Caputo, saggio \"La fiaba: pedagogia della paura?\" PDF

Title Caputo, saggio \"La fiaba: pedagogia della paura?\"
Course Pedagogia generale
Institution Università di Bologna
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saggio "La fiaba: pedagogia della paura?" di Michele Caputo contenuto in "Servitium", n.239, pp. 75-84...


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Servitium, III 239 (2018), 75-84

la fiaba: pedagogia della paura? di Michele Caputo

La domanda che guida queste note insinua un sospetto inquietante su un genere narrativo alquanto presente nella nostra vita, per quanto in significati e forme di volta in volta diversi. Perché narrare fiabe? La fiaba è uno strumento che può generare paura nei nostri piccoli uditori di storie fantastiche? Possono le storie fiabesche educare le nuove generazioni? Da cosa dipende il valore delle fiabe?

la violenza: dal mondo incantato delle fiabe alla realtà dell’infanzia1 Una riflessione pedagogica sulla fiaba deve oggi fare i conti con emergenti e ricorrenti denunce della violenza, del sessismo, delle fobie implicite nei racconti fiabeschi, sostanzialmente accusati di proporre modelli identificativi, norme comportamentali, visioni del mondo correlate a definizione di ruoli sociali, in qualche modo funzionali a un mondo adulto “manipolatore”, “violento”, in totale conflitto con le nuove generazioni. Diverse analisi delle fia1

Il termine “infanzia” è utilizzato, in questo testo, nell’accezione ampia diffusa nel mondo anglosassone che include non solo l’infanzia propriamente intesa nella lingua italiana, ma l’intero arco dell’età evolutiva.

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be più diffuse e popolari, da Hansel e Gretel a Cappuccetto rosso, da Biancaneve a Pollicino alla Piccola fiammiferaia, rilevano in esse la presenza di valori sociali e modelli di comportamento distanti dalle sensibilità della società contemporanea, spesso inadeguati, se non totalmente erronei, accusati di rappresentare l’origine intrapsichica di discriminazioni e fobie, di sessismo e razzismo, al punto da proporne riscritture politically correct. Queste contestazioni radicali delle narrazioni fiabesche, di remota derivazione psicoanalitica, finiscono con il convergere e intrecciarsi, da una parte, con recenti studi e analisi storico-letterarie sulla letteratura per l’infanzia2 e, dall’altra, con le ricerche storicopedagogiche sulla stessa categoria di infanzia3. Nel filone storico-letterario vengono rintracciate importanti conferme delle predette accuse alle fiabe: numerose versioni “originali” contraddicono la rappresentazione “incantata” e “morale” del mondo fiabesco infantile, sono storie ben lontane dal presentare sempre un lieto fine, al contrario sono in esse presenti episodi di gratuita violenza e crudeltà, e sono premiati comportamenti scorretti. La demitizzazione del mondo fiabesco, di ambito storico-letterario, denuncia e documenta nello specifico una costante operazione di rimozione degli aspetti più violenti presenti nelle fiabe (esemplare il caso delle riedizioni progressivamente emendate dei fratelli Grimm o le vere e proprie riscritture della Disney), evidenziando il carattere di costruzione sociale delle narrazioni per l’infanzia. Il filone storico-pedagogico mostra, con numerosi esempi, i limiti e le falsificazioni delle rappresentazioni sociali dell’infanzia storicamente documentabili. Le “negazioni” dell’infanzia, ben presenti in vaste aree socio-economiche e/o geo-politiche delle nostre società, mostrano una persistenza diffusa di modelli antropologici e prassi educative ben lontane dal prestare attenzione alle diversità evolutive del bambino e dell’adolescente. Si tratta di prassi educative che 2

Cf., ad esempio, I. Filograsso, Bambini in trappola. Pedagogia nera e letteratura per l’infanzia, Franco Angeli, Milano 2013. 3 Cf. N. Postman, La scomparsa dell’infanzia, ed.or. 1982, trad.it.: Armando, Roma 1984; E. Becchi, I bambini nella storia, Laterza, Bari 2010.

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negano alla radice qualsivoglia valore al mondo infantile che risulta essere subordinato al mondo adulto, spesso negato, consentendo o auspicando precoci esperienze in campi più propriamente adulti come il lavoro, la sessualità, la violenza, anche quella più truce della guerra. Il tema della violenza nelle fiabe è perciò strettamente legato al tema dell’infanzia, alle reali condizioni del mondo infantile nella società, estremamente differenti storicamente e socialmente, e alle sue diverse rappresentazioni. Che l’infanzia debba essere protetta non è un principio che possa darsi per scontato, tantomeno nelle modalità e nelle forme oggi considerate “normali”, per lo meno a livello mediatico, al punto da manifestare stupore e scandalo quando emergono storie di deprivazione e/o di abbandono nei confronti di minori, ritenute inconcepibili nel presente per la coscienza comune. Di fatto non mancano segnali di una violenza diffusa nei confronti dei bambini e degli adolescenti e all’interno stesso del mondo dei minori. Le loro esigenze appaiono soddisfatte in termini disomogenei, parziali, con discontinuità di rilievo non funzionali a una crescita serena. D’altra parte l’affermazione del principio di protezione dei minori è relativamente recente: fino all’epoca moderna, il bambino, dal punto di vista giuridico, non ha goduto di vere tutele. Nella storia della giurisprudenza italiana la comparsa della categoria giuridica dei minori, come soggetto di uno sguardo dedicato, risale al 1908, con la creazione di una sezione per i minori presso il tribunale di Milano, con un unico magistrato. L’infanzia e l’adolescenza perciò solo di recente hanno acquistato, in linea di principio, valore politico e giuridico come fase della vita degna di tutela. Nel corso del ’900, a partire dalla Dichiarazione di Ginevra del 1924 per giungere alla revisione, nel 1989, della Dichiarazione dei diritti del Fanciullo dell’ONU approvata nel 1959, si è progressivamente affermato un composito quadro giuridico di diritto internazionale (di riflesso nazionale) di tutela dei minori, da preservare in quanto promessa di umanità, possibilità di vita migliore, continuità della vita e della civiltà umana. Torna qui utile richiamare l’esempio del Manzoni che, citando le ripetute “gride” sui “bravi”, documentava il persistere del malco[589]

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stume malavitoso: la codifica di una norma a tutela dell’infanzia ci “dice” anche di prassi, cui la legge cerca di far fronte, non conformi al principio di protezione dei minori. Ciò non diminuisce il valore utopico-politico che la formalizzazione giuridica della tutela dell’infanzia consente, offrendo nuovi spazi di intervento per dare consistenza ai princìpi ispiratori delle dichiarazioni prima citate. Senza poi dimenticare come l’affermazione positiva di diritti consente, al tempo stesso, la repressione/riprovazione di condotte negative. C’è tuttavia una obiezione profonda alla possibilità di tutela dell’infanzia dalla sua negazione e/o dalla sua vulnerabilità. L’obiezione in questione si pone al di là della sfera giuridica, essa stessa ricondotta a possibile “strumento” di violenza nei confronti dell’infanzia. Si tratta della accusa radicale all’educazione stessa che, nella seconda metà del ’900, ha trovato negli studi sulla “pedagogia nera”4 numerose ragioni di critica al pensiero pedagogico e alle prassi educative, giungendo a negare qualunque significato positivo al termine educazione, teorizzando l’impossibilità di educare senza violenza. L’azione educativa non è solo identificata con la “riproduzione” dei dispositivi del potere politico e socio-economico, del quale riproduce strutture e differenze, come già denunciato dagli studi di sociologia dell’educazione. La contestazione all’educazione si colloca ad un livello ancor più profondo, nella stessa relazione educativa familiare dove si riscontra “l’autodifesa dell’adulto”, la manipolazione del bambino dovuta alla mancanza di libertà e alla sicurezza degli adulti. L’educazione è così strutturalmente connotata come un atto di violenza nei confronti del bambino chiamato a interiorizzare norme e comportamenti funzionali alla sua obbedienza al mondo adulto, reprimendo sentimenti e volontà propri per rispondere alle seduzioni e alle attese adulte. La forza suggestiva della “visione” della pedagogia nera trova ragione nelle verità contenute nelle sue denunce. Si tratta di denun4

Cf. K. Rutschky, Pedagogia nera: fonti storiche dell’educazione civile, ed.or. 1977, trad. it.: Mimesis, Milano-Udine 2015; A . Miller, Il dramma del bambino dotato, ed. or. 1979, trad.it.: Boringhieri, Torino 1979.

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ce documentate, con precisi riferimenti a teorizzazioni pedagogiche e a episodi storicamente verificabili. Ci troviamo di fronte, tuttavia, a una “verità impazzita”: la “pedagogia nera” assolutizza una delle possibili dinamiche patologiche in ambito educativo costituendola come paradigma universale e giungendo così a negare la possibilità stessa dell’educazione, cioè il sostegno adulto alla crescita infantile. Sono certamente possibili relazioni educative nelle quali gli adulti più o meno consapevolmente si trovano a utilizzare strategie seduttive o di potere nei confronti del bambino o dell’adolescente ma che queste siano rappresentative dell’intero universo delle possibilità è alquanto discutibile, certamente indimostrabile. Alcune immagini metaforiche, arcaiche ma persistenti, rappresentano l’educazione come azione di modellamento di una materia inerte, come travaso di contenuti in un contenitore vuoto. In queste immagini, in queste rappresentazioni metaforiche, si può a buon diritto insinuare una “tentazione”, una vera e propria hýbris, di potere assoluto da parte dell’adulto nei confronti dell’immaturo. Sono certamente rappresentazioni parziali e gli esiti educativi di dinamiche nelle quali l’intervento adulto è sostitutivo della volontà e dell’azione dell’immaturo non sono certo da indicare come esemplari. Esistono tuttavia altre possibili rappresentazioni del processo educativo meno esposte alla tentazione della hýbris adulta, e più adeguate a illustrarne i dinamismi fisiologici. A partire dall’immagine di Lucrezio et quasi cursores vitaï lampada tradunt, nella quale è sottolineata la metafora della custodia, limitata nel tempo, e della consegna della “lampada della vita”, così come dalla figura archetipica di Giuseppe, padre “custode” di Gesù, negazione alla radice di qualsiasi possibile reificazione del figlio. L’azione educativa si configura in queste figure e metafore in termini positivi come azione morale finalizzata a sostenere e custodire la crescita del figlio, rispettandone i tempi e la “vocazione”, ciò che è chiamato a essere per sé e per il mondo continuando a custodire la vita degli uomini. Custodire la vita, custodire la verità, rappresentano i due poli positivi del processo educativo, poli [591]

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complementari che non si escludono a vicenda se non impoverendo la realtà. L’affermazione dell’esistenza e dell’essere è condizione della permanenza dell’umano, per cui «non è possibile neanche immaginare una permanenza, una perseveranza nell’esistenza, senza degli uomini disposti ad attestare ciò che è e che appare loro perché è»5, senza nulla dimenticare, senza ridurre la realtà ai soli aspetti che di essa ci colpiscono. Per questo occorre sempre ricordare che la verità si fa nel dialogo e nessuno può possederla. E la narrazione è una via privilegiata per il dialogo che si pone alla ricerca della verità e che va affermando l’essere, custodendo la vita.

la protezione dell’infanzia come compito educativo: la fiaba di harry potter Abbiamo una felice, a mio parere, esemplificazione narrativa del complesso compito educativo di protezione dell’infanzia, dentro una ampia narrazione nella quale è ben presente la necessaria lotta contro la forza violenta del male. Nel libro V della fortunata saga (e fiaba) di Harry Potter, L’ordine della Fenice, alla fine del V capitolo va in scena un gustoso ed esemplare conflitto tra due adulti6. L’oggetto della contesa è la responsabilità educativa nei confronti dell’ancora minore Harry: da un lato vi è la figura di Molly Weasley, madre di Ron, la cui cura materna si è da tempo “estesa” ad Harry amico fraterno del figlio; dall’altra parte si pone il padrino ritrovato, Sirius Black, costretto alla latitanza perché su di lui pende ancora ufficialmente l’accusa di aver tradito la famiglia Potter e di essere fuggito da Azkaban. Il conflitto educativo esplode dentro un più ampio orizzonte su cui gravano nubi oscure, dense di minacce cui occorre far fronte: Voldemort è tornato e l’Ordine della Fenice si è ricostituito. Voldemort incarna a tal

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H. Arendt, Verità e politica, ed.or. 1961, trad. it.: Bollati Boringhieri, Torino 1995, p. 32. I.J.K. Rowling, Harry Potter e l’Ordine della Fenice, ed.or. 2003, trad. it.: Salani, Milano 2009, pp. 93-102. 6

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punto il male radicale da suscitare paura solo al sentirne pronunciare il nome. Di fatto il mondo magico ne ha totalmente rimosso l’esistenza tanto da non voler credere al racconto di Harry, accreditato da Silente e accompagnato dai suoi avvertimenti sui pericoli incombenti. Per queste sue convinzioni Silente è stato isolato, deposto da incarichi e responsabilità pubbliche, e viene costantemente attaccato sui giornali perché turba il quieto vivere, divenendo suo malgrado “antagonista politico” del Ministero della Magia. Solo pochi amici di Silente restano fedeli e si preparano a una battaglia ormai imminente. Harry è all’oscuro di ciò che sta accadendo e Sirius ritiene che debba essere informato al contrario di Molly: «Non intendo dirgli più di quanto abbia bisogno di sapere, Molly» disse Sirius. «Ma visto che è stato lui ad assistere al ritorno di Voldemort» (di nuovo si diffuse un brivido collettivo al suono del nome), «ha diritto più di molti altri...» «Non è un membro dell’Ordine della Fenice!» lo interruppe la signora Weasley. «Ha solo quindici anni e...» «E ha fatto esperienze pari a quelle di molti dell’Ordine» replicò Sirius, «e superiori rispetto ad alcuni.» «Nessuno vuole negare quello che ha fatto!» disse la signora Weasley con la voce che saliva e i pugni tremanti sui braccioli della sedia. «Ma è ancora...» «Non è un bambino!» sbottò Sirius impaziente. «Non è nemmeno un adulto!» ribatté la signora Weasley, con le gote infuocate7.

Il dialogo esprime bene la tensione polare tra la protezione materna e la sfida paterna. Il mondo dell’infanzia è propriamente un mondo protetto ma progressivamente si avvicina il momento dell’assunzione delle responsabilità adulte. E si è alla costante ricerca di un punto di equilibrio tra protezione e autonomia. «Molly, non sei la sola persona a questo tavolo che si preoccupa per Harry» intervenne Lupin asciutto. «Sirius, siediti.» Il labbro inferiore della signora Weasley tremava. Sirius si risedette lentamente, pallido. 7

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«Credo che Harry dovrebbe avere il permesso di dire la sua» continuò Lupin, «è abbastanza grande da decidere per se stesso.» «Voglio sapere che cosa sta succedendo» disse Harry subito8.

In effetti non si tratta solo di una dialettica tra adulti: il problema di dosare protezione e spazi di autonomia non si gioca solo dalla parte di chi ha responsabilità educative ma ha un terzo (in verità primo) soggetto, l’immaturo che sta costruendo un Io adulto e che presto ne chiederà il riconoscimento. L’adulto educatore deve sempre tener conto della tensione tra il bisogno di protezione e il desiderio di autonomia che agita la persona che affronta la fatica del crescere e le sue contraddizioni, mettendosi alla prova. «Ascoltatemi bene» sibilò la signora Weasley. Tremava lievemente, guardando Sirius. «Avete dato a Harry un sacco di informazioni. Ditegli qualcos’altro, e tanto vale ammetterlo direttamente nell’Ordine della Fenice.» «Perché no?» domandò Harry in fretta. «Ci sono, voglio esserci, voglio combattere.» «No.» Questa volta non fu la signora Weasley a parlare, ma Lupin. «L’Ordine è formato solo da maghi maggiorenni» disse. «Maghi che hanno finito la scuola» aggiunse, mentre Fred e George aprivano la bocca. «Farne parte comporta pericoli dei quali non potete avere idea, nessuno di voi... credo che Molly abbia ragione, Sirius. Abbiamo detto abbastanza.» Sirius scrollò le spalle senza ribattere. La signora Weasley fece un cenno imperioso ai suoi figli e a Hermione. Uno per uno si alzarono e Harry, accettando la sconfitta, li imitò9.

Harry si sente pronto alla battaglia, sente di poter e dover combattere come un adulto, ma non vi è ancora il riconoscimento della comunità, non appena per il dissenso radicale di Molly: l’intervento di Lupin e il silenzio di Sirius sono altrettante conferme che non è ancora il momento, c’è una distinzione profonda tra chi è mago e maggiorenne, gli adulti, e chi frequenta ancora la scuola, tanto più se minorenne. I giovani “eredi” dell’Ordine della Fenice riconoscono di non avere più appigli e «uno per uno si alzarono e Harry, 8 9

Ivi, p. 96. Ivi, p. 102.

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accettando la sconfitta, li imitò». Anche questa scelta conferma che non sono ancora adulti.

le fiabe come proposta/ricerca di senso per sé e per il mondo La questione non è la presenza della violenza nelle fiabe ma il senso e il significato della stessa violenza, in termini più radicali del male che è presente nell’esistenza umana in termini non riducibili alla sua presenza nelle narrazioni. Le narrazioni fiabesche sono certamente uno strumento/dispositivo educativo ampiamente utilizzato nei confronti del mondo infantile, tanto più nel momento in cui la fiaba si è costituita come genere letterario, uno dei nuclei fondanti del più ampio insieme denominato “letteratura per l’infanzia”. La forza educativa delle fiabe si situa, come sottolinea Bettelheim, a un livello psichico profondo, nel quale è possibile al bambino cogliere nuove dimensioni dell’immaginazione, «dimensioni che egli sarebbe nell’impossibilità di scoprire se fosse lasciato completamente a se stesso [...] la forma e la struttura delle fiabe suggeriscono al bambino immagini per mezzo delle quali egli può strutturare i propri sogni a occhi aperti e con essi dare una migliore direzione alla vita»10. Tuttavia la fiaba non ha valore al di fuori del contesto, o meglio il valore educativo della fiaba non è “indipendente” dal contesto e dalla qualità esperienziale/esistenziale cui partecipa l’infanzia. E il tema della violenza nelle fiabe non si può isolare dal tema della violenza sperimentata esistenzialmente (fisicamente e/o moralmente) dal bambino cui la narrazione si rivolge. La fiaba può diventare strumento di una pedagogia della seduzione e della paura perché ciò può riscontrarsi a livello intrapsichico così come a livello esperienziale/esistenziale. Ma può anche svol10 Bettelheim B., Il mondo incantato. Uso importanza e significati psicoanalitici delle fiabe, ed.or. 1975, trad.it.: Feltrinelli, Milano 2001, pp. 12-13.

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gere una funzione di contenimento/padroneggiamento della paura (così come di altri sentimenti) e della violenza, laddove la fiaba pone al bambino dilemmi esistenziali in termini chiari e concisi, elementarità che «permette al bambino di afferrare il problema nella sua forma più essenziale, mentre una trama più complessa gli renderebbe le cose confuse»11. In questa direzione possiamo riconoscere spazio e significato positivo alle narrazioni, e alle identificazioni in esse possibili, come esplorazione del mondo e della vita per come esse appaiono, nella loro complessità e nella compresenza del bene e del male, della gioia e del dolore, della vita e della morte12. La fiaba rappresenta così uno strumento di ricerca del significato e può aiutare a dar senso anche a ciò che a prima vista non sembra possederlo, alla stessa violenza della vita e al dolore e alla sofferenza che ne consegue.

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Ivi, p. 14. In questa direzione cf. M.T. Moscato, Il viaggio come metafora pedagogica. Introduzione alla pedagogia interculturale, La Scuola, Brescia 1994;...


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