a confronto con tutti i nuovi problemi che implica l’assistenza dei malati. Ecco dunque la follia restituita a una specie di solitudine. La follia viene liberata prima di Pinel, e non da coercizioni materiali che la trattengono in prigione, ma da un asservimento molto più vincolante, forse più decisivo, che la tiene sotto il dominio di questo oscuro potere. Essa è libera anche prima della Rivoluzione: libera per una sensibilità che la individualizza, libera per il riconoscimento dei suoi volti singolari e per tutto il lavoro che le darà infine il suo statuto di oggetto. Staccata dalle vecchie parentele e lasciata sola, tra i muri sgretolati dell’internamento, la follia pone un problema e delle domande fino ad allora mai formulate. Essa ha soprattutto messo in imbarazzo il legislatore, il quale, non potendo fare a meno di sanzionare la fine dell’internamento, non sapeva più in quale punto dello spazio sociale situarla: prigione, ospedale o assistenza familiare? (…) La prima tappa: ridurre quanto più è possibile la pratica dell’internamento per quel che riguarda le colpe morali, i conflitti familiari, gli aspetti più benigni del libertinaggio, ma conservarla nel suo principio e nel suo significato essenziale: l’internamento dei folli. La seconda tappa è quella delle grandi inchieste prescritte dall’Assemblea nazionale e dalla Costituente all’indomani della Dichiarazione dei diritti dell’uomo: l’era dell’internamento è finita. Rimane soltanto un imprigionamento in cui per ora stanno insieme i criminali condannati o presunti e i folli. Se i folli avviliscono coloro ai quali si ha l’imprudenza di mescolarli, bisogna riservare loro un internamento speciale. Terza tappa, la grande serie dei decreti promulgati tra il 12 e il I6 marzo 1790. L’internamento è dunque definitivamente riservato a certe categorie di condannati e ai pazzi. Ma per questi ultimi si prevede una sistemazione: “Le persone detenute per demenza saranno interrogate dai giudici, visitate dai medici dopo la sentenza emessa circa le loro condizioni, o vengano scarcerati, o curati in ospedali che saranno indicati a tale scopo.” Il fatto è che le difficoltà sono numerose, e anzitutto che non esistono ospedali destinati o almeno riservati ai folli. Di fronte a queste difficoltà materiali, cui si aggiungono tante incertezze teoriche, comincerà una lunga fase di esitazioni. Occorre dunque guardarsi bene dal cercare negli anni della riforma di Pinel e dì Tuke qualcosa come il riconoscimento positivo della follia o l’inizio di un trattamento umano degli alienati. Per molto tempo il pensiero medico e la pratica dell’internamento erano rimasti estranei l’uno all’altro. Alla fine del XVIII secolo queste due figure si avvicinano, nel disegno di una prima convergenza. Non si tratta di un’illuminazione e nemmeno di una presa di coscienza che avrebbe concepito gli internati come malati; ma di un lavorio puro in cui si sono misurati il vecchio spazio di esclusione omogeneo, uniforme, rigorosamente limitato, e questo spazio sociale dell’assistenza che il XVIII secolo ha appena spezzato, reso polimorfo, segmentandolo secondo le forme psicologiche e morali della dedizione. Ma il nuovo spazio non è adatto ai problemi caratteristici della follia. Se si obbligavano i poveri validi a lavorare, se si affidava alle famiglie la cura dei malati, non si poteva consentire che i pazzi si mescolassero alla società. La società borghese, mentre si sente innocente davanti alla miseria, riconosce la propria responsabilità davanti alla follia e intuisce che deve proteggerne l’uomo privato. Nell’epoca in cui malattia e povertà diventavano per la prima volta nel mondo cristiano cose private, non appartenendo che alla sfera degli individui o delle famiglie, la follia, per questo stesso !2

fatto, reclama uno statuto pubblico e la definizione di uno spazio di confino che garantisca la società dai suoi pericoli. Un tempo si curava all’Hbtel-Dieu e si rinchiudeva a Bicetre. Ora si progetta una forma d’internamento in cui la funzione medica e quella di esclusione siano a volta a volta presenti, all’interno di un’unica struttura. L’internamento dev’essere dunque spazio di verità oltre che spazio di coercizione, e non può essere quest’ultimo se non a condizione di esser anche l’altro. Per la prima volta viene formulata questa idea che ha tanta importanza in tutta la storia della psichiatria fino alla liberazione psicanalitica Con Tenon e Cabanis il passo essenziale è compiuto: l’internamento ha acquistato i suoi titoli di nobiltà medica, è diventato un luogo di guarigione. Il fatto importante è che tale trasformazione della casa d’internamento in asilo è avvenuta non per l’introduzione progressiva della medicina, ma attraverso una nuova struttura interna di questo spazio al quale l’età classica non aveva dato altra funzione che quella di escludere e di correggere. L’alterazione progressiva dei suoi significati sociali, la critica politica della repressione e la critica economica dell’assistenza, l’appropriazione di tutto il terreno dell’internamento da parte della follia, mentre tutti gli altri aspetti della sragione ne erano a poco a poco liberati, tutto ciò ha fatto dell’internamento un luogo doppiamente privilegiato per la follia: il luogo della sua verità e il luogo della sua abolizione. Non è stato il pensiero medico a forzare le porte dell’internamento; se oggi i medici regnano nell’asilo, non è per un diritto di conquista o grazie alla forza viva della loro filantropia o al loro scrupolo di obiettività scientifica. ~ perché l’internamento stesso ha preso a poco a poco un valore terapeutico, e questo è avvenuto con una revisione di tutti gli atteggiamenti sociali o politici, di tutti i riti, immaginari o morali, che da più di un secolo avevano scongiurato la follia e la sragione. Il problema della follia non è più considerato dal punto di vista della ragione e dell’ordine, ma dal punto di vista del diritto dell’individuo libero. Ma con Cabanis la libertà è diventata per l’uomo una natura; ciò che ne impedisce legittimamente l’uso deve avere alterato per forza le forme naturali ch’essa assume nell’uomo. L’internamento del folle, allora, non può essere altro che la sanzione di uno stato di fatto, la traduzione in termini giuridici di un’abolizione della libertà già acquisita sul piano psicologico. La scomparsa della libertà, che prima era una conseguenza, diviene ora il fondamento, il segreto, l’essenza della follia. E proprio quest’essenza deve prescrivere le restrizioni che bisogna imporre alla libertà materiale degli insensati. Si rende necessario un controllo, che dovrà interrogare la follia su quanto la riguarda, e per il quale (fino a tal punto la sparizione della libertà resta ancora ambigua) verranno convocati indistintamente magistrati, giuristi, medici, e anche persone semplicemente esperte. L’internamento dovrà funzionare come una specie di misura permanente della follia, adeguarsi senza sosta alla sua mutevole verità, e non ricorrere alla costrizione se non là dove e nei limiti in cui la libertà si aliena: “L’umanità, la giustizia e la buona medicina prescrivono di rinchiudere solo i folli che praticamente possano nuocere agli altri; d’incatenare soltanto quelli che, altrimenti, nuocerebbero a se stessi”. La giustizia che regnerà nell’asilo non sarà più quella della punizione, ma quella della verità. E la forma concreta di tale giustizia e suo simbolo visibile non si trovano più nella catena ma in quella che sta per diventare la famosa camicia di forza. E Cabanis arriva per questa via alla curiosa idea (certo la più nuova) di un “diario di asilo”. Nell’internamento classico la sragione era, in senso stretto, ridotta al silenzio. Allora la follia era smemorata, e l’internamento rappresentava il sigillo di quella sua smemorataggine. Ormai esso è, viceversa, ciò in cui la follia formula la propria verità; esso deve segnarne a ogni istante le misure, in esso la follia si compendierà, giungendo così al punto decisivo. La follia conquista così alcune regioni della verità che la sragione non aveva mai raggiunto: il suo passato e la sua evoluzione fanno parte della sua verità. !3

Ecco la follia offerta agli sguardi. Essa lo era già nell’internamento classico, allorché presentava lo spettacolo della propria animalità; ma lo sguardo che si dirigeva su di essa era allora uno sguardo affascinato, nel senso che l’uomo contemplava in quella figura così estranea un’animalità che era anche la sua, e che riconosceva in modo confuso come indefinitamente vicina e indefinitamente lontana; quest’esistenza, resa inumana da una mostruosità in delirio e posta nel punto più lontano del mondo, era quella ch’egli stesso provava in segreto. Lo sguardo diretto ora sulla follia non possiede più tante complicità; esso è diretto verso un oggetto raggiunto attraverso il solo intermediario di una verità discorsiva già formulata; la follia diventa oggetto. E se si volesse riepilogare in breve tutta questa evoluzione, si potrebbe dire che la caratteristica dell’esperienza della Sragione è che la follia vi era soggetto di se stessa; mentre invece, nell’esperienza che si forma alla fine del XVIII secolo, la follia è alienata in rapporto a se stessa nello statuto di oggetto ch’essa riceve. Per Pinel la ragione è rappresentata da tipi sociali cristallizzati molto presto, fin dal momento in cui il folle ha cessato d’esser trattato come lo Straniero, come l’Animale, come una figura assolutamente estranea all’uomo e ai rapporti umani. Ciò che, secondo Pinel, costituisce la guarigione del folle è la stabilizzazione in un tipo sociale moralmente riconosciuto e approvato. Un asilo che non sia più una gabbia dell’uomo abbandonato alla propria barbarie, ma una specie di repubblica del sogno in cui rapporti non si stabiliscano se non in una trasparenza virtuosa. (…) Pinel è il simbolo della “buona libertà”, quella che, liberando i più violenti e i più insensati degli uomini, doma le loro passioni e li introduce nel mondo calmo delle virtù tradizionali. La liberazione nell’internamento, nella misura in cui è riedificazione di una società sul tema della conformità ai tipi, non può mancare di guarire. Il gesto di Tuke. Il Ritiro dovrà operare come strumento di segregazione: segregazione morale e religiosa, che cerchi di ricostituire intorno alla follia un ambiente il più possibile rassomigliante alla comunità dei quaccheri. E questo per due ragioni. La prima è che lo spettacolo del male è per ogni animo sensibile una sofferenza, l’origine di tutte quelle passioni nefaste e vive che sono l’orrore, l’odio, il disprezzo, e che originano e perpetuano la follia: la ragione principale è che la religione è insieme spontaneità e obbligo, e cosi detiene, nell’eclissi della ragione, le uniche forze atte a controbilanciare le violenze smisurate della follia. Incoraggiare l’influsso dei principi religiosi sullo spirito dell’insensato ha una grande importanza come metodo dì cura essa trasmette ciò che è invincibile nella ragione. Nel Ritiro la religione fa parte del movimento che indica malgrado tutto la ragione nella follia e che riporta dall’alienazione alla salute. La segregazione religiosa ha un senso molto preciso: non si tratta di preservare i malati dall’influsso profano dei non quaccheri, ma di porre l’alienato all’interno di un elemento morale in cui si troverà in conflitto con se stesso e con quanto lo circonda; si tratta di precostituirgli un ambiente in cui, lungi dall’essere protetto, sarà conservato in una perenne inquietudine, minacciata senza cessa dalla Legge e dalla Colpa. L’oscura colpevolezza che legava un tempo la colpa e la sragione è così spostata; il folle, come essere umano originariamente dotato di ragione, non è più colpevole della propria follia; ma il folle, come folle e all’interno di questa malattia della quale non è più colpevole, deve sentirsi responsabile di tutto ciò che in essa può turbare la morale e la società, e prendersela solo con se stesso per le punizioni che riceve. La colpevolezza non è più il rapporto che s’instaura tra il folle e l’uomo di ragione nella loro generalità; essa diventa a un tempo la forma di coesistenza concreta di ogni folle col suo guardiano, e la forma di coscienza che l’alienato deve prendere della propria follia. In realtà, Tuke ha fondato un asilo nel quale ha sostituito al libero terrore della follia l’angoscia chiusa della responsabilità: la paura ora non regna più dall’esterno delle prigioni; ora infierisce dall’interno delle coscienze. Con questa colpevolezza, il folle diventa oggetto !4

di punizione sempre offerto a se stesso e all’altro; e dal riconoscimento di questo statuto di oggetto, dalla presa di coscienza della propria colpevolezza, il folle deve risalire alla coscienza di sé come, soggetto libero e responsabile, e conseguentemente alla ragione. Questo movimento con cui l’alienazione ritorna alla propria libertà oggettivandosi per l’altro, lo si trova tanto nel Lavoro quanto nello Sguardo. Il lavoro viene in primo piano nella “cura morale” com’è praticata nel Ritiro. Il lavoro possiede in se stesso una forza di coercizione superiore a tutte le forme d’imposizione fisica, poiché la regolarità delle ore, l’esigenza dell’attenzione, l’obbligo di giungere a un risultato .staccano il malato da una libertà di spirito che gli sarebbe funesta e lo impegnano in un sistema di responsabilità. Anche nell’internamento classico il folle era offerto allo sguardo; ma in fondo quello sguardo non raggiungeva lui, sibbene soltanto la sua superficie mostruosa, la sua animalità visibile. Lo sguardo instaurato ora da Tuke come una delle grandi componenti dell’esistenza nell’asilo è, a un tempo, più profondo e meno reciproco. Esso deve cercare di spiare il folle nei sintomi meno sensibili della sua follia, là dove questa si articola segretamente sulla ragione e comincia appena a distaccarsene; e il folle non può restituire in nessun modo questo sguardo, essendo egli unicamente guardato: egli è considerato il nuovo venuto, l’ultimo arrivato nel mondo della ragione. Il folle è invitato a oggettivarsi davanti agli occhi della ragione ragionevole come lo straniero perfetto, cioè colui la cui estraneità non si lascia percepire. Sta nascendo qualcosa che non è più repressione, ma autorità. La vittoria della ragione sulla sragione un tempo era assicurata solo dalla forza materiale, in una specie di scontro reale. L’assenza di coercizione negli asili del XIX secolo non è sragione liberata, ma follia dominata da tempo. In Pinel non esiste nessuna segregazione religiosa. La religione non deve essere il substrato morale della vita dell’asilo, ma puramente e semplicemente un oggetto medico. Fonte di vive emozioni e d’immagini spaventose suscitate dal terrore dell’aldilà, il cattolicesimo provoca frequentemente la follia; esso fa nascere credenze deliranti, ingenera allucinazioni, conduce gli uomini alla disperazione e alla malinconia. L’ asilo deve dunque essere liberato della religione e di tutte le sue ipotetiche parentele; occorre ben guardarsi dal lasciare “ai malinconici per devozione” i loro libri di pietà; l’esperienza “insegna che questo è il modo più sicuro di perpetuare l’alienazione o perfino di renderla incurabile, e più si concede questo permesso, meno si riesce a calmare le inquietudini e gli scrupoli”. Ma Pinel vuole abolire le forme immaginarie della religione, non il suo contenuto morale. Riportata all’estrema semplicità del suo contenuto morale, la religione non può mancare di dare una mano alla filosofia, alla medicina, a tutte le forme di saggezza e di scienza tese a restaurare la ragione in uno spirito sconvol...


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