Cap 10 globalizzazione mappa concettuale PDF

Title Cap 10 globalizzazione mappa concettuale
Course Storia Moderna
Institution Università del Salento
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mappa concettuale della storia moderna come presupposto della globalizzazione...


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Capitolo 7 - Dall’ import substituion alla “globalizzazione” - Marco Missaglia

Introduzione In questa lezione cercherò di delineare le caratteristiche fondamentali delle diverse strategie attraverso le quali, nel corso della loro storia, i paesi che oggi chiamiamo “in via di sviluppo” (d’ora in poi PVS) hanno cercato di affrancarsi dalle catene della povertà. Il periodo storico che prenderò in considerazione è piuttosto limitato: indicativamente, dal termine del secondo conflitto mondiale ad oggi. La ragione di questa scelta è che, per quanto qualsiasi rigida periodizzazione sia sempre almeno in parte arbitraria, la storia dei modelli di sviluppo che si sono succeduti nel ‘900 inizia in realtà dopo la seconda guerra mondiale. Solo allora, infatti, molti PVS ottennero l’indipendenza dalle potenze coloniali; solo allora, perciò, si pose per quei paesi (cioè per la gran parte dell’umanità, basti pensare all’India) la necessità di pianificare il proprio futuro e quindi di riferirsi a qualche modello di sviluppo, a qualche “strategia”; solo allora, ancora, le grandi potenze mondiali cominciarono a guardare con occhio diverso al mondo povero: non più colonie da depredare, ma potenziali alleati da attrarre nella propria sfera di influenza politica e, quindi, da “aiutare” attraverso il sostegno del processo di sviluppo1. E’ proprio alla fine della seconda guerra mondiale, a Bretton Woods nel 1944, che fu costituita la Banca Mondiale, organizzazione sovranazionale finanziata con i fondi devoluti dai paesi ricchi ed il cui scopo era ed è di incoraggiare il flusso degli investimenti verso i paesi poveri. Certo, partire dalla fine della seconda guerra mondiale significa tagliar fuori la Rivoluzione d’Ottobre e l’esperimento della pianificazione sovietica. Una simile scelta è sostenuta tuttavia da due ragioni. Primo, le strategie di sviluppo di alcuni paesi dopo la seconda guerra mondiale si sono più o meno esplicitamente, in maggiore o minor misura, ispirate a quell’esperimento, di cui perciò metteremo comunque in luce alcune caratteristiche salienti. Secondo, dell’esperimento sovietico si è cosi ampiamente scritto e detto che pare opportuno, in questa sede, concentrare l’attenzione su paesi ed esperienze che la storia ufficiale ha talvolta messo in ombra. Uno schema concettuale utile per inquadrare e capire meglio le strategie di sviluppo che si sono succedute nel corso di questo periodo è il “modello dei due gap”, illustrato nella lezione 9. Qui ci limitiamo a ricordarne i tratti essenziali. A livello macroeconomico, la crescita di un’economia può essere vincolata dalla disponibilità di risparmio interno, necessario a finanziare gli investimenti in capitale fisico ed umano (a questo proposito si veda anche la lezione 6 sulla crescita endogena) oppure dalla disponibilità di valuta straniera, necessaria all’importazione di beni intermedi e beni capitali non prodotti internamente. Ora, come sottolineato da Mahalanobis (1953), mentre in economie di grande dimensione, potenzialmente in grado di produrre tutto ciò di cui si ha bisogno e perciò relativamente chiuse al commercio con l’estero (per esempio Cina e India), si riteneva che il vincolo fondamentale alla crescita fosse la disponibilità di risparmio interno, nella maggior parte delle economie africane, asiatiche e latino-americane, economie di dimensione medio-piccola, la capacità di ottenere valuta straniera e quindi di importare beni intermedi e beni di investimento era considerato il vincolo cruciale al processo di crescita. La maggior parte delle economie africane, asiatiche e latino-americane si trovò perciò di fronte al problema di individuare una strategia che consentisse loro di generare una quantità sufficiente di valuta straniera a sostegno dell’obiettivo fondamentale di quella fase storica: l’industrializzazione. 1

Non è affatto sorprendente che con la fine della guerra fredda, e quindi della necessità di attrarre i PVS nella propria sfera di influenza politica, gli aiuti allo sviluppo siano sostanzialmente crollati. Guardando ai dati relativi all’ODA (Official Development Assistance) si nota infatti che i 29 donatori OCSE (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico, l’organizzazione dei paesi ricchi del pianeta) complessivamento destinano lo 0,22% del loro Prodotto Interno Lordo (PIL) agli aiuti, che è un impressionante record negativo storico, meno di un terzo del famoso obiettivo dello 0,7% solennemente dichiarato in sede ONU. I soli paesi del G-7 hanno ridotto il loro contributo di 15 miliardi di dollari dal 1992, cioè del 30% in termini reali. Per questi ed altri dati si veda la lezione……

10.1

Il modello autarchico

All’indomani della seconda guerra mondiale divenne chiaro che il modello di sviluppo scelto da molti PVS, e specialmente da quelli di grandi dimensioni, era un modello autarchico, basato sulla guida statale e non sulla (prevalenza della) libertà di mercato. Il clima intellettuale di quegli anni era infatti tale che la maggior parte degli economisti dello sviluppo ritenesse impossibile che le sole forze del mercato, lasciate a se stesse, potessero realizzare obiettivi giganteschi quali l’industrializzazione di un paese e l’ottenimento di una quantità di valuta estera sufficiente a sostenere l’industrializzazione stessa. Gli ingredienti fondamentali di questo approccio erano sostanzialmente due:  La cosiddetta “sostituzione delle importazioni”  La proprietà pubblica di una larga parte dell’apparato produttivo La sostituzione delle importazioni. La sostituzione delle importazioni è una strategia di sviluppo industriale che si basa su un’idea molto semplice ed apparentemente convincente. Un paese non può svilupparsi, cioè innanzitutto garantire una crescita rapida e sostenuta del reddito pro capite, limitandosi alla produzione e vendita di prodotti primari, estratti dalla terra o coltivati sulla terra. Non esiste nessun esempio al mondo di paese ricco che sia prevalentemente agricolo. Un paese le cui forze produttive, di lavoro e capitale, sono per la maggior parte impiegate nel settore primario è un paese che per definizione sta producendo la propria sussistenza, non molto di più (al meglio!) del proprio pane quotidiano. Un paese che si vuole sviluppare deve perciò riuscire a far crescere delle proprie industrie manifatturiere. Non lo può fare, però, se non al riparo dalla concorrenza internazionale, in special modo dalla concorrenza dei paesi già sviluppati i quali, disponendo di tecnologie più avanzate e lavoratori più produttivi, sono in grado di fornire prodotti più competitivi. La Tailandia, tanto per fare un esempio, non riuscirebbe mai secondo questo punto di vista a sviluppare una propria industria di orologi se permettesse ai propri cittadini di acquistare orologi svizzeri. Di qui la necessità di impedire o limitare le importazioni di prodotti industriali. Si trattava appunto di sostituire le importazioni con produzione locale. Produzione locale che, secondo questo punto di vista, non si potrebbe affermare senza la limitazione “di legge” delle importazioni. Gli strumenti attraverso i quali i paesi che hanno adottato una strategia di sostituzione delle importazioni2 hanno cercato concretamente di limitare le importazioni sono tanti e variabili nel tempo e nello spazio. Tipicamente: dazi doganali, cioè l’imposizione di tasse che fanno aumentare il prezzo dei beni importati; meccanismi di razionamento della valuta (le banche venivano cioè autorizzate a cedere valuta estera solo a determinate categorie di operatori: importatori di beni di prima necessità e di beni capitale avevano la precedenza sugli importatori di beni di consumo, sempre ammesso che questi ultimi avessero accesso ad una qualche quantità di valuta); quote di importazione, cioè concessione da parte governativa di licenze di importazione a determinati soggetti e per determinate quantità di determinati beni; credito agevolato; ecc. Un esempio concreto di sostituzione delle importazioni è raccontato da C. Freeman3 (p.54), 2

I paesi più citati come esempio di strategia di sostituzione delle importazioni sono India e Brasile (il Brasile iniziò questa strategia ben prima della fine della seconda guerra mondiale, all’inizio del ‘900). Bisogna però aggiungere alla lista anche molti paesi dell’Africa nera, l’Indonesia di Suharno, l’Argentina di Peron ed altri ancora. In generale, all’origine di questa strategia non vi furono soltanto, e nemmeno prevalentemente, motivazioni strettamente economiche, ma anche cause di carattere storico: dopo decenni, e a volte secoli, di depredamento coloniale, molte nazioni hanno comprensibilmente individuato nella libertà dei commerci e dei capitali stranieri una minaccia alla sovranità nazionale. 3 C.Freeman, “La creatività scientifica nello sviluppo economico”, Di Renzo Editore, 1998. Faccio notare che il caso coreano è di norma presentato, nel dibattito e nella pubblicistica economica, come un caso di sviluppo “trainato dalle esportazioni”, e non avvenuto per sostituzione delle importazioni. Il caso della Samsung, e anche alcuni studi più sistematici (per esempio Amsden, A.H, 1989, “Asia’s next giant: South Korea and late industrialization”, New York, Oxford University Press), dimostrano invece che le due strategie – di promozione delle esportazioni e di sostituzione delle importazioni – sono invece compresenti nella storia dello sviluppo coreano.

“Nel 1969 il governo della Corea del Sud convocò la ‘SamSung’, una ditta di commercio all’ingrosso e al dettaglio…; pur non essendo una grandissima impresa, disponeva di molto denaro, essendo i profitti del commercio piuttosto buoni. Le autorità coreane, avendo esaminato i dati relativi ai prodotti industriali a crescita più elevata, come ad esempio le auto e l’elettronica, dissero alla SamSung: ’Vogliamo organizzare un settore industriale nel campo dell’elettronica. Ci state? Intendiamo favorire la nascita di industrie coreane in questi settori, perché lì risiede il futuro, le industrie sono in rapida crescita. Se voi riorganizzerete la vostra attività e vi metterete a produrre elettronica, noi vi favoriremo in molti modi, con prestiti a tasso di interesse bassissimo, fino a zero, e vi garantiremo che il mercato coreano interno sarà protetto, non ci sarà concorrenza! Inoltre, vi aiuteremo ad ottenere tecnologia avanzata dal Giappone, dagli Stati Uniti e dall’Europa. Tra una decina d’anni avrete ed avremo sfondato’….il governo coreano fece loro notevoli pressioni ed alla fine accettarono; oggi sono una delle prime ditte mondiali di apparecchi elettronici”.

Per quanto suggestiva, ed in buona parte ragionevole, l’idea sottesa al racconto di Freeman si presta a molte critiche. E, in effetti, sono state queste critiche a determinare, a partire dalla seconda metà degli anni ’70, un progressivo allontanamento, nelle idee e nei fatti, dal paradigma della sostituzione delle importazioni. Vediamo alcune di queste critiche. La prima critica è di carattere dinamico. La protezione che i governi offrono alle imprese locali dovrebbe permettere, come mostra l’esempio relativo alla Corea del Sud, alle stesse imprese locali di sviluppare delle proprie capacità tecnologiche, commerciali ed organizzative. Al riparo dalla concorrenza di chi si è sviluppato prima, si ha il tempo di sviluppare tali capacità. La Tailandia può imparare a produrre orologi solo facendoli (learning by doing), ma nessun tailandese si metterà a fare orologi se poi, a causa della presenza sul mercato degli orologi svizzeri, non riesce a venderli. Questo modello, però, può funzionare soltanto se la protezione che i governi offrono alle imprese locali è temporanea e viene percepita come tale. Se la SamSung avesse pensato che la protezione e le condizioni di favore offerte dal governo coreano fossero durate all’infinito, essa non avrebbe probabilmente avuto alcuno stimolo ad acquisire capacità tecnologiche, organizzative e commerciali. Non avrebbe perciò giovato in alcun modo allo sviluppo del paese. Semplicemente, si sarebbe creato un gruppo di potere economico protetto dal ceto politico e che al ceto politico, in cambio di questa protezione, avrebbe offerto sostegni di varia natura. La storia dell’India dall’indipendenza fino al 1991 è un buon esempio di come la strategia di sostituzione delle importazioni, quando la protezione offerta ai produttori locali è troppo duratura nel tempo, non sia garanzia di sviluppo sufficiente della ricchezza materiale. In quel periodo (1947-1991), infatti, il PIL reale indiano pro capite è cresciuto molto lentamente (in media, 2% all’anno), molto più lentamente di quanto sarebbe stato necessario per garantire un tenore di vita dignitoso alla maggior parte della (immensa) popolazione; la corruzione e la connivenza si sono ampiamente diffusi, al punto che il crollo del partito storico (il Congresso), lo stravolgimento elettorale del 1996 e l’uscita di scena di alcuni importanti uomini politici sono stati legati a numerosi scandali a sfondo finanziario; infine, l’eccessiva ed eccessivamente perdurante protezione offerta ai produttori locali, ha provocato una stagnazione della produttività del lavoro ed una progressiva erosione della quota indiana sul totale del commercio mondiale, cioè una perdita di competitività. Un’altra critica che viene tradizionalmente mossa alla strategia di sostituzione delle importazioni è di carattere statico (i suoi effetti, cioè, non si manifestano nel tempo, ma “qui ed ora”). Essa, dicono molti economisti, provoca una riduzione del benessere complessivo della società. Il ragionamento è il seguente. Il governo del paese che applica la strategia in questione sta meglio, perché, almeno nel caso dei dazi doganali, gode di entrate fiscali prima inesistenti; i produttori del paese in questione, pure loro, stanno meglio, perché realizzano profitti e percepiscono salari che non avrebbero realizzato e percepito nel caso in cui fossero stati esposti alla concorrenza dei paesi più avanzati; i consumatori, però, stanno decisamente peggio: perché possono scegliere i prodotti da acquistare fra una gamma più ristretta e perché pagano prezzi più elevati di quelli che produttori più efficienti potrebbero applicare. Fatti i conti, dice la teoria economica tradizionale, lo star peggio dei consumatori più che compensa lo star meglio dei produttori e del governo: per la società nel suo complesso, dunque, si ha una riduzione del benessere complessivo. In realtà questa è una critica a

mio avviso molto più debole della precedente4, ma ha avuto comunque una certa importanza nel determinare il cambiamento nel clima intellettuale nei confronti delle strategie di import substitution. Infine, una terza critica alla strategia di import substitution è di carattere meno teorico e più legato ai risultati pratici ottenuti dai paesi che l’hanno perseguita. Dell’India si è già detto. Altri casi da citare sono quelli dell’Argentina, dove le politiche autarchiche hanno provocato un peggioramento del tenore di vita5, e di gran parte dell’Africa nera dove pure la strategia di chiusura trovava, all’indomani della riconquistata indipendenza, fortissime ragioni storico-politiche per affermarsi: “scambi” e “capitale straniero” in quel contesto non potevano significare altro che sfruttamento e dolore. Anche questa critica, però, non è del tutto convincente. Accanto ai casi appena citati di fallimento della strategia di sostituzione delle importazioni vi sono casi di successo. Il Brasile, per esempio, che l’ha applicata per tutto il secolo con l’eccezione del decennio 1965-75, ha sviluppato la propria ricchezza materiale, per tutto il secolo, ad un ritmo inferiore al solo Giappone6; le cosiddette “tigri asiatiche” (Corea del Sud, Malesia, Taiwan, Singapore, Cina, Indonesia) si sono e si stanno sviluppando a ritmi prodigiosi, del tutto sconosciuti a qualsiasi altro paese dopo la seconda guerra mondiale, facendo uso anche – laddove le dimensioni del paese lo consentono - dello strumento della sostituzione delle importazioni. Probabilmente un giudizio più sereno e meno ideologico deve portarci a riconoscere che gli strumenti tipici di una strategia di sostituzione delle importazioni (dazi, credito agevolato, ecc.) possono funzionare se previsti soltanto per un certo periodo e accompagnati da altre politiche ed altri incentivi (nel caso sud coreano, per esempio, i profitti realizzati grazie alla protezione non potevano essere esportati, ma reinvestiti per ottenere, questa volta, prodotti idonei ad essere esportati secondo certi target quantitativi). Non esiste una ricetta miracolosa, ma un policy mix la cui adeguatezza va giudicata in relazione a ciascun paese e in relazione alla particolare fase storica. La proprietà pubblica. Se, come abbiamo detto, svilupparsi significa di norma industrializzarsi, chi si deve incaricare di impiantare nuove industrie in economie prevalentemente agricole? I paesi nei quali la produzione primaria è dominante sono anche paesi nei quali le infrastrutture sono spesso calibrate sulle necessità di esportazione di pochi prodotti primari: le autostrade e le ferrovie sono posizionate rispetto a queste esigenze, le attrezzature portuali possono stoccare questi prodotti e non altri, ecc.. Ancora: la forza lavoro addestrata è spesso un bene molto scarso, il personale scientifico (ingegneri, chimici, informatici, fisici, ecc.) necessario a qualsiasi tipo di sviluppo industriale o non c’è o tende ad andarsene7. Quale imprenditore privato si sobbarcherà il costo di adeguare le 4

Una “contabilità” del benessere come quella appena esposta, infatti, presuppone che un dollaro guadagnato dal governo conti tanto quanto un dollaro perduto da un consumatore, il che è del tutto insoddisfacente nel caso in cui – per esempio, il bene a cui viene applicato il dazio è un bene di lusso. Il consumatore, in quel caso, è un ricco signore che ora deve pagare 1 dollaro in più per pagare la Mercedes; se quel dollaro, entrato nelle casse dello Stato come dazio doganale, serve a finanziare programmi di assistenza ai poveri, è ben difficile sostenere che la perdita del ricco signore debba valere, dal punto di vista sociale, quanto il guadagno del povero. 5 Riporto a questo proposito un passo di N.G. Mankiw, contenuto in Principi di Economia, Zanichelli, 1999 (p.460): “il PIL dell’Argentina è equivalente a quello della sola città di Philadelphia ed è facile immaginare che cosa accadrebbe se il Consiglio Comunale di questa città impedisse ai residenti di commerciare con individui e imprese al di fuori dei confini municipali….Il tenore di vita a Philadelphia crollerebbe immediatamente….questo è esattamente ciò che è accaduto in Argentina quando il governo ha cominciato a perseguire politiche autarchiche..”. 6 Qualche cifra può essere d’aiuto: il PIL reale pro capite del Giappone è cresciuto, tra il 1900 e il 1990, del 3% all’anno; quello brasiliano del 2,39%; quello italiano del 2,1%; quello statunitense dell’1,76%; quello indiano dello 0,65%; quello del Bangladesh (fanalino di coda) dello 0,08%. Che poi il Brasile non sia riuscito a distribuire equamente questo aumento di ricchezza è un altro problema, collegato ma distinto. 7 Il fenomeno cosiddetto della “fuga dei cervelli” non è solo un ricordo del passato. Ci sono oggi 30.000 africani titolari di un dottorato di ricerca che lavorano fuori dai loro paesi, attratti da salari più elevati e un clima politico più stabile. Ma non è solo questione di “fuga”. Gli Stati Uniti, il Canada e l’Australia, per esempio, praticano una politica attiva per attirare lavoro qualificato dai paesi meno sviluppati, offrendo speciali visti di ingresso e altri incentivi. In Africa c’è uno

infrastrutture e addestrare la forza lavoro? Chi fornirà incentivi ai “cervelli” per evitare che scappino? Ammesso e non concesso che in un paese povero vi siano le risorse finanziarie ed imprenditoriali perché tali compiti possano essere lasciati all’iniziativa privata, come si potranno coordinare tanti molteplici sforzi? Immaginate una regione8 prevalentemente agricola, nella quale vi è perciò il potenziale per investimenti industriali di diverso tipo. Supponete inoltre che tutta la produzione industriale futura della regione possa essere venduta soltanto entro i confini nazionali9. Supponete ancora che in questa regione venga impiantata una eno...


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