Letteratura inglese III - Peghinelli appunti PDF

Title Letteratura inglese III - Peghinelli appunti
Author Sara Montanari
Course Letteratura inglese iii
Institution Sapienza - Università di Roma
Pages 10
File Size 244.6 KB
File Type PDF
Total Downloads 89
Total Views 146

Summary

Appunti di letteratura inglese III con il professore Peghinelli.
Corso: Lingue, culture, letterature e traduzione - Sapienza Università di Roma...


Description

IL TRAGICO E L’UMORISMO È uno dei più potenti miti letterari dell’ultimo secolo. La parola ‘beckettiano’ è nota anche tra coloro che conosco poco Beckett. Evoca una visione triste e cupa della vita alleviata dallo humor. Evoca un minimalismo e il bisogno di esprimersi in modo scarno ed essenziale. La mancanza di specificità nel suo dramma ha supportato l’idea che la sua opera fosse di portata universale. Paradossalmente, viene descritto come autore che esprime una condizione umana atemporale, ma al tempo stesso viene celebrato come la voce più reale di un modo devastato dopo la guerra. I suoi personaggi rappresentano un modo privo di speranza, senza Dio e moralità. Ha sempre messo più enfasi sull’estetica del suo lavoro che non sul suo significato, sulla forma piuttosto che sul senso. Questo perché secondo lui il pericolo stava proprio nella nitidezza dell’identificazione. Nei suoi primi lavori in prosa (More Pricks than Kicks 1934) le corrispondenze tra i personaggi e gli eventi della sua vita privata sono molto esplicite. Nella sua produzione più tarda, queste corrispondenze saranno più difficili da identificare. Nacque il 13/4/1906 da famiglia protestante, visse nel villaggio di Foxrock, nelle vicinanze di Dublino. La chiave per capirlo è analizzare il suo rapporto con la madre, rapporto di amore-odio. Non ha un bel ricordo della sua infanzia, la descrive come solitaria; non a caso temi di solitudine e alienazione affiorano nelle sue opere. Inoltre, essendo membro della minoranza protestante presente in Irlanda, si è sempre sentito un ‘estraneo’. Infatti, molto spesso, i suoi personaggi si pongono la domanda ‘who am I?’. Al college imparò il francese e l’italiano e dopo essersi diplomato, lavorò come insegnante per 9 mesi, ricordata da lui come un’esperienza infelice. Nel 1928 si trasferisce a Parigi, dove fa conoscenza con James Joyce, il quale influenzò molto la produzione beckettiana. Verso la fine del 1931 decide di rinunciare al lavoro di insegnante e iniziano così i suoi ’anni vagabondi’, trascorsi viaggiando per l’Europa. Nel 1938 viene accoltellato a Parigi, durante la convalescenza riesce a riconciliarsi con la madre e conosce Suzanne Deschevaux-Dumesnil; Beckett deve parte del suo successo a lei perché è stata lei a riconoscere il suo talento e ad incoraggiarlo. Morì a Parigi il 22/12/1989. Beckett rappresenta quella condizione che si riconduce al tragico. Il suo linguaggio teatrale riconvoca e ricapitola un’intera civiltà nella tensione fra due impulsi contrastanti: accumulare e conservare, cancellare e levare. A questa riconvocazione Beckett applica la lente dello humor. Beckett ride per demolire le illusioni, le maschere, i veli che gravano nella testa dell’uomo. L’humor liquida la tradizione della tragedia (coscienza tragica). Le sue opere sono note perché sono incentrate sul pessimismo e sulla sofferenza umana. Sono incentrate su questi temi perché Beckett assistette a eventi di importanza mondiale: 2 guerre mondiali, le guerre coloniali in Africa, la minaccia della guerra fredda, alla guerra civile irlandese avvenuta durante la sua adolescenza. Su questi eventi sono incentrati l’esistenzialismo e la letteratura dell’assurdo, spesso Beckett viene associato a questi movimenti filosofici. L’esistenzialismo pone l’individuo al centro dell’investigazione. Un certo filone dell’esistenzialismo sostiene che la vita è assurda, senza uno scopo o un significato, e la vera domanda è se suicidarsi o meno (Waiting for Godot). Con il termine ‘teatro dell’assurdo’ si indica che l’esistenza umana è futile e insignificante; in questo teatro vengono rifiutate le strutture tradizionali, una chiara identità dei personaggi o delle relazioni coerenti di causa ed effetto. Ma è Beckett stesso a rinunciare ad ogni associazione con il teatro dell’assurdo. Fu un grande sperimentatore e innovatore, descritto infatti come ‘l’ultimo moderno’. Beck ett fa precipitare le parole in frammenti, come se fossero tecnologie limitate che imprigionano l’uomo in un ristretto orizzonte, il quale vieta veramente che si alzi lo sguardo. Lo humor attraversa tutta la prima fase della drammaturgia beckettiana per smorzarsi nella seconda fase, quando emerge un altro atteggiamento. Lo humor ha sgomberato il campo, ha aperto alla “via negativa” che si fa largo attraverso una progressiva espansione del silenzio. Spentasi la parola resta il livello della “percezione fisica”. Anche il testo si trasforma, diventando una partitura ritmica sempre più scarna ed essenziale, centrata sul segno del corpo, della voce, del suono e del ritmo. Il suono diviene immagine non di idee, ma della “volontà” di esistere.

WAITING FOR GODOT

Quando nel 1952 Waiting For Godot fu pubblicato ed andò in scena, ci fu una svolta radicale nella storia della drammaturgia. Fino ad allora la drammaturgia non si discostava formalmente dagli schemi del naturalismo e della letteratura della tragedia e del melodramma. È un testo che prepara il futuro con la multidimensionalità della scrittura-sceneggiatura che fa perno sul corpo, con l’estrema essenzialità del suo segno scenico. È l’attesa l’immagine guida che piega a sé la forma dell’opera e che vanifica ogni sviluppo di intreccio. Essa induce una polverizzazione dell’azione e della parola. In questo modo parole, gesti ed azioni sono irrilevanti, intreccio e fabula non possono coincidere. Quantitativamente, nel rapporto parola-azione è la parola a dominare. L’immagine dominante dell’attesa si traduce in uno spazio-tempo caratterizzati dalla sospensione. Il luogo è fisso: una nuda strada di campagna, con la sagoma di un albero spoglio su cui nel secondo atto compare qualche foglia, con una pietra per sedersi e la luna che si alzerà. In entrambi gli atti il tempo esterno è quello della sera, due lassi simmetrici che ci fanno pensare a un presente immobile e sospeso, viene complicata la relazione di causa ed effetto. Domanda frequente che si pongono gli spettatori è chi sia questo Godot e se rappresenti Dio (God);il ragazzo che appare alla fine di ogni atto ritiene che Godot ha una lunga barba bianca, come alcune rappresentazioni pittoresche di Dio in Occidente. Anche quando viene chiesto a Beckett chi sia Godot e se corrisponde con God, lui risponde che se lo sapeva chi fosse lo avrebbe detto nell’opera. Comunque ci sono delle allusioni bibliche nell’opera anche se non si può identificare Godot con God. Non ci arriverà un messaggio da questa opera, così come Godot non arriva per Vladimir ed Estragon. Godot è anche metafora dell’attesa umana. La maggior parte degli esseri umani attende qualcosa che deve avvenire nel futuro: le vacanze, il lavoro giusto, la pensione, ecc. Una volta che questo desiderio viene realizzato, si attende per qualcosa di nuovo. La vita diventa così una vana aspettativa orientata verso il futuro. La vita umana è una routine, si sviluppano delle abitudini da seguire fino a che un evento insolito accade.’habit is a great deadener’(Vladimir). Ma, ci sono degli elementi che ci risollevano da questo pessimismo: l’affetto che c’è tra Vladimir ed Estragon, la comicità dell’opera. La mancanza di informazioni precise, fa spostare l’attenzione del pubblico dal contenuto alla forma dell’opera. L’opera è anche una parodia delle conversazioni che avvengono nei bar o nella vita quotidiana. L’opera mostra gli aspetti ripetitivi di quella che noi chiamiamo realtà. Alcuni critici ritengono che è un’opera in cui nulla accade, ma si può controbattere che aspettare è già un’azione, inoltre altre piccole azioni avvengono: giocare con gli stivali, scambiarsi i cappelli, ecc. Quel che bisogna fare è “passare il tempo”; Beckett ce lo fa percepire col disaggio delle pause. L’attesa di Godot è l’obiettivo fondamentale, costantemente presente in Vladimir, costantemente perso di vista in Estragon. Intanto si perseguono obiettivi immediati: alleviare il disagio delle scarpe strette, calmare la fame, riposare. Aspettare Godot non è però l’obiettivo primario di Pozzo, il suo resterà vendere Lucky ed ostentare risorse e talenti. Nessuno può aiutare l’altro nel raggiungimento dell’obiettivo, salvo sostenersi reciprocamente. Estragon è pigro anche nel parlare, smemorato e passivo. Complementare, Vladimir è dinamico, iperattivo, loquace; nella relazione trai 2 è il più protettivo (è lui che durante l’opera avvolge il suo cappotto sulle spalle di Estragon mentre dorme). Pozzo è violento e arrogante, domina l’altro con sadismo, è esibizionista. Lucky è completamente succube di Pozzo: remissivo e masochista, da lui si lascia brutalizzare. Garcon, il messaggero, tiene viva l’attesa con i suoi annunci. Micro-azioni elementari non lasciano mail il campo all’azione eccezionale. Beckett utilizza il dialogo, ma non sarà mai un vero dialogo perché è minato in partenza dal soliloquio e dal silenzio. Ma è nel silenzio che hanno luogo i momenti più espressivi dell’opera; i silenzi esprimono repressione, paura. L’atto linguistico fondamentale è l’interrogazione. Stili, registri, codici si mescolano. Si intreccia la lingua alta con la lingua bassa, sono presenti latinismi. Toni e ritmi si mescolano: pacati e urlati, frenetici e stentati. Nel dramma tradizionale il personaggio pensa, vuole, decide, agisce. Il personaggio beckettiano, invece, si nega nell’incertezza dell’identità, nell’impotenza e nell’immobilità. L’azione si blocca nella rinuncia. Il dialogo è sostituito da uno pseudo dialogo, diventa monologo, si degrada in chiacchiera, approda nel silenzio. Le conversazioni sono solo una distrazione dalla distruttività del tempo. Sono delle ‘abitudini’ che proteggono i personaggi dalla consapevolezza della loro solitudine e della loro bassezza morale. La parola viene desemantizzata, diventa suono e nient’altro. Il tempo si dissolve in molteplicità di istanti uguali, di cui non si conserva il ricordo. Composto fra il 9/10/1948 e il 29/01/1949, fu pubblicato in francese per Les E’ditions de Minuit nel 1952, andò in scena il 3/1/1953 al Babylone; la versione inglese fu pubblicata dalla Grove Press di New York nel 1954 e dalla Faber and Faber

di Londra ne 1956. La rappresentazione inglese rispetto a quella francese è meno colloquiale e informale, meno comica, più ironica e agibile sulla scena. Il regista Roger Blin accolse il manoscritto di En Attendant Godot che Beckett gli aveva mandato. La rappresentazione valorizzò al massimo i segni non verbali della partitura beckettiana. La scena vuota fu realizzata con materiali poveri. Ciò che connota il sentimento del tragico è ben presente nel testo beckettiano. I suoi modi ci sono tutti: l’uomo è inchiodato al limite della sua prospettiva e della sua fragilità. L’uomo è stretto nelle maglie della pena e del dolore. La figura radicale della coscienza tragica, la morte, è oggetto di tematizzazione esplicita o di allusione frequente: il “mucchietto d’ossa” che Estragon sarebbe già se non ci fosse Vladimir, il proposito di impiccarsi come fatto eccitante, ecc. L’acuto sentimento del tragico di Beckett non si traduce tuttavia in tragedia, ma in una forma nuova attraversata dallo humor. Vengono demoliti i nuclei tradizionali della tragedia: il primo elemento a cadere è il topos dell’eroe e della sua azione. L’azione che compiono i personaggi è assolutamente banale, non eroica. Per ogni gesto estremo, come il darsi la morte, manca l’energia e la determinazione. Attraverso lo humor viene smontata la presunzione dell’uomo di poter lottare contro l’assoluto. L’effetto comico scatta attraverso i modi della parola, il gioco di parole, il doppio senso, nella situazione quando si risolve rapidamente con sorpresa. Il testo è pieno gi gesti ripetuti la cui comicità si evidenzia nella recitazione dell’attore. La deviazione umoristica sdrammatizza una situazione che rischia di diventare patetica.

Endgame Fin de Partie uscì nelle Editions de Minuit nel 1957 e, col titolo di Endgame nel 1958, presso la Faber and Faber di Londra e la Grove Press di New York. Ambientato in un modo ancora più sconosciuto di quello di Waiting for G. Il tema della relazione di interdipendenza all’interno di un universo umano arrivato al suo punto di crisi, si materializza e si trasvaluta simbolicamente nell’immagine-guida del finale di una partita di scacchi giocata su una scacchiera dove sono rimaste 2 pedine, quella che dà scacco matto e quella che è messa in scacco, il servo e il signore. Si fondono l’elemento del gioco e del mito. Le azioni sono le mosse del gioco; le parole, scollate dai movimenti, corrispondono all’andamento protratto delle mosse-azioni che occupano l’unico atto. Fuori c’è un mondo disabitato, grigio e deserto. Questo paesaggio desolato ci fa pensare che una catastrofe sia appena avvenuta, sollecitando alcuni critici a pensare se ci siano dei riferimenti alla Guerra Fredda in quest’opera. Non viene spiegato il perché di questo mondo decaduto. È un’opera che resiste alla decodificazione critica o a spiegazioni filosofiche. Comunque, nonostante aggiri una spiegazione razionale, va ribadito che l’opera comunica in modo potente. Il critico tedesco T.W. Adorno ritiene che una situazione incoerente viene drammatizzata, intraducibile nella lingua della razionalità. Ritiene che Endgame può essere compreso solo non comprendendolo, ricostruendo concretamente il significato coerente della sua incoerenza. L’opera non può essere interpretata perché andrebbe prima vissuta. Qui non c’è più quella tenerezza che c’era in Waiting for G., se proprio dovrebbe esserci è nella relazione tra Nagg e Nell. Nagg potrebbe essere un Estragon, mentre Nell, più pessimista, potrebbe essere un Vladimir. In un interno grigio, un quadro rovesciato appeso al muro, 2 bidoni della spazzatura uno di fronte all’altro, Hamm sta al centro, ricoperto da un vecchio lezuolo su una poltrona a rotelle; accanto a lui, in piedi, Clov, rosso in volto. Clov apre le tende, scopre la poltrona, torna in cucina ad attendere il fischio di Hamm. La loro relazione sembra quella di Lucky e Pozzo. Hamm, come Pozzo, è crudele ed ha costante bisogno di essere rassicurato. Hamm è un eroe tragico, il suo nome è una versione ridotta di Hamlet, l’eroe tragico più famoso di tutti. Elemento comune tra Hamm e Clov è che entrambi soffrono Hamm si esibisce nel primo monologo: parla di fine e di infelicità, ma decide che è meglio andare a dormire. Hamm è cieco, Clov non può sedersi,

dipende in tutto da Hamm e non lo uccide. Entra in scena il vecchio genitore Nagg, reclamando la sua zuppa. Chiamata da Nagg che ha bussato sul coperchio di bidone in cui giace, emerge Nell, la vecchia genitrice: i 2 vecchi si protendono invano l’uno verso l’altro per abbracciarsi. Hamm, disturbato nel suo sonno, li interrompe bruscamente: i coperchi rinchiusi li escludono dalla partita. Hamm chiede a Clov di dirgli cosa vede fuori dalla finestra: nulla. Clov sembra emanciparsi: nega il calmante a Hamm, lo colpisce sul cranio con un cane di pezza. Hamm si appresta a recitare l’ultimo monologo, il vecchio finale di partita perduta. Hamm si ricopre il volto con il vecchio panno dell’inizio, mentre Clov resta immobile. Come nella partita a scacchi restano sulla scacchiera immobilizzate solo 2 pedine: il Re è nella condizione di scacco, non ci sono più mosse, la partita è stata giocata. La focalizzazione sull’esistenza del signore si esplicita nella caratterizzazione del personaggio di Hamm e nell’illustrazione delle dinamiche di cui è al centro. Hamm è il Signore: installato sulla poltrona a rotelle come su un trono, egli governa le risorse materiali: è lui ad avere le chiavi della dispensa e a decidere se nutrire o affamare gli altri. I suoi gesti più significativi svelano un rapporto con le Sacre Scritture: come il fazzoletto-sudario, macchiato di sangue, con cui all’inizio si scopre e alla fine si ricopre il volto. Egli gestisce il rapporto fra le generazioni emarginando i vecchi, relegati nei bidoni, dominando i giovani e perpetuando una distania di tirannia senza cambiamenti; ribadisce costantemente il suo potere attraverso la ripetizione assillante di ordini assurdi, pretende di dominare lo spazio occupando il centro. Clov ha tutti i connotati del servire: postura irrigidita, i gesti automatici; privo di potere e di parole sue. Se in Hamm prevale la domanda, in Clov prevale la risposta. Viene messo in scena il declino dell’uomo; i segni del declino sono la menomazione del corpo sofferente (per la cecità e l’immobilità in Hamm, per l’irrigidimento delle ossa in Clov, la vista e la durezza di udito in Nagg e Nell). Il discorso è disgregato, la parola logorante. La convivenza è forzata ma irrinunciabile. Nell morirà nel corso della piece, ma senza enfasi e drammi. Affiora il tema del deserto, tema biblico dell’Antico e del Nuovo Testamento. È il luogo del caos primordiale e della desolazione come punizione, ma è anche il luogo positivo in cui scaturisce l’acqua, la manna. È per Mosè, Gesù ed Elia il luogo del passaggio. Lo humor si manifesta in vari modi: le incongruenze (il quadro rovesciato), la meccanizzazione della vita (l’andatura rigida di Clov, il movimento della sedia a rotelle di Hamm), la ripetizione (la vita quotidiana di Clov), la risposta illogica, le esagerazioni e i giochi di parole. Su tutto si estende il silenzio, che guadagna terreno in un dosaggio di pause, le quali interrompono il flusso della parola.

Krapp’s Last Tape Nasce nei primi mesi del 1958. Opera scritta in inglese, piena di ironia, di intensità, pubblicata nella “Evergreen Review”. Lo scambio fra la drammaturgia e la scena si intensifica con quest’opera scritta pensando ad un preciso attore: Patrick Magee, alla sua voce roca, stanca. Il titolo originale dell’opera era ‘Magee Monologue’. Il conflitto drammatico è raggiunto dallo scontro tra il Krapp attuale e i Krapp del passato, come se fossero persone distinte. Il tempo modifica gli individui, modificando le loro psicologie. Il conflitto è tra il cinico, disilluso e vecchio Krapp e il Krapp pieno di speranze che era negli anni più giovanili. La differenza ci viene segnalata dalle voci che hanno tonalità diverse ma anche dai differenti linguaggi utilizzati. Il lessico del Krapp giovane è molto specifico, arcano ed enigmatico; spesso infatti il Krapp più vecchio deve fermare il nastro per controllare il significato di alcune parole (viduity=credibilità). Tra i vari Krapp non ci sono solo contrasti ma anche degli elementi in comune, come ad esempio l’abitudine di mangiare banane e bere alcol. Rappresentata con il supporto di Beckett stesso al Royal Court Theatre di Londra, il 28/10/1958. Opera focalizzata sui danni causati dal tempo. Non tratta solo di nostalgie e perdite ma anche di rimorsi e rimpianti. Abbiamo una svolta nella tecnica drammatica: si passa al monologo. Nel giorno del suo anniversario Krapp ha l’abitudine di incidere una sintesi degli eventi dell’anno su una bobina, e di riascoltare un nastro del passato. Krapp ormai vecchio, si preparava al suo rito annuale con la ripetizione di un’antica e mai superata debolezza: le banane e la bottiglia. Riascolta il nastro inciso nel 39^ anniversario,

quando, riascoltando la registrazione del giovane imbecille che era stato una decina di anni prima, ne beffava le aspirazioni, gli amori e quando registrava gli eventi-svolta dell’anno appena trascorso: la morte della madre, gli occhi negli occhi profondi di lei. Incide ora nel nastro nuovo: si beffa dello stupido che era, ricorda gli occhi cui ha rinunciato per non essere distratto dai suoi studi. Beckett utilizza il registratore come metafora tangibile dello scrivere. Col trucco dell’interruzione dell’ascolto e dello scorrimento del nastro, il contenuto della rivelazione resta sospeso o ironicamente sviato. Quello che turba il vecchio Krapp è la scrittura “tout court”, il suo essere diventata un’ossessione e un mito che si è insediato al posto della vita, ma che non ha resistito all’erosione dell’esistenza. In quest’opera crolla l’illusione che la scrittura possa fermare quel che è mutevole, possa dare permanenza e eternità a quel che è provvisorio. Lo spazio scenico si identifica con l’angolo dello scrittoio-registrazione, un limitato cerchio di luce, la luce dell’intelletto e della coscienza all’opera. Importante è anche il contrasto tra luce e oscurità, bianco e nero. Il testo si potrebbe anche leggere anche in chiave manichea anche se questo non era l’obiettivo principal...


Similar Free PDFs