Esegesi Extra Grilli - Lecture notes Ultime PDF

Title Esegesi Extra Grilli - Lecture notes Ultime
Author Tom Bac
Course Vangeli Sinottici
Institution Pontificia Università Gregoriana
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Esegesi esempio per l-esame...


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GESÙ CALMA LA TEMPESTA Mc 4,35 - 41 OPERAZIONI PRELIMINARI: TESTO E CO-TESTO dice loro in quel giorno, venuta la sera: «Passiamo all’altra riva» lasciata la folla, lo prendono com’era nella barca, e c’erano altre barche con lui. 37 E avvenne una grande bufera di vento e le onde si gettavano sulla barca, così che già la barca era piena 38 ed egli era sulla poppa, che dormiva sul cuscino. E lo svegliano e gli dicono: «maestro non t’importa che periamo? 39 E, svegliatosi, sgridò il vento e disse al mare: «Taci, calmati! (sii imbavagliato!)». E il vento cessò e avvenne grande bonaccia. 40 E disse loro:«Perché siete paurosi?Non avete ancora fede?». 41 E temettero con grande timore. E dicevano l’un l’altro: «Chi è dunque costui che anche il vento e il mare gli obbediscono?».

35 E

36 E,

La delimitazione dell’unità non presenta difficoltà: in 4,34 si chiude l’unità che concerne le parabole e in 5,1 si apre un nuovo episodio, con l’arrivo della barca all’altra riva, nel territorio dei Geraseni. Al centro abbiamo la traversata del lago. Lessico e stile Marco ha uno stile paratattico (la congiunzione kai ricorre 17x in 7 versetti!) e molti elementi inutili alla sostanzialità del racconto. Lo stile è spontaneo, abbondante, vivace (notare il presente storico!), tipico delle narrazioni popolari. Anche il lessico non è accurato e non ha uno spessore teologico come quello di Matteo, ad esempio. Quest’ultimo, oltre a uno stile più sobrio, che si sofferma su ciò che è essenziale (non contiene la precisazione di Marco che era sera quando inizia la traversata, che i discepoli presero Gesù così come era e che altre barche erano con lui, che Gesù dormiva a poppa sul guanciale, ecc.), ha una terminologia accurata e teologicamente densa. Già all’inizio Matteo pone il verbo tecnico della sequela (akoloutheô in 8,23) e la grande burrasca di vento (lailaps megalē anemou) di Mc 4,37 diventa in Mt 8,24 un terremoto (seismos!). Anche il grido rivolto a Gesù dai discepoli in pericolo – che in Mc 4,38 ha tutta la freschezza e la franchezza di compagni di viaggio- in Mt 8,25 acquista il sapore di un’invocazione liturgica (cf. Kyrie sōson apollymetha!) anche se un po’ convenzionale (cf. proselthontes in 8, 25)1. Il co - testo (contesto letterario). L’episodio appartiene al secondo arco narrativo del racconto sulla missione di Gesù, arco che inizia con il sommario di 3,7-12 e si conclude con il rifiuto dei Nazaretani. E’ interessante che la traversata avviene dopo il discorso parabolico, dove Gesù appare come il didaskalos che insegna con autorità e dove Gesù distingue tra i discepoli e “quelli che sono fuori”: «A voi è dato il mistero del Regno di Dio, ma a quelli che sono fuori tutto avviene in parabole» (4,11).

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Proselthōn – proselthontes è un segno di rispetto e si trova spesso in Matteo, anche nel contesto immediatamente precedente (cf. 8,2.5.19).

2 1. COESIONE NARRATIVA Il testo appartiene alla tradizione comune dei sinottici (Mt 8,23-27//Lc 8,22-25). Il testo di Mc è disposto secondo un ordine parallelo con: Introduzione (vv. 35-36) A. Descrizione del pericolo (vv. 37-38a) B. Grido di aiuto (v. 38b) A’ Superamento del pericolo (v. 39) B’ Rimprovero (v. 40) Conclusione (v. 41) Un confronto con il racconto di Matteo permette di cogliere maggiormente gli elementi comunicativi propri di Marco, perché in Matteo, il racconto è disposto in forma chiastica e comprende: Introduzione (v. 23) A. Descrizione del pericolo B Grido di aiuto B’ Rimprovero A’Superamento del pericolo Conclusione

(v. 24) (v. 25) (v. 26a) (v. 26b) (v. 27)

La sinossi mostra soprattutto un aspetto interessante. Marco ha un ordine narrativo più naturale, perché al grido di aiuto fa seguito il prodigio e solo dopo si trova il rimprovero. Matteo invece - più arditamente, ma più efficacemente - fa’ in modo che il rimprovero preceda il miracolo, sconvolgendo la logica del racconto che richiederebbe la rassicurazione solo dopo averne eliminato la causa. Quasi sicuramente Matteo ha cambiato l’ordine degli eventi per mettere in risalto non tanto i fatti, ma le parole di Gesù. 2. COERENZA SEMANTICA L’introduzione: vv. 35-36 35 E dice loro in quel giorno, venuta la sera: «Passiamo all’altra riva». 36 E, lasciata la folla, lo prendono com’era nella barca, e c’erano altre barche con lui. A differenza di Matteo, dove Gesù è l’assoluto protagonista, il soggetto che sale sulla barca mentre i suoi discepoli lo seguono (Mt 8,23), in Marco sono i discepoli che, dopo l’ordine di Gesù di passare all’altra riva, prendono in mano la situazione. È difficile capire il ruolo narrativo delle barche che accompagnano, dato che poi scompaiono dal racconto vero e proprio. Forse Marco vuole mantenere i lettori nella percezione di grande ammirazione che Gesù riscuote all’inizio del suo ministero. Si è spesso associata la dimensione ecclesiologica alla “barca”. In sé, però, la barca non è una metafora della Chiesa (forse solo più tardi, nei padri). Negli scritti giudaici la barca in mezzo alla tempesta è una metafora della vita dei singoli (Sir 33,2; Sal 69,15) e della vita comunitaria (Sal 46,3-4; 93,3-4), quando sono esposte al pericolo. Quindi se parliamo di una dimensione ecclesiologica (oltre che cristologica) è per la presenza di Gesù e dei discepoli nella barca. In essi traspare la comunità cristiana delle origini.

3 Descrizione del pericolo: vv 37-38a 37 E avvenne una grande bufera di vento e le onde si gettavano sulla barca, così che già la barca era piena 38a ed egli era sulla poppa, che dormiva sul cuscino. Marco (seguito da Luca) usa lailaps anemou = burrasca, tormenta di vento ed è più aderente alla realtà del lago di Genesaret, dove sorgono improvvise e violente correnti di vento2. Il «focus» narrativo nella descrizione del pericolo è nel contrasto tra la violenza della bufera (notare grande bufera, con le onde che si gettano sulla barca che quasi affonda) e Gesù che dorme. Una situazione poco probabile nella realtà, ma che ha una grande funzione narrativa, perché desta nel lettore la domanda su come sia possibile e su «chi» è allora Gesù. La storia della tempesta e del sonno rimanda alla storia di Giona, dove si racconta che nella tempesta che si scatenò quando il profeta cercò di fuggire dalla missione alla quale lo aveva chiamato Dio, Giona dormiva (1,5) nel fondo della nave. Il sonno di Gesù, però, più che il sonno di Giona, richiama nei lettori altre situazioni bibliche, in cui profeti e salmisti hanno lamentato la mancanza di intervento di Dio quando la salvezza era necessaria: Sal 35,23 (Destati, svegliati… per la mia causa, Signore mio Dio!) ; Is 51,9-10 (Svegliati! Rivestiti di forza… come nei giorni antichi…), ecc. Il paradosso è che sembra dormire colui che, per sua stessa essenza, “non sonnecchia né dorme” (Sal 121,4). Grido: v. 38b E lo svegliano e gli dicono: «maestro non t’importa che periamo? Il grido dei discepoli in Marco è senza alcun riguardo. Non è il grido della comunità credente che, nell’ora della prova, si rivolge al Cristo, invocandolo come Salvatore (cf. Matteo)3, ma l’urlo di chi sente una minaccia incombente e legge il sonno del maestro come indifferenza alla situazione. In alcuni salmi possiamo rinvenire qualcosa di analogo: perché nascondi il tuo volto e ignori la nostra afflizione e la nostra oppressione? Poiché l’ anima nostra è abbattuta nella polvere; il nostro corpo giace per terra. Ergiti in nostro aiuto, liberaci nella tua bontà (44,24-27). Marco presenta il grido sofferente di chi non vede via di scampo e vive di paura. Nella storia di Giona, il capitano della nave sveglia il profeta e gli rivolge la preghiera di invocare il suo Dio. Nel nostro testo la richiesta di aiuto ha tratti del tutto differenti. Il superamento del pericolo: v. 39 E, svegliatosi, sgridò il vento e disse al mare: «Taci, calmati! (sii imbavagliato!)». E il vento cessò e avvenne grande bonaccia. Tutto passa, quando Gesù prende in mano la situazione. Il verbo utilizzato dal narratore è epitimaō / ordinare rimproverare e gli imperativi messi sulla bocca di Gesù sono due: siōpa, pephimōso!4. È 2

Matteo usa invece seismos = terremoto. Il terremoto è un elemento teofanico. In 1 Re 19,11-12 ad esempio, al profeta Elia la presenza di YHWH avrebbe dovuto manifestarsi nei simboli classici: il vento, il fuoco, il terremoto… Si tratta anche di un simbolo apocalittico (cf., per es., Ap 6,12). In Matteo si trova altre 3x (Mt: 24,7; 27,54; 28,2) e indica la prova della comunità dei credenti nei tempi escatologici. Nei tre testi citati è evidente che Matteo voglia presentare qui un elemento simbolico per alludere alla crisi escatologica che coglie i discepoli di ogni tempo. Chi segue Gesù messia (cf. lo seguirono) si trova a vivere nella tormenta. La crisi è connaturale all’essere cristiani. 3

Rispetto al grido dei discepoli in Marco, in Matteo abbiamo un’invocazione liturgica (kyrie sōson: Signore, salva!), introdotta da un proselthontes, che mette in evidenza ancora maggiormente un rispettoso avvicinamento liturgico . La mancanza del pronome personale dopo l’imperativo di sōzō è strana (poche volte nel NT) sgancia ancora di più il racconto dai protagonisti storici per farne una vera e propria invocazione liturgica, indipendentemente dalla vicenda storica. La mancanza del pronome rende più universale il grido di salvezza.

4 con la sola forza della parola che Gesù placa il lago in tempesta! Secondo il Primo Testamento ammansire il mare è prerogativa di JHWH che domina le forze del caos (Sal 107,28-29; Sal 74,1215; 89, 9-10 Gb 38,8ss.; etc.). Come nel Sal 107,28-29 nell’ora dell’angoscia, i credenti gridano al Signore: nell’angoscia gridarono al Signore, ed egli li liberò dalle loro angustie; ridusse la tempesta alla calma, tacquero i flutti del mare. Ma c’è di più: il miracolo assume la forma di un esorcismo, con l’utilizzo del verbo phimoō (4,39) usato nella cacciata dei demoni (cf. 1,25). Il pericolo del mare viene visto come una forza demoniaca che minaccia la comunità dei discepoli. Il potere di Gesù sulla tempesta è lo stesso potere in grado di cacciare i demoni. Marco vuol mostrare, quindi, non l'uomo superiore, padrone della situazione, ma Colui che ha il potere di salvare la comunità sotto la minaccia delle potenze del male. Rimprovero: v. 40 E disse loro: «perché siete paurosi? Non avete ancora fede?». Come rimprovero di Gesù ai suoi appare il tipico motivo della mancanza di fede (Mc 4,40). Il motivo dell'incomprensione e dell’incredulità dei discepoli è ricorrente in Marco: si tratta di uno dei motivi che caratterizzano la figura dei discepoli e mostra la cruda verità della comprensione marciana sulla sequela (4,13; 6,52; 7,18; 8,17.21.31-34; 9,6.10.19.32-35; etc.)5. Il lettore comprende che i discepoli non sono entrati ancora nel mistero del Regno (cf. 4,11) e nel mistero di Colui che ne è l’annunciatore. Conclusione: v. 41 E temettero con grande timore E dicevano l’un l’altro: «Chi è dunque costui che anche il vento e il mare gli obbediscono?». La conclusione non fa che ribadire quanto detto. Ephobētēsan phobon megan è un’epressione che mette in rilievo un timore numinoso che si ha davanti alla divinità oppure solo il terrore di fronte a un fatto inaudito? Nel racconto di Giona il “timore” è la reazione dei pagani che riconoscono Jhwh, il Dio di Giona (Gio 1,10.16). È il timore che si ha davanti alla divinità percepita più grande di noi. In questa domanda abbiamo un segnale pragmatico, che qui siamo davanti a Qualcuno che è “più grande di Giona”. La domanda interessa tutti i lettori che s’imbattono nel Vangelo e in questo racconto e che sono costretti a porsi la domanda sull’identità di Gesù. E’ la reazione spontanea ed estasiata di fronte ai portenti. Ma il chiedersi o il meravigliarsi non è ancora fede. 3. ELEMENTI DI PRAGMATICA Le domande che ora ci facciamo riguardano il contesto comunicativo e la strategia del brano nei confronti dei lettori.

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Letteralmente l’imperativo pephimōso dovrebbe essere tradotto: metti la museruola!

Diversamente Matteo il quale dà un posto centrale alla oligopistia. I discepoli appaiono come oligopistoi, termine che ritorna in cinque occasioni: 6,30; 8,26; 14,31; 16,8; 17,20. In che cosa consiste qui l’oligopistia? E’ difficile dare in Matteo una risposta univoca che abbracci tutti i casi. Nel nostro testo sembra chiaro che la poca fede consista più che altro nel dubbio di potersi salvare nonostante la presenza del Kyrios. Matteo sembra suggerire che i discepoli confondono il sonno di Gesù (dormiva!) con l’assenza.

5 4.1 Il contesto comunicativo Iniziamo col dire che un lettore competente conosce questi miracoli di salvataggio sono comuni alla letteratura sacra e profana dell’antichità. Un inno omerico, ad esempio, (VI sec. a.C.) canta l’intervento di Castore e Polluce, figli di Zeus, durante una tempesta: «… i marinai, dalle navi, pregando, invocano i figli del grande Zeus… Ed il forte vento e l’onda del mare spingono la nave sott’acqua, ma d’improvviso essi appaiono… e placano l’impeto dei venti turbinosi e spianano le onde sulla distesa del bianco mare…»6. Nel Giudaismo si trovano testi analoghi nel Testamento di Neftali (6,29) e nell'Ellenismo si raccontano salvataggi di Asclepio e Serapide. Evidentemente il racconto evangelico, simile nella forma ai testi appena menzionati, è però assai diverso per contenuto e intento, e più vicino, invece, ai testi biblici del Primo Testamento, dove si presenta Dio che placa la tempesta e ammansisce le onde del mare (Sal 107, 23-31; Sal 104,7; ecc.). 4.2 La strategia pragmatica Ma qual è l’intento pragmatico di Marco? Qual è l’intenzione pragmatica del testo? Ossia, questo portento di salvataggio, che Gesù opera nei confronti dei suoi discepoli, quale intenzione ha nei confronti dei lettori? Vuol mostrare la potenza di Gesù? Oppure la sua benevolenza verso i suoi? Oppure che cosa? Partiamo da un discorso più generale. Se si chiede alla gente comune cosa sia un "miracolo", ci si sente rispondere con esempi che presentano un evento che va oltre il corso normale della natura. C’è un miracolo, ad esempio, quando nell’ordine naturale tutto lascia prevedere che una persona muoia e, invece, inaspettatamente e contro le leggi della natura, essa torna a vivere. Anche filosofi come Cartesio, Spinoza o teologi, come S. Tommaso hanno definito il miracolo "praeter ordinem totius naturae creatae". Un miracolo sarebbe qualcosa che contraddice le leggi della natura. La natura è governata da leggi fisse; il miracolo le contraddice, o almeno le sospende. Questa teologia s’appoggia su una concezione della natura che è prevalsa nel XVIII secolo e che è stata poi abbandonata dalla maggior parte degli scienziati perché oggi, dopo la scoperta della teoria della relatività di Einstein e altre teorie di Ruthenford e di Bohr, si parla più di ipotesi che devono essere vagliate e di un universo dalle sorprese continue. L’idea, poi, di una natura fissa su cui Dio interverrebbe per dimostrare la sua potenza o la sua esistenza non è mai entrata nel pensiero biblico. Per gli autori biblici tutto ciò che ci circonda è rivelazione di Dio. I cieli stessi narrano la sua gloria. In altre parole i miracoli, nei Vangeli, non hanno un funzione apologetica e i cristiani hanno commesso un errore insistendo su questo punto e trascurandone degli altri. Se da una parte non c’è dubbio che Gesù abbia compiuto miracoli (dato così costante nella tradizione evangelica) e se è vero che sopprimere i racconti di miracolo sarebbe annullare moltissime pagine dei Vangeli, dall’altra bisogna però aggiungere altre considerazioni. a. In tutte le civilizzazioni ci sono stati guaritori e operatori di prodigi. Più o meno nello stesso tempo di Gesù è vissuto un filosofo chiamato Apollonio di Tiana, di cui si raccontano molti miracoli. Marco quindi, almeno da un punto di vista formale, non si distingue dal contesto in cui vive e scrive: si tratta di un mondo dove demoni e miracoli fanno parte della comune percezione degli eventi Gesù biasima coloro che vengono a lui per cercare solo segni e Paolo afferma che coloro che chiedono miracoli 6

F. Cassola, Inni omerici, 1975, 457 (riportato più completamente da A. George, «Miracoli nel mondo ellenistico», in: X. Léon – Dufour, ed., I miracoli di Gesù, 79-80.

6 manifestano la loro immaturità di fede (1 Cor 14,20-22). c. Nel presentarci l’episodio della tempesta sedata, Marco vuole mostrare, attraverso categorie conosciute ai lettori (cf. Dio che calma la tempesta nei Salmi, ecc.), l’esperienza della salvezza che viene da Dio mediante Gesù. In Gesù e per mezzo di lui si rivela la salvezza di Dio. I miracoli sono opere di Dio che salva, segni della Sua Presenza, offerti non per suscitare la fede, Nonostante la terminologia diversa che definisce i miracoli nei Sinottici e in Gv, anche nei Sinottici essi sono “segni” che annunciano la manifestazione della salvezza di Dio presente in lui (Lc 11,20), l'amore benevolo di Dio verso gli uomini. Si potrebbe affermare che non sono i miracoli a provocare la fede, ma la fede a provocare i miracoli. Il biasimo di Gesù ai discepoli nel v. 40 (cf. sopra) dice proprio questo: la loro fede sarebbe stata sufficiente per superare il pericolo. O, detto altrimenti, “il segno sarebbe stato in fondo superfluo se i discepoli avessero avuto fede”. IL racconto della tempesta sedata vuole invitare a “credere” anche quando si è in pericolo e sembra che Dio si sia addormentato.

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I MACARISMI Mt 5,3-12 Testo e co-testo I macarismi aprono il discorso del monte. L’ introduzione narrativa (5,1-2) è piena di fascino: Vedendo le folle, salì sulla montagna e sedutosi, gli si avvicinarono i suoi discepoli. E, aperta la bocca, li ammaestrava. Gesù vi viene presentato come un uomo autorevole, il quale, alla maniera rabbinica, si siede al cospetto dei discepoli e delle folle. Lungo tutto il discorso, e nella reazione finale delle folle, verrà detto che Gesù non è semplicemente un rabbi o, comunque, non è come gli altri. E questo confermerà ciò che il lettore già conosce dalla prima parte della storia: Gesù non è solo un Rabbi, ma il Messia secondo le Scritture. Il motivo del monte è certamente dovuto in prima istanza all’accalcarsi delle folle, ma al lettore competente non sfugge il rimando all’importanza biblica di diversi accadimenti sul monte (cf. Es 24,1-9) e alla sottolineatura magisteriale di chi insegna (cf. edidasken) abbracciando con lo sguardo il suo uditorio. Poche pennellate iniziali, dunque, che segnalano un evento di grande portata. La sistematizzazione accurata delle parti, la cornice geografica, il fatto che sia posto all’inizio come discorso programmatico… tutto lascia supporre che Matteo lo abbia inteso come la magna charta della sequela di Gesù, per tutte le generazioni. Sui destinatari del discorso si è molto dibattuto. Il testo menziona le folle e i discepoli. Gerhard Lohfink, sulla base delle regioni menzionate in 4,25 pensa che si tratti del popolo di Israele1. - a mio parere, giustamente - lo critica, dicendo che questa visione non corrisponde alla prospettiva universalistica del Vangelo di Matteo2. In effetti, dal momento della chiamata dei primi discepoli (4,18-22), attorno a Gesù vanno formandosi due cerchi di persone: uno più largo, costituito dalle folle, e l’altro più vicino, rappresentato dai discepoli. Ambedue i gruppi sono evocati qui, ma l’espressione prosēlthan hoi mathētai autou mostra che l’uditorio diretto a cui è rivolto il discorso sono i discepoli. In effetti molti detti del Discorso si comprendono solo alla luce che si è discepoli di Cristo. I discepoli sono i personaggi nei quali i lettori che hanno aderito a Gesù si riconoscono. Ci potremmo chiedere perché allora Matteo abbia lasciato le folle all’introduzione (in 5,1) e nella conclusione (in 8,1). Il motivo è abbastanza intuibile: Matteo vede

1. La coesione sintattica 3 4 5 6

Beati Beati Beati Beati

i poveri in spirito, gli afflitti, i miti, quelli che hanno fame e sete della giustizia,

perché di essi è il regno dei cieli. perché saranno consolati. perché erediteranno la terra. perché saranno saziati.

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Beati Beati Beati Beati

i mis...


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