Littera florentina PDF

Title Littera florentina
Author Roberta Floris
Course 01/31 Storia del Diritto Medievale e Moderno
Institution Università degli Studi di Cagliari
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littera florentina...


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Littera florentina/littera bononiensis Littera florentina (o pisano-florentina): è una redazione del Digesto di età giustinianea o immediatamente successiva (il testo però sarebbe stato redatto nel Mezzogiorno). Sarebbe stata conservata a Pisa tra il XII e il XV secolo. Successivamente fu portata a Firenze “come bottino di guerra” (1406). Littera bononiensis: Redazione del Digesto utilizzata nelle scuole e nei tribunali. In realtà dietro una denominazione unitaria si nascondono varie versioni parzialmente diverse fra loro, utilizzate per secoli nelle scuole e nei tribunali. Causa Legis + causa obbligazione Il metodo del commento era notoriamente rivolto alla ricerca della ratio delle leggi, ma ricercarla significava sapere per lo meno cosa fosse, Azzone iniziò a definirla ma fu Giovanni Bassiano che gettò le fondamenta della sua costruzione. Si iniziò a parlarne partendo dalla causa dell'obbligazione, partendo dal presupposto che il compito della causa è quello di agganciare gli atti umani all'ordinamento, unica fonte di forza obbligatoria. Gli antichi glossatori misero in rilievo che gli unici ordinamenti che avevano quella forza obbligatoria erano quello civile e quello naturale, ma dopo pochi decenni non se ne parlò più. I sottili problemi filosofici della casualità si erano fatti avanti, e anche nel mondo del diritto si sentì l'esigenza di adottarne i meccanismi più avanzati. Si cercò di cambiare angolo visuale, la causa stava diventando il motore dell'azione, la forza che mette in movimento un meccanismo giuridico dinamico, e non ci si concentrò più sulle cause civili e naturali, statici ancoraggi a ordinamenti immobili. Giovanni Bassiano evocò in una glossa la causa finalis, come la molla che faceva scattare la volontà negoziale e quindi stava all'origine del rapporto, essa presupponeva che volontà e causa (elementi, soggettivo e oggettivo essenziali nel negozio), interagissero e si integrassero perfettamente. Inoltre poneva l'attenzione sullo scopo da cui il soggetto era spinto ad agire, la cui presenza era necessaria all'efficacia del negozio e la vitalità del rapporto, a tal punto che se lo scopo causa-finalis cadeva, si invalidava il negozio e si estingueva il rapporto, ai sensi della regola logica cessante causa cessat effectus. Fu Aristotele a regalare questa nuova figura della causa al mondo del diritto, la sua teoria delle "quattro cause", le due statiche "materiale" e "formale", e le due dinamiche "efficiente" e "finale" era illustrata nel secondo libro della sua Fisica, e venne ripetuta anche dai maestri di arti liberali, di cui Giovanni era esperto. Irnerio stesso, essendo stato magister artium, ha richiamato un paio di cause aristoteliche in una glossa, ma altro è conoscere figure utilizzabili, altro utilizzarle. Giovanni Bassiano ebbe il grande merito di avere introdotto per primo la causa finale all'interno di istituti tecnico-giuridici, e di averne fatto un congegno essenziale al loro funzionamento. La causa finalis era la previsione di un effetto futuro, la si definiva infatti causa de futuro, il che sembra contraddire il principio che la causa deve precedere il causato. Vi era anche una seconda peculiarità che dava fastidio, essendo una previsione soggettiva, ogni individuo poteva proporsi scopi-cause finali differenti a seconda dei propri interessi e desideri. Si potevano per cui avere delle difficoltà a distinguere persino la causa finale dalla condizione, che consiste anch'essa in un'obiettivo pratico da raggiungere in futuro, tanto essenziale da far si che, qualora non lo si consegua, cada il rapporto, come il cessare della causa finale comporta la cessazione dell'effetto. Per questi problemi i glossatori staccarono la causa finale dal mondo psicologico individuale, per farne uno scopo previsto in astratto dal diritto, e dal diritto offerto al soggetto agente perchè se ne servisse. In caso di negozio bilaterale, ciascuna delle parti avrebbe dovuto trovare nell'ordinamento il proprio obiettivo tipico, la propria causa, per esempio nella compravendita le cause finali dell'obbligazione erano due: l'acquisto del bene per l'acquirente e il pagamento del prezzo per il venditore. Una volta distinta la causa finale dai moventi psicologici individuali, questi ultimi divenivano causae de praeterito, individuando la situazione di fatto da cui muoveva il soggetto agente, lo stato d'insoddisfazione cui voleva ovviare o il desiderio personale che voleva soddisfare. Si salvò quindi la regola che almeno una causa dovesse precedere il causato, oggi si parla di motivi, i glossatori inventarono invece la qualifica di causa impulsiva, ispirandosi alla



tradizione retorica, dove la causa era definita impulso dell'animo ad agire. Nel Medioevo non vi erano regole diverse per il diritto pubblico e il diritto privato, i medesimi congegni muovevano gli atti del principe e i negozi privati. Leggi e negozi erano dichiarazioni di volontà, l'affinità sostanziale che li collegava esigeva regimi omogenei, quindi anche per le leggi si dovette ricercare una causa che le inserisse nell'ordinamento, il quale a sua volta gli desse efficacia vincolante. Nacque di conseguenza la causa legis, e anche questa doveva essere sottoposta al principio "cessante causa cessat effectus", per cui se veniva a mancare la causa per la quale la legge era stata emanata, questa sarebbe dovuta cadere automaticamente, senza bisogno di un'abrogazione. La causae legum non poteva essere prevista in modo specifico come per i negozi privati, per questo i giuristi prendendo spunto dalle fonti dissero che le leggi dovevano avere come causa o una "necessità urgente" oppure una "utilità pubblica evidente". Soprattutto quest'ultima ebbe le maggiori applicazioni nel campo dei rescritti con conseguenze dottrinali di rilievo, ad esempio i rescritti che derogavano al ius gentium espropriando i privati, la scienza trecentesca ideò l'istituto dell'espropriazione per pubblica utilità. La causa della legge visse le stesse vicende teoriche della causa del negozio, contrapponendo causa finale e causa impulsiva. Venne trovata anche una fonte per legittimare e spiegare la loro consistenza: nel commento all'editto pretorio che proibiva alle donne di rappresentare altri in giudizio, Ulpiano pone l'esempio di Cafarnia che fece causa all'editto comportandosi in giudizio in modo inverecondo. La glossa del Duecento pone un quesito, se la causa dell'editto era stata l'impudicizia di una donna, in presenza di donne oneste e pudiche, in virtù del principio "cessante causa cessat effectus", la norma non sarebbe dovuta decadere automaticamente? Ovviamente la risposta fu negativa. La vicenda di Cafarnia era stata la causa impulsiva della legge, e non aveva rilevanza ai fini della vigenza della norma, mentre la causa finale era stata invece la tutela della pudicizia del sesso, obiettivo di utilità pubblica generale e perenne che non bada a casi singoli. Le cause di utilità pubblica quindi erano viste come forze soggettive, e come tali determinavano il legislatore a legiferare, ma proprio per la loro valenza generale e perenne rimanevano impigliate nelle norme trasformandosi in dato obiettivo, anima delle norme stesse. La causa finalis legislatoris diventava causa legis e rappresentava la ratio legis, causa e ratio erano due concetti che nella retorica convergevano, e che i giuristi vedevano accostati anche nel Corpus iuris. Nel linguaggio filosofico il termine ratio voleva dire molte cose, era la fonte della rationabilitas di persone e cose, la quale era un requisito carissimo allo spirito medievale, che vi vedeva una misura della ragionevolezza dell'operare umano, una misura del bene e del male. Il binomio causa-ratio divenne un trinomio con l'aggiunta dell'aequitas, e presso i giuristi questi termini avevano il medesimo significato. Oltre a rappresentare il potenziale etico-equitativo della norma, la causa o ratio legis ne rappresentò anche la mens, ovvero il significato sostanziale. Ovvero quello che i commentatori volevano indagare, e che la glossa secondo loro intralciava. La glossa secondo loro era una zavorra che li portava verso il basso, alla lettera del testo, mentre i commentatori volevano volare verso l'alto e raggiungere il modo di pensare che la legge usava per mostrare all'uomo ciò che Dio gli aveva dettato. L'invenzione della causa legis cambiò il modo di interpretare la legge, si passò dal modo "ricettivo" a quello "creativo Scuola d’Orleans La scuola d’Orleans nacque quando papa Gregorio IX, nel 1235, autorizzò a Orleans l’insegnamento del diritto romano che, il suo predecessore Onorio III aveva proibito a Parigi. La scuola sorge ad Orleans, zona della Francia in cui vigeva il diritto consuetudinario (droit coutumier) e centro culturale vivacissimo. L’importanza della scuola d’Orlenas è legata anche alla presenza di importanti maestri come : Jacques de Revigny, considerato la “stella” dello studio orleanese, autore di lecturae e compositore del Dictiorarium iuris (enciclopedia giuridica): Pierre de Belleperche autore di Lecturae, repetitiones e quaestiones; Cino da Pistoia compositore de “la lectura in codicem” e Bartolo da Sassoferrato, allievo di cino e autore di diversi tractatus. Le principali innovazioni introdotte dalla scuola d’Orleans sono: 1) il concetto di persona rappresentata: anche l’impero,



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insegna Revigny è una persona rappresentata in quanto i poteri che derivano dall’absolutio legibus appartengono all’ente Impero, persona rappresentata ed il monarca persona fisica potrà accedervi solo momentaneamente e 2) e il metodo del commento in sostituzione alla glossa che consentiva di ricondurre fattispecie concrete nuove sotto le ali di vecchie fattispecie qualora avessero la medesima ratio. Questo metodo del commento venne portato in Italia da Cino da Pistoia dove perse la sua importanza teorica. Scuola del commento Da qualche tempo la lezione scolastica non era solo spiegazione del testo attraverso le parole ma presso certi autori era divenuta anche illustrazione continua dell’intera legge, così annunciando da lontano quel metodo del commento dal quale la glossa sarebbe stata sostituita. Giovanni Bassiano dice che le sue lezioni cominciavano col porre il casus della legge, poi discutevano i contraria, quindi elencavano gli argomenti adducibili o loci generale, infine dibattevano quaestiones. In fondo è un metodo simile a quello caldeggiato mezzo secolo dopo da Odofredo: e Odofredo fu uno dei principali modelli della scuola di Orleans, la culla del metodo dei commentatori. È un metodo notoriamente rivolto alla ricerca della ratio delle leggi. L'iniziatore è Cino da Pistoia, il famoso esponente del Dolce stil novo, che pubblica un'opera intitolata Lectura super codice. Cino da Pistoia fu maestro di Bartolo da Sassoferrato (1314-57) maestro a sua volta di Baldo degli Ubaldi (13271400) entrambi esponenti di spicco della Scuola del Commento. A Bartolo e Baldo si deve la formazione di una nuova scuola di interpretazione delle fonti romane che abbandonò il metodo della glossa per rendere lo stile libero di confrontarsi con i testi del Corpus giustinianeo: cercando di coglierne più il senso che le parole, affidandosi, come metodo interpretativo, proprio al commento o trattato. L'oggetto di studio è ancora, come per i glossatori, il Corpus Iuris Civilis. Lo studio segue dei passaggi rigorosi: si inizia con una premessa che delimita i confini dell'argomento da affrontare e definisce le fonti; si opera un'analisi del testo dividendolo nei suoi elementi fondamentali; si ritorna a ricomporlo nella sua unità; si danno degli esempi per passare dalla teoria alla pratica; si rilegge attentamente; si cerca la ratio della norma (perché è stata creata e quali obiettivi si pone); il commentatore segnala le sue annotazioni personali, magari facendo collegamenti con altri passi; si affrontano le obiezioni cercando di preparare un'interpretazione univoca. La metodologia è recuperata da quello della scolastica, sviluppato alla Sorbona di Parigi e recuperato come tecnica giuridica da Jacques de Revigny e Pierre de Belleperche, appartenenti alla scuola di Orléans: attraverso un lavoro analitico e attraverso la tecnica del sillogismo (tesi-antitesisolutio) i commentatori intendevano raggiungere l'interpretazione della norma. Communis opinio + argomentum ab auctoritate Più passava il tempo e più il gioco di ricercare la ratio delle leggi slegava la fantasia dei commentatori e, di conseguenza, si guardava poco o nulla alla lettera della norma, questo aveva un pericolo: nei casi di giuristi poco abili e dotati di grande disinvoltura, ratio e verba troppo distanti davano luogo a interpretazioni variabili, insicure e arbitrarie, mettendo in pericolo la certezza del diritto, si doveva quindi sostituire il legame con il testo con un altro vincolo, che mantenesse entro certi canoni l'interpretazione delle leggi. Si pensò di utilizzare le opinioni di grandi maestri che avevano enunciato e difeso determinate teorie, e radicare in essi il valore e l'efficacia della norma, che comunque avrebbe avuto meno valore rispetto all'opinione imperiale, ma il peso di determinati giuristi poteva servire a frenare la libertà interpretativa, e assicurare la stabilità delle rationes legum e la continuità della loro osservanza, in modo tale da garantire la certezza del diritto. L'argumentum ab auctoritae, auctoritas in latino significa sia autorità che autorevolezza, si diffuse come metodo principale di argomentazione, e spinse il Diritto comune a divenire un "diritto giurisprudenziale". Alle origini dell'argumentum ab auctoritae vi era l'exemplum, teoria romana che consisteva



nell'utilizzare la precedente soluzione di giudici e giuristi, cui si poteva adeguare o ispirare la propria soluzione di casi simili, oggi chiameremo questo "precedente" in quanto si trattava di decisioni giudiziali. L'efficacia dell'exemplum si dilatò fino a Giovanni Bassiano, il quale introdusse un nuovo concetto, ossia quando si trattava di una sentenza singola era ammissibile il carattere non vincolante, quando erano numerose, queste si trasformavano in una consuetudine diventando legge obbligatoria. In forza della ratio servivano da exempla le decisioni dei giudici che avevano per definizione la potestà pubblica, allo stesso modo le opinioni dei dottori potevano servire da exempla in virtù del peso della loro dottrina. Nei casi dubbi si decise che i pareri dei dotti di grande fama andassero seguiti, da qui nacque l'argumentum ab auctoritate vero e proprio. Il giudice dava una sentenza necessaria ma non generalis, perchè era obbligatoria solo per il caso esaminato, e il professore dava pareri generales, perchè enunciava rationes di per se astratte, ma non necessarii, in quanto non investito di alcuna autorità. Le si seguivano solo in funzione del prestigio e del fascino intellettuale che aveva il proponente, e ovviamente della fiducia che si aveva in lui. Ma a forza di seguire tutti il medesimo principio, in ossequio al prestigio di colui che l'aveva formulato, questo prese le sembianze di un'opinio communis, che comunque restò solo probabile, idonea alla dimostrazione, quindi attendibile ma mai vincolante, tuttavia la sua osservanza prolungata la rendeva sempre buona per i giudici. Nel Cinquecento si concluse che era pericoloso non attenervisi, andare contro le opinioni comuni poteva essere pericoloso, e per consentire a tutti di conoscerle ed utilizzarle se ne fecero grosse raccolte, veri e propri prontuari di diritto giurisprudenziale. Erano decisivi tre fattori: Autorevolezza dell’interpretazione, Numero delle pronunce, Durata temporale dell’opinio communis. Cino da Pistoia e Bartolo Cino da Pistoia allievo di Dino ebbe grande entusiasmo per i giuristi di Orleans, fu il venerato maestro di Bartolo da Sassoferrato, collocato alle origini del grande commento italiano trecentesco. Ammirava sia Revigny che Belleperche, ne saccheggiò le opere e attinse dalle loro idee, tanto che si è parlato di un suo soggiorno in Francia per farne il responsabile dell'importazione nella penisola della merce francese. Cino era di famiglia magnatizia, coinvolto nei disordini dei Comuni di fine secolo e bandito da Pistoia sua città natale, seguace di Arrigo VII e del suo programma di restaurazione dell'Impero, Cino non aveva paura di dare sfogo alle proprie convinzioni ghibelline nel grande commento terminato nel 1314, in seguito mutò le idee politiche e divenne fedele della Chiesa, forse per via dei vari incarichi pubblici che ebbe in città guelfe. Si dedicò infine all'insegnamento tra il 1321 e il 1333, a Siena, Napoli e Perugia, in quest'ultima sede si trattenne più delle altre ed ebbe Bartolo da Sassoferrato come allievo. Era un giurista poeta, autore di sonetti e canzoni che lo inquadrano nello stil novo, amico di Dante e Petrarca, frequentò giuristi vicini ai fermenti preumanistici. Scrisse un poderoso commentario al Codice e all'inizio del Digesto, non una lectura scolastica ma un commentario vero e proprio, scritto a tavolino. Cino lui si che era proiettato verso il futuro, chiamato a Perugia verso il 1326, già nel 28' egli ebbe come allievo un adolescente straordinario, Bartolo da Sassoferrato, che fu fortemente suggestionato dal maestro celebre per il commentario del Codice. Bartolo stessò confesso a un suo allievo, che il maestro gli aveva "fabbricato l'ingegno". Nonostante la vita così breve scrisse ben nove volumi contenenti la sua opera omnia, denotando una grande produttività, e infatti si è scoperto che molte opere attribuitegli non sono state composte da lui, ma nonostante questo la sua dottrina gli diede fama straordinaria da quando era in vita. Nel Quattrocento la sua celebrità crebbe molto, fu definito lucerna iuris come secoli prima fu definito Irnerio. Lo si accostò a Omero, Virgilio e Cicerone. Nel Cinquecento nelle Università di Padova, Torino e Bologna si istituirono corsi su Bartolo, e nel Seicento altri Studi fecero altrettanto.



Carta de logu d’Arborea La Chiesa sin dalla fine dell'XI secolo aveva enunciato la curiosa teoria che le isole, essendo di "diritto regio" (regalis iuris), erano comprese nella Donazione di Costantino, e perciò erano del papa, Innocenzo III cento anni dopo aveva rilanciato questa tesi, rivendicando la Sardegna, e verso la fine del 1200 Bonifacio VIII aveva tranquillamente infeudato l'isola a Giacomo d'Aragona. Ma nonostante questo per gli Aragonesi non fu facile impossessarsi della Sardegna. La Carta de Logu de Arborea fu l'ultimo sprazzo di libertà sarda, ai tempi dell'ultima guerra tra Arborea ed Aragona tra il 1390 e il 1391, questo fu un celebre complesso normativo scritto in lingua sarda, promulgato dalla grande Eleonora, giudicessa di fatto (era reggente), diventata famosa per l'eroismo in guerra e la saggezza in pace, trasformata in un mito dall'opinione popolare. La Carta de Logu era in realtà aggiornamento di quella emanata dal padre Mariano IV sedici anni prima, dopo tutto di cartae de logu ve n'era più d'una prima di Eleonora. Al padre di Eleonora, Mariano IV va il grande merito di avere composto il "codice agrario" di Arborea, introdotto in seguito nella Carta di Eleonora, e rispecchia la vita elementare dei pastori, e il timore degli agricoltori di vedere rovinate le colture dagli animali, in questo antico ambiente le consuetudini erano autoctone. La Carta de Logu era molto più ampia, non era solo espressione di tradizioni autoctone, vi si può trovare una serie di ingredienti, in parte locali, in parte provenienti dal mondo statutario in particolare da Pisa, e vi erano anche le innovazioni di Eleonora. Vi furono infatti pregevoli interventi della giudicessa, ad esempio il diritto penale viene lodato per l'equilibrio e la saggezza. La Carta de Logu divenne il simbolo delle tradizioni isolane, infatti divenne il diritto di tutta la Sardegna nel 1421 quando l'aragonese Alfonso estese la sua giurisdizione, certificando la "sardità" del suo contenuto, ed era esattamente opposta ad alcuni statuti di città erettesi a Comuni sotto la protezione pisana o genovese, come Sassari il cui statuto era si aperto alle consuetudini, ma rappresenta un solido ponte gettato tra la vita giuridica isolana e il variegato mondo comunale. Ovviamente questi statuti erano molto distanti da...


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