Futuri Testardi - RIASASUNTI PDF

Title Futuri Testardi - RIASASUNTI
Course Politiche Sociali
Institution Università degli Studi di Parma
Pages 11
File Size 183.6 KB
File Type PDF
Total Downloads 20
Total Views 140

Summary

RIASASUNTI...


Description

FUTURI TESTARDI: Il futuro dello Stato sociale visto dagli/dalle operatori/trici sociali

Un futuro altalenante per il welfare: “cambiare è necessario ma impossibile” Un interesse particolare è stato rivolto all’immaginario sul futuro del welfare elaborato proprio con operatori sociali coinvolti sul campo, invitati a concettualizzare le fatiche, le insoddisfazioni, le paure sul tempo futuro e sulla tenuta dello stato sociale europeo al tempo della crisi finanziaria e culturale più volte descritta. Come abbiamo già detto nelle premesse metodologiche, alcuni Future Lab riguardavano l’innovazione dei Piani di Zona dentro il progetto Community Lab. I primi soggetti coinvolti, quindi, sono stati quelli solitamente deputati alla gestione dei Piani di Zona nei distretti sociosanitari. In tal senso, la ricerca ha coinvolto operatori di vario genere e con varia collocazione gerarchica - direttori di distretto, responsabili di uffici di piano, operatori sociali coinvolti come facilitatori e così via - chiamati dall’Agenzia Sociale e Sanitaria ad una riflessione collettiva. Come vedremo, nella fase della transizione vi era il coinvolgimento di soggetti solitamente non invitati all’interno dei piani di zona (vedremo ad esempio il contributo dei così detti “social natural helpers”, chiamati anch’essi ad immaginare l’evoluzione delle politiche e dei servizi sociali). Nelle fasi iniziali della ricerca, abbiamo potuto riscontrare come i mutamenti sociali (precarizzazione del ceto medio, invecchiamento e diffusione di malattie croniche, e così via) inquietino i giovani operatori coinvolti nella ricerca. Per gli operatori sociali, infatti, stanno cambiando le forme di fragilità sociale: la precarietà e la vulnerabilità di massa non sono più arginate nei gruppi ristretti di cui si occupavano i servizi del novecento, minoranze devianti dalla normalità (in definitiva dalla “normale produttività”), che dovevano e potevano essere “normalizzate”. Oggi al contrario, anche coloro che corrono come matti, lo abbiamo visto, non trovano un posto all’interno dell’ordine sociale. Precari cognitivi, genitori soli o separati, anziani ancora autosufficienti ma lontani da figli emigrati, lavoratori flessibili a basso salario e ridotte tutele: sono questi gli attori principali delle distopie prodotte dagli operatori sociali, dentro mondi dove tutti sono esposti al rischio di isolamento e di esaurimento delle energie. Nei loro racconti, vediamo descritte persone che hanno bisogno di aiuto ma si vergognano di chiederlo, e slittano terrorizzati e rabbiosi verso una povertà che non hanno mai conosciuto. Nuove forme di vulnerabilità psico-sociale del futuro vengono legate a life event normali, come la nascita di un figlio, che per donne accelerate e multitasking diviene insostenibile, o un problema di salute, inconcepibile se devi mantenere mille lavoretti senza sosta, e così via. Dagli operatori sociali è avvertita la preoccupazione circa la tenuta di fondo delle istituzioni rispetto a ciò che emerge nella società, quindi, ma anche circa il fatto che le energie istituzionali sono

assorbite dalle interlocuzioni interne, sempre più impegnative e insostenibili, dai contrasti tra sottoinsiemi istituzionali. Molto spesso i racconti tornano a labirinti specialistici dove neppure gli specialisti sanno più come muoversi o a moltiplicazioni ingestibili del controllo burocratico; molte sono le distopie sui tribunali in cui assistenti sociali e medici vengono condannati per gli errori fatti e così via. I racconti degli operatori si riferiscono spesso anche a difficili interlocuzioni con le famiglie dei malati e dei disabili, oppure con associazioni del terzo settore dedite a questioni sanitarie: storie di duelli che avvengono a suon di citazioni scientifiche e giuridiche e che finiscono per intimorire gli operatori, metterli costantemente sulla difensiva (“andremo tutti a lavorare armati”, dice una operatrice). La distopia prodotta è complessivamente quello di un welfare che si è “chiuso”, che è “imploso su di sé stesso” per citare una partecipante, che “ha perso tutte le sue energie perfezionando tecniche e burocrazie senza rendersi conto di perdere il contatto con grandi fette di popolazione”, per citare un altro partecipante. In questi scenari, un sistema ad alta efficienza si è chiuso perché ha rinchiuso gli operatori in spazi predefiniti sempre più blindati (in uffici atti ad erogare prestazioni sempre più standardizzate, per singoli target): «Non usciremo mai dagli uffici, blindati sotto cartelle e carte e macchine controlla carte, senza più sapere cosa accade, trasformati in burocrati, ecco, noi assistenti sociali sepolti nelle carte, i medici sepolti nelle macchine da diagnostica, ma nel capire i processi ammalanti nessuno degli operatori sarà più esperto». E, d’altro canto, “chiuderà” sempre più, separerà e metterà dentro comunità di accoglienza e strutture: “io sarò specializzata in minori stranieri non accompagnati di colore marroncino pelle livello 2, tu pelle livello 3, tutti resteremo chiusi con i nostri target dentro le loro gabbie che faremo noi”, dice un’altra partecipante. Ribaltando queste distopie, il desiderio che emerge è quello di un “welfare ri-aperto”. “Riaperto” perché nelle ore di lavoro si esce fuori, per leggere i territori, per mapparne le risorse associative, le reti sociali formali e informali, per apprendere linguaggi della esperienza e della vita, per ridefinirsi simili ai cittadini e così via: «Vedo un sistema in cui possiamo stare nei gruppi, metterli in contatto, non abbiamo paura di circolare fuori, di animare, di mobilitare, per mostrare ai tanti precari che il problema non sono loro, che loro hanno anche risorse, che possono aiutarsi a vicenda, e magari aiutare noi con quelli messi peggio», dice una operatrice. Ed è “ri-aperto” perché, uscendo e cucendo, esperienze specifiche di disagio saranno inserite in processi di risocializzazione, compito primario di questo futuro Stato Sociale.

L’idea di questo cambiamento emerge dalle narrazioni utopiche: molti operatori ricordano quando queste modalità facevano parte di un lavoro sociale artigianale, con meno codifiche burocratiche, e molti operatori sentono il desiderio di operare in modo meno difensivo e più partecipativo. Emerge, insomma, la visione utopica di uno stato sociale pubblico che possiamo definire “partecipato”: un tipo di servizio sociale e sanitario tecnologicamente avanzato, ma capace di assumere la cura tenendo presenti le dimensioni relazionali e sociali degli utenti, includendo al suo interno reti di auto/mutuo aiuto e di scambio, e così via. Durante la ricerca questa ammissione della necessità di cambiare, ci è parsa importante. Gli operatori sentono che un nuovo welfare è un modo decisivo per lo Stato di ricostruire la cittadinanza sostanziale, di rifondare un patto collettivo di appartenenza quotidiana alle istituzioni. E tuttavia, anche se il cambiamento del welfare appare ineluttabile, va detto che agli stessi operatori sociali questo futuro appare spesso “impossibile”. In nessun altro gruppo come in questi Future Lab si stentava a stabilizzare l’immaginario, a fissare il passaggio da una fase all’altra: dalla catarsi si passava alla visione, per poi tornare indietro e parlare ancora di distopia. La facilitazione è stata oltremodo difficile, i gruppi non riuscivano ad avanzare (in senso di esercizi immaginari) oltre la paura del cambiamento. Le resistenze si manifestavano con argomentazioni a mio avviso molto interessanti, come se vi fosse una specie di “altalena” dell’immaginario, pensieri volti a spiegare una specifica forma di ambivalenza istituzionale propria dei contesti socio-politici progressisti, una inerzia che deriva dalla loro paralisi: «Se i soldi e gli operatori sono pochi, mettersi in queste forme di gestione partecipativa e territoriale delle istituzioni andrebbe a detrimento di ciò che dobbiamo tutelare a tutti i costi: i servizi sociali e sanitari universali che abbiamo conosciuto nella seconda parte del secolo scorso». L’implicito è quindi, spesso, l’insufficienza delle risorse economiche, che impone di non cambiare, di non dimenticare i “super-ultimi” (i senza tetto, i tossicodipendenti, e così via) in nome dei penultimi nominati (i depressi, i precari, gli adulti fragili, gli adolescenti con poche risorse e attenzioni, e così via): “i futuri saranno l’esito di un mercato tra sfighe; noi saremo i battitori, come nelle aste. Chi vuole occuparsi dei disoccupati? E si ma allora gli handicappati? A ciascuno il suo lotto da proteggere”, dice un’operatrice. A questi discorsi però si contrappongono subito argomentazioni di segno opposto: “Non è questione di soldi. Potrebbero essere di più, certo, ma nel nostro contesto regionale sono effettivamente notevoli, soprattutto in termini di strutture e di saperi accumulati, e potrebbero essere diversamente impiegati” dice un altro partecipante. Viene notato che oggi l’investimento sulle risorse umane è scarso, mentre quello sulle risorse tecnologiche troppo elevato: “questa tendenza potrebbe essere invertita, una educatrice di strada in più, un’infermiera di comunità, un medico di medicina generale itinerante, insomma, questo sarebbe sostenibile eccome, e vitale”, risponde una collega. Per chi

propone l’apertura dei servizi, le reti sono erogazioni, sono il presupposto per estendere i diritti non per sottrarre risorse ad essi. Un’altra preoccupazione sovente espressa è quella della mancanza di “un mandato politico chiaro”. Il timore “è che i contatti, la partecipazione con le istituzioni possano alla fine fallire, creando così ulteriore risentimento, se non c’è un mandato rivoluzionario vero dall’alto”, dice una operatrice. Ma subito viene osservano che “in realtà il mandato istituzionale è sempre stato frutto di una negoziazione interna alle istituzioni, più che esterna, perché non sono monoliti ma organismi vivi, costituiti da sezioni in conflitto tra loro, il cui riequilibrio è costante”, cioè “il mandato dall’alto non è mai stato chiaro e si è fatto rivoluzionario quando gli operatori hanno agito dal basso”, come dice una collega, e prosegue: «Pensiamo ai consultori per la salute delle donne o le scuole del secondo ‘900: il ruolo delle operatrici sanitarie o delle insegnanti nel costituire il contesto politico di riferimento dell’erogazione dei servizi è stato fondamentale, attraverso le loro pratiche quotidiane hanno segnato un punto di non ritorno, hanno indicato quanto poteva, e quindi doveva, essere fatto. E noi allora oggi?». Dai racconti emerge insomma la paura di non riuscire, di non essere all’altezza di un’epoca di cambiamento e transizione. Convengono che la rotta da seguire è quella del welfare che abbiamo chiamato “aperto”, ma operativamente appare loro molto difficile. Difficile rapportarsi nel lavoro con qualcuno che non sia un utente dalle caratteristiche ben definite; difficile trovare il modo giusto di porsi se non è chiaro l’esito del processo cooperativo; difficile la ricollocazione continua dovuta al fatto che non si conoscono le risorse e le reti da contattare ed è quasi impossibile prevedere l’esito del loro coinvolgimento. La paura di perdere il controllo sugli esiti (“in ufficio si sa cosa fare… ma fuori?”) mostra l’interiorizzazione di modelli di cura e lavoro sociale centrati sulla capacità di decisione ed erogazione davanti ad una categoria precisa di bisogni (così, gli spazi dell’ascolto vanno ridotti al minimo e l’incertezza viene vissuta come emozione professionale da rimuovere). Forse l’attuale formazione universitaria di tipo psico-socio-sanitario rischia di disabilitare l’operatore rispetto al cambiamento, alle relazioni professionali aperte (relazioni calate in setting cangianti con gruppi di persone che variano e all’interno di negoziazioni per certi versi imprevedibili). Possiamo concludere dicendo che la costruzione sociale di un welfare “partecipato” e “aperto” attrae e al tempo stesso spaventa gli operatori; li rimotiva e, al tempo stesso, li stressa. La discesa nel territorio intravista come maturazione dell’operatore è anche temuta come rischio di snaturare il proprio profilo professionale.

Andare oltre i target. “Abitanza” e “malitudine”: parole nuove per nuove politiche sociali

Nonostante questi stati d’animo, gli operatori hanno assunto con interesse la proposta di un esercizio di intelligenza politica svincolato dalla protezione dell’esistente. Per citare una delle riflessioni emerse dai lavori, si è comunque riusciti a passare da analisi “past-based” (cioè basate su problemi già categorizzati, forme di disagio definite da target quali “immigrati” o “disabili”) ad analisi “emergent-based” (alla ricerca di nuove tipologie per definire forme di diseguaglianza e di malessere sociale nuove, come quelle dei “precari”), per proporre politiche sociali “future-oriented” (in grado di dare risposta a ciò che oggi emerge senza usare le categorie in modo tradizionale, per intercettare quei mutamenti). Per fare alcuni esempi, i tavoli di lavoro avviati hanno identificato nuove politiche necessarie tra cui: 

Politiche di contrasto alla “precarizzazione” (chiamate dai tavoli “politiche per la discontinuità biografica”, “politiche locali a sostegno del reddito precario”, “politiche contro l’impoverimento del ceto medio”);



Politiche di contrasto alla “malitudine” (“politiche contro l’isolamento”, “politiche di aggancio delle persone disattivate”);



Politiche per l’uso collettivo (“politiche sociali per gli usi comuni”, “politiche per lo scambio diffuso”);



Politiche per la “abitanza” (“politiche per l’abitare solidale”, “politiche dell’ospitalità diffusa”), e così via.

Queste visioni sono state poi condivise in percorsi con attori sociali indicati dagli stessi operatori, persone, gruppi o collettivi implicati nei problemi identificati, specificatamente immersi nelle condizioni di disagio o coinvolti nel loro ascolto quotidiano. Alcuni esempi: 

I responsabili dei Gruppi di Acquisto Solidale e gli agricoltori locali sono stati invitati come esperti di politiche per “la produzione e il consumo collettivo”;



I precari cognitivi e le neo-mamme degli asili nido sono stati coinvolti come esperti di resistenza alla “discontinuità biografica” (alla precarizzazione della vita);



Gli imprenditori appena-falliti come esperti di resistenza all’“impoverimento”;



I baristi e i tatuatori come esperti per la elaborazione di politiche contro la “disattivazione giovanile”;



I tabaccai e i baristi come esperti di “nuove dipendenze” (da gioco, da movida);



Le estetiste e le parrucchiere come esperti in un tavolo sulla violenza contro le donne.

È al lavoro cognitivo tra questi soggetti che dobbiamo l’interessante emergere di neologismi, di termini nuovi e inusuali. “Abitanza” ad esempio è un termine emerso a Bologna e poi adottato in altri percorsi.

È stata definita così la condizione di coloro che vivono effettivamente un dato territorio, perché inseriti con una continuità in vari ambienti sociali, capaci di costruire stabili relazioni di vicinato attraversando luoghi terzi (per intenderci non solo parchi, ma anche bar di quartiere e associazioni, parrocchie…), che però non esercitano azioni di cittadinanza più tradizionalmente intesa (partiti, istituzioni, ecc.), anzi spesso ne sono interdetti (non hanno i documenti). L’assunzione del termine “abitanza” in sostituzione di “cittadinanza” all’interno dei documenti della programmazione ha significato indicare, allora, un modo diverso di considerare come residenti effettivi coloro che abitano perché: “lo Stato sociale del futuro non si occupa di chi ha le carte in regola ma di chi vive”, come dice una operatrice. “Malitudine” è un altro termine che ha fatto presa e creato convergenza tra i tavoli. Con “malitudine” si sono indicate quelle forme di disagio che sono tali non tanto per la loro gravità, quanto piuttosto per il fatto di essere vissute in modo solitario. Sono “malitudini”, ad esempio, tutte le forme di fragilità legate a life event come le nascite o il lutto (che prende oggi forme depressive accentuate) o lo stesso prolungarsi della vita anziana (un diabete lieve che senza aiuti diventa una “malitudine grave”), e così via. In tal senso, le politiche del futuro non saranno più sociali o sanitarie, ma “socianitarie davvero, perchè tutte le categorie saranno co-categorie”, dice una operatrice. Come si vede, queste parole confliggono con concetti usuali negli spazi istituzionali: la “abitanza” preme sulla “cittadinanza” comunemente intesa, la “malitudine” preme sulla “depressione” come categoria psicopatologica, e così via. Ma la nostra elaborazione mostra molti altri termini nuovi. Le “Sentinelle” ad esempio è il termine inventato per indicare quelli che ascoltano i problemi e svolgono un primo orientamento “informale e spesso inconsapevole”: tabaccai, baristi, amministratori di condominio, parrucchiere, negozianti, a ben vedere, tutte persone che già ora svolgono un ruolo di ascolto, per cui si tratta di riconoscere in futuro questa competenza, metterla in rete. O le “Coll-azioni”: forme di spazio terzo (né pubblico né privato) dedicate alla coesione sociale (arredi urbani mobili, da un quartiere all’altro, consultori su pulmini, equipe di strada, spazi rifugio per giovani, e così via). Infine, al di là dei singoli significati di questi neologismi ideati per il futuro delle politiche locali, colpisce la capacità da parte degli operatori, di rimpiazzare categorie consolidate non più in grado di stimolare la riflessività sulle disuguaglianze.

I social natural helpers: saperi dell’esperienza e nuove alleanze La presenza di nuovi attori sociali, solitamente assenti nei contesti della progettazione politica, ha scardinato le solite dinamiche tra operatori dei servizi e del terzo settore (le associazioni e le cooperative) impegnati nella reciproca richiesta di risorse. Nei partecipanti è subentrata maggiore

riflessività e apertura alla creatività. Un elemento di interesse, a mio avviso, è quello dell’elevata adesione: molte le parrucchiere e i tabaccai o i precari creativi che hanno accettato di partecipare. Alle riunioni, ogni volta la sorpresa degli operatori è stata grande e ogni volta si è mostrato un capitale di fiducia inaspettato. Come dicevamo, questi inediti incontri hanno fornito spunti interessanti per la ri-categorizzazione dei problemi sociali. In un tavolo di lavoro a Cervia, ad esempio, i tabaccai hanno provato ad identificare tipologie di dipendenza dal gioco di azzardo incrociando la condizione economica, l’età e il tipo di consumo (“gli anziani e i migranti giocano spesso e poco; i disoccupati di 50 anni fanno i sistemi e giocano con poste più alte, ma meno spesso…”) e a calcolare i tempi della radicalizzazione della dipendenza (“a me sembra che i migranti fanno meno danni al loro portafoglio, ma diventano presto dipendenti…”), insieme a psichiatri e operatori del Sert che si occupano di dipendenze. In questo modo, è già in scena un welfare in grado di interloquire con le dipendenze a partire da un punto di vista più “interno al campo”, come dice un operatore. Gli psichiatri restavano sorpresi davanti a categorie di dipendenza per loro sconosciute e ai metodi diagnostici dei commercianti basati su elementi psicologici (i tempi di esposizione), ma anche su elementi sociologici (i soldi a disposizione) e così via. In altri termini, ciò che finora è stato affidato alla diagnostica clinica delle dipendenze veniva ricondotto nelle analisi dei tabaccai a categorie di diagnosi “ibride”, che mettevano i professionisti nelle condizioni di non poter ignorare le implicazioni sociali delle questioni trattate. Un esempio analogo ho riscontrato a Parma seguendo il confronto tra operatori sociali (assistenti sociali, educatori, psicologici) e baristi della movida dentro ad un progetto sulle politiche giovanili: è emerso un modo di leggere la segregazione tra giovani “studenti meridionali”, “erasmus”, “giovani stranieri” a cui gli educatori non avevano pensato. O ancora, ricordo il confronto tra assistenti sociali e parrucchie...


Similar Free PDFs