Riassunto-storia-del-pensiero-liberale-bedeschi-1 PDF

Title Riassunto-storia-del-pensiero-liberale-bedeschi-1
Author Carol Acanfora
Course Diritto della previdenza sociale 
Institution Università degli Studi di Salerno
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StuDocu non è sponsorizzato o supportato da nessuna università o ateneo.Riassunto storia del pensiero liberale bedeschi 1####### Storia delle Dottrine Politiche  (Università degli Studi di Bari)StuDocu non è sponsorizzato o supportato da nessuna università o ateneo.Riassunto storia del pensiero...


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Riassunto storia del pensiero liberale bedeschi 1 Storia delle Dottrine Politiche (Università degli Studi di Bari)

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Locke (1632-1704) 1- La teoria della proprietà privata Locke è un teorico della proprietà privata nonché un suo strenuo difensore. Egli a differenza di Hobbes la colloca nello stato di natura. Anche Grozio e Pufendor avevano fatto la stessa cosa, ma avevano attribuito alla proprietà un’origine convenzionale (gli uomini si accordano nello stato di natura per istituire la proprietà privata). Egli parte dal presupposto, ricavato dalle Sacre Scritture, che Dio, originariamente, ha dato la terra e tutte le cose in comune agli uomini per la loro sussistenza e per il conforto della loro esistenza. Sebbene tutti i frutti che la terra produce naturalmente e gli animali ch’essa nutre appartengono agli uomini in comune, vi deve necessariamente essere un mezzo per appropriarsene in qualche modo. Né può essere stato necessario un consenso degli altri affinchè qualcuno si appropriasse di qualcosa perché, se fosse stato necessario tale consenso, egli sarebbe morto di fame nonostante l’abbondanza che Dio gli ha dato. Locke dice che ognuno ha la proprietà della propria persona, alla quale ha diritto nessun altro che lui. Dalla proprietà che ognuno ha della propria persona e del proprio lavoro, Locke deduce la proprietà privata dei beni. Il lavoro insomma, che è proprietà incontestabile del lavoratore, pone una differenza tra i frutti comuni e i frutti dei quali si appropria, e così diventano proprietà di chi li ha lavorati. Lavorando la terra, coltivandola a beneficio della propria vita, un uomo stende su di essa qualcosa ch’era suo proprio, cioè a dire il suo lavoro. Il lavoro, per la prima volta nella storia del pensiero sociale e della filosofia politica, la clavis aurea (il concetto principale) della deduzione della proprietà privata. Si tratta di una concezione nuova che nella proprietà privata non vede più un qualcosa di statico, bensì qualcosa di dinamico, non più qualcosa dato da sempre oppure stabilito dagli uomini di comune accordo bensì qualcosa che è frutto dello sforzo e dell’attività economica dell’uomo. In un primo tempo Locke antepone dei limiti all’acquisizione della proprietà privata, superando i quali si commette ingiustizia verso gli altri. Si tratta di limiti morali. Il primo limite consiste nel fatto che debbono essere lasciate a disposizione degli altri cose sufficienti e altrettanto buone. Il secondo limite consiste nella concezione di Locke secondo la quale tutto ciò che scaturisce da un proprio lavoro ma non è strettamente necessario per il sostenimento della propria persona eccede e lede il diritto altrui. I due limiti si identificano, infatti entrambi si basano sul fatto che gli uomini, una volta nati, hanno diritto alla loro conservazione, a mangiare e a bere. Quindi non c’è tipo di lavoro che possa sottomettere o appropriarsi tutto, né fruizione che possa consumare più che una piccola parte, così che risulti impossibile che un uomo invada il diritto di un altro. Egli precisa che ci sarebbe terra sufficiente nel mondo da bastare al doppio di abitanti, se l’invenzione della moneta e il tacito accordo degli uomini a porvi valore, non avessero introdotto per consenso più ampi possessi e il diritto ad averli. L’invenzione e l’uso della moneta giustificano, cioè rendono possibili ma anche legittimi, possessi più ampi, cioè possessi che vanno al di là di quei giusti limiti in base ai quali ognuno doveva appropriarsi soltanto di quello che poteva consumare. Locke risulta dunque un ideologo della proprietà privata borghese, a favore dell’accumulazione illimitata di ricchezza. Egli pensa infatti che chi si appropria terra col suo lavoro non diminuisce, anzi aumenta, le scorte comuni dell’umanità. Perché ad esempio le provvigioni che servono per la sussistenza della vita umana prodotte da un solo jugero di terreno cintato e coltivato, sono dieci

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volte maggiori di quelle che sono prodotte da uno jugero di terra di eguale fertilità lasciata deserta in comune. Negare dunque il carattere borghese della teoria lockiana della proprietà è certamente impossibile. Tuttavia ci sbaglieremmo a limitarci a pensare che la sua teoria dell’origine della proprietà privata si riferisca unicamente a beni materiali. Soprattutto in riferimento al passaggio dallo stato naturale alla società civile o politica. Locke afferma che il fine maggiore e principale del fatto che gli uomini si uniscono in società politiche e si sottopongono a un governo è la conservazione della loro proprietà, che non è da intendere unicamente come beni mobili e immobili. In diversi punti del Secondo Trattato egli precisa che gli uomini si riuniscono in società politiche per la mutua conservazione della loro vite, libertà e averi. E’ questa libertà intesa come averi, vita e libertà la chiave di volta di una concezione molto elevata dell’uomo in quanto creatura razionale e morale, che la società politica fondata sul consenso deve tutelare e garantire. Purchè da queste teorie si evinca un carattere borghese non si può ridurre tale filosofia ad una difesa pura degli interessi della borghesia. Per Locke gli uomini costituiscono una società civile o politica per sottrarsi agli inconvenienti propri dello stato di natura. Tale stato infatti, inizialmente pacifico, a un certo punto si altera, e degenera in stato di guerra. E ciò perché in esso mancano le leggi positive e un giudice che le faccia rispettare, cosicchè gli uomini devono farsi giustizia da soli. Ma la giustizia esercitata di in tale modo sfocia facilmente in abusi e vendetta. Il potere civile o politico diventa quasi sempre più necessario per garantire i diritti e le libertà fondamentali degli individui, e per regolare i rapporti di uno stato naturale divenuto ormai variegato e complesso.

2- La società civile o politica Uno degli aspetti più interessanti e originali della concezione politica di Locke è costituito dalla sua analisi della natura del potere civile o politiche che egli distingue rigorosamente dal potere paterno quanto dal potere dispotico. Nel primo caso egli combatte la teoria di Filmer, nel secondo quella di Hobbes. Si tratta di una battaglia su due fronti ma con un unico obbiettivo: quello di elaborare una teoria del potere politico come potere limitato, che deve garantire l’armonica coesistenza degli individui senza ledere la loro libertà e i loro diritti fondamentali. Nel Patriarcha (1680) Filmer aveva sostenuto una teoria paternalistica del potere, e cioè il potere sovrano era stato trasmesso da Abramo ai suoi discendenti, sicchè anche il potere dei monarca non era che una forma del potere paterno. Contro tali tesi, Locke obietta in primo luogo che il potere paterno è in realtà potere dei genitori, quindi un potere duale. La ragione e la Rivelazione, afferma Locke, ci dicono che la madre ha gli stessi potere e diritti sui figli che ha il padre. In secondo luogo Locke sottolinea che il potere dei genitori sui figli è un potere temporaneo, che può e deve esercitarsi solo e soltanto durante la loro fanciullezza: una volta cresciuti essi diventano liberi e autonomi come i genitori. Locke afferma dunque che il potere politico e paternalistico sono così profondamente distinti e separati, fondati su basi così diverse, che il potere paterno non possa contenere parte alcuna di quel dominio proprio di un principe.

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Superata una concezione paternalistica del potere Locke si concentra sul potere dispotico. Egli dice che tale potere sia assoluto e arbitrario, che uno può avere su un altro, di togliergli la vita quando vuole, senonchè tale potere non è conferito dalla natura, ne può essere trasmesso tramite contratto, perché l’uomo non avendo tale potere assoluto sulla propria vita, non può conferirlo ad altri. Non avendo origine né naturale né contrattuale il potere dispotico, secondo Locke, può essere solo e soltanto la conseguenza del fatto che uno aggredisce un altro mettendosi in stato di guerra con lui. La profonda differenza con Hobbes non si ha solo nella critica Lockiana al dispotismo, ma anche e soprattutto nel modo in cui egli concepisce il patto sociale che dà alla vita la società civile o politica. Egli dice che l’unico modo con cui uno si spoglia della sua libertà naturale e s’investe dei vincoli della società civile, consiste nell’accordarsi con altri uomini per congiungersi e riunirsi in una comunità, per vivere gli uni con gli altri con comodità, sicurezza e pace nel sicuro possesso delle proprie proprietà. Anche Hobbes aveva fatto dello stato di natura e del contratto i primi due stadi fondamentali della sua costruzione politica, senza i quali tutto il resto non avrebbe significato. Senonchè, la differenza fra Hobbes e Locke nel concepire i contratti, è a dir poco abissale. Per Hobbes tale contratto viene stipulato tra singoli (che non costituiscono ancora un popolo ma solo una moltitutidine) a favore del sovrano (che non è vincolato dal contratto è solo beneficiario, cioè “legibus solutus”), attraverso tale contratto i singoli si accordano di cedere tutti i loro diritti al sovrano tranne uno, quello della vita. Sicchè nell’impostazione di Hobbes il pactum unionis che da origine allo stato e il pactum subiectionis col quale ci si assoggetta all’autorità politica vengono a coincidere e, costituiscono, un unico patto. Radicalmente è diversa l’impostazione di Locke. Per lui il contratto è in primo luogo un pactum unionis, distinto dal pactum subiectionis e, i singoli, mediante quel contratto, entrano nella società politica conservando tutti i loro diritti tranne uno, quello di farsi giustizia da soli. Né potrebbe essere diversamente, perché per Locke gli uomini entrano nella società civile per conservare e tutelare, attraverso giudici imparziali, tutto ciò che avevano nello stato di natura. Inoltre per Locke il sovrano non può essere legibus solutus anche per un altro motivo: perché se non fosse sottoposto alle leggi, non sarebbe nemmeno sottoponibile al giudizio del giudice, la cui istituzione costituisce invece il fine principale della società civile: in questo modo però il sovrano resterebbe nello stato di natura e sarebbe del tutto vanificato il fine essenziale della società politica, che è quello di tutelare rigorosamente i diritti dei cittadini da qualsiasi abuso. Locke dice che la monarchia assoluta, che da alcuni è considerata come unico governo al mondo, sia in realtà incompatibile con la società civile, e quindi non può essere per nulla una forma di governo civile. Infatti, poiché il fine del governo civile consiste nel rimediare agli inconvenienti dello stato naturale (dovuto al fatto che ognuno diventa giudice della propria causa). Ma in questo modo non solo non si ha società civile in senso pieno (perché il sovrano resta allo stato di natura) ma si verifica per i singoli una situazione ancora peggiore di quella in cui si trovavano all’interno dello stato naturale. La triste differenza, come la chiama Locke, consiste nel fatto che mentre nell’ordinario stato di natura ogni uomo ha la libertà di giudicare del proprio diritto e di difenderlo quanto meglio può, nel caso invece che egli sia offeso e danneggiato dal suo monarca non solo non ha appello, come dovrebbero avere tutti coloro i quali si trovano all’interno della società, ma anche gli è negata la libertà di giudicare del proprio diritto e di difenderlo.

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Là dove Locke parla del potere civile o politico, due termini ricorrono continuamente: fiducia e consenso. Il potere politico, egli dice, è quel potere che ciascuno, possedendolo allo stato di natura, ha rimesso nelle mani della società, e in questa ai governanti che la società ha stabilito sopra di sé con la fiducia, espressa o tacita, che sia impiegato per il suo bene e per la conservazione della sua proprietà. Fiducia e consenso sono i fondamenti del potere politico senza i quali esso perde ogni legittimità, con la conseguenza che i cittadini hanno il pieno diritto di opporsi, anche con la forza, ad un potere divenuto illegittimo. Tuttavia Locke sottolinea come il consenso non può essere inteso come consenso di tutti, ostano a ciò non solo impegni di salute e di affari che in una società numerosa esistono e impediranno a molti di partecipare alla vita pubblica, ma ancor di più vi è la diversità di opinioni e il contrasto di interessi che caratterizzano ogni collettività. Tenuto conto di ciò, l’unanimità è un obbiettivo impossibile da raggiungere, e se qualcuno pretendesse di governare una società politica sulla base dell’unanimità dei suoi membri, l’entrare in società a tali condizioni equivarrebbe, come dice Locke con sarcasmo, all’entrata di Catone a teatro, che vi entrava solo per uscirne. L’unico modo di governare sulla base del consenso deriva dalla regola della maggioranza, la quale ha diritto di deliberare e di decidere per il resto. Ancora, se il potere civile o politico deve essere fondato sulla fiducia e sul consenso, esso non può essere illimitato, bensì deve essere limitato in modo circostanziato e preciso. I limiti fissati da Locke sono quattro. In primo luogo il potere civile o politico, non può avere più diritti di quelli che gli vengono trasmessi. Si tratta di diritti naturali inviolabili, e le obbligazioni della legge di natura, dice Locke, non cessano nella società, ma in molti casi diventano più coattive, e per mezzo delle leggi umane hanno connesse con sé penalità note a costringerle ad osservarle. Il che significa che le leggi positive devono essere modellate sulle leggi naturali e rifletterle pienamente. La filosofia politica di Locke è quindi una delle forme più tipiche e radicali del giusnaturalismo. In secondo luogo, il potere civile o politico non può governare con decreti estemporanei ed arbitrari, ma è tenuto a dispensare la giustizia e a decidere intorno ai diritti dei sudditi con leggi promulgate e fisse e giudici autorizzati e conosciuti. E’ questo il principio di legalità, che deve garantire sia la certezza del diritto sia l’eguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge. In terzo luogo, il potere civile o politico non può togliere a nessuno una parte, anche minima, della sua proprietà senza in il suo consenso. Gli uomini, infatti, hanno convenuto di edificare la società civile per tutelare meglio la loro proprietà, la quale, quindi non può essere violata da alcuno in nessuna situazione. In quarto luogo il potere civile o politico non può trasferire il potere di fare leggi in altre mani, perché in quanto esso sia un potere delegato dal popolo, coloro che ce l’hanno non possono delegarlo ad altri. Il potere civile o politico in cosa consiste per Locke? Esso è in primo luogo ed essenzialmente il potere legislativo, il quale è supremo non perché illimitato, bensì perché superiore al potere esecutivo. Per Locke legislativo ed esecutivo devono essere separati, al primo spetta di fare le leggi al secondo di farle eseguire. Cosi com’è chiaro che i due poteri non devono essere semplicemente coordinati, ma l’esecutivo deve esser subordinato al legislativo.

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Può destare meraviglia il fatto che Locke non citi il potere giudiziario, che è ciò che manca nello stato di natura. Stupisce il fatto che il capitolo XII del Secondo Trattato si intitoli Del potere legislativo, esecutivo e federativo della società politica. Ciò perché Locke concepisce il potere giudiziario come parte essenziale del potere legislativo. E infatti egli dice che l’autorità legislativa o suprema non può assumersi il potere di governare con decreti estemporanei ed arbitrari, ma è tenuta a dispensare la giustizia e a decidere intorno ai diritti dei sudditi, con leggi promulgate e fisse, e giudici autorizzati e riconosciuti. Quanto al potere federativo, è il potere di guerra e di pace, di fare leghe e alleanze e negoziati con comunità esterne alla società politica, esso è manifestazione del potere esecutivo. E’ difficile separare potere federativo ed esecutivo e pensare che possano essere in mani differenti. Da ciò si evince che i poteri fondamentali sono il legislativo-giudiziario e l’esecutivo. Tuttavia anche il legislativo, essendo un potere fiduciario di deliberare in vista di determinati fini, e avendo fondamento nella fiducia del popolo, può essere da questo rimosso. Con ciò Locke ha giustificato il diritto di resistenza contro la tirannide. A quanti obbiettano contro il diritto di resistenza che, essendo il popolo malcontento e ignorante, non si può porre il governo nell’instabile opinione, Locke risponde contrariamente, differenziandosi da Hobbes. Locke ritiene invece che gli uomini non cambiano le loro forme di governo così facilmente come alcuni vorrebbero insinuare e che anzi difficilmente si convincono ad emendare i difetti riconosciuti nella costituzione a cui sono abituati. C’è una sorta di lentezza e avversione del popolo ad abbandonare le sue vecchie costituzioni, sicchè anche gravi errori dei governanti, molte leggi ingiuste e inopportune, saranno sopportati dal popolo senza rivolta o mormorazione. Solo una lunga serie di abusi renderanno inevitabile la ribellione, inevitabile ma anche legittima. La concezione del potere limitato, che non può ledere i diritti naturali degli individui i quali, nell’atto di entrare nella società, li conservano tutti (tranne quello di farsi giustizia da soli) e anzi edificano la società civile per garantire meglio quei diritti, la legittimazione del potere civile o politico sulla base della fiducia e del consenso dei sudditi, la distinzione e subordinazione dei poteri dello stato, in cui il legislativo è supremo e l’esecutivo ad esso subordinato, i limiti posti al legislativo: tutto ciò configura una concezione dello Stato in cui il cittadino è difeso nei confronti dello Stato medesimo, e gode di precise e rigorose garanzie rispetto a esso. Tali garanzie lo proteggono dal dispotismo. E’ vero che Locke usa indifferentemente civile o politico, ma per lui non significa certo che lo stato proietti la propria ombra o esplichi il proprio intervento in tutte le sfere della società civile. Qui ci sono anche società costituite dai filosofi per la scienza, o dai mercanti per il commercio. La sfera economica, spirituale e quella culturale: tutti questi settori vivono di vita autonoma e il loro progresso è tanto più sicuro quanto meno lo Stato interviene in essi, limitandosi a tutelare le regola della convivenza fra gli individui. La fiducia nella creatività della personalità umana che per poter esprimere il meglio di sé, deve essere libera, la fiducia nella sua capacità di produrre valori, idee, soluzioni nuove sul piano culturale e politico, nonché di assicurare ricchezza e abbondanza per tutti sul piano economico. L’affascinante Epistola sulla tolleranza (1689) costituisce uno dei testi fondamentali del pensiero liberale. In essa Locke svolge e ragiona una distinzione che a noi sembra oggi ovvia ed elementare, ma che ha richiesto secoli di lotte e di sofferenze per affermarsi: la distinzione fra sfera civile e religiosa. Il potere del magistrato è un potere coattivo, ovvero è un potere che deve imporre, anche con la forza, determinate regole. Le istituzione religiose possono esercitare invece solo un magistero spirituale, dunque possono solo convincere, non costringere. La cura delle anime dice Locke non può appartenere al magistrato civile, perché tutto il suo potere consiste nella

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costrizione. Fissati in questo modo i limiti invalicabili tra sfera civile e sfera religiosa, Locke afferma che la Chiesa è una società libera e volontaria che coesiste con altre Chiese libere e volontarie. Ogni Chiesa è una società libera e volontaria, e ciò è confermato dal fatto che nessuno nasce membro di una Chiesa, altrimenti la religione dei padri perverrebbe a ogni uomo per diritto ereditario, insieme con la proprietà, e ciascuno dovrebbe la propria fede ai propri natali. In realtà l’uomo non è costretto a far parte di nessuna Chiesa, egli vi entra spontaneamente e, se scoprirà qual...


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