Maledetti architetti - Tom Wolfe PDF

Title Maledetti architetti - Tom Wolfe
Course Storia Dell'Architettura [2041]
Institution Politecnico di Bari
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TOM WOLFE

MALEDETTI ARCHITETTI DAL BAUHAUS A CASA NOSTRA SAGGI TASCABILI a Michael MacDonough che sa dove stanno nascosti nella carta quadrettata tutti gli angoli acuti Titolo originale FROM BAUHAUS TO OUR HOUSE Traduzione di PIER FRANCESCO PAOLINI ISBN 978-88-452-4908-2 © 1981 by Tom Wolfe © 1988/2007 RCS Libri S.p.A. Via Mecenate 91 - 20138 Milano XI edizione Tascabili Bompiani dicembre 2007 Nota del digitizer: le illustrazioni di questa edizione sono di qualità pessima, e poco significative. Sono state omesse.

PREFAZIONE Oh bello, oh beato, per i tuoi cieli sconfinati, per le tue messi d'oro ondeggianti!... vi fu mai altro Paese, su questa terra, dove tante persone, ricche e potenti, sborsassero tanti quattrini per opere d'architettura che esse detestano e cui malvolentieri si rassegnano... come al giorno d'oggi, entro i tuoi sacri confini? Ne dubito fieramente. I ragazzi vanno a scuola in un palazzo che sembra il magazzino d'un grossista di pezzi di ricambio per macchine duplicatrici. Neppure le autorità scolastiche, che l'hanno commissionato e ne hanno approvato il progetto, si spiegano come ciò possa essere accaduto. La cosa principale è, ora, evitare, di spiegarlo ai genitori degli alunni. Le case estive di lusso (da 900.000 dollari in su) fra i boschetti del Michigan o lungo le coste di Long Island, hanno tante ringhiere in tubolare, rampe, ripide scale a chiocciola di ferro, lastroni di cristallo corazzato, grappoli di lampade al tungsteno e bianche sagome cilindriche che sembrano altrettante raffinerie o fabbriche d'insetticidi. Vidi una volta i proprietari d'una tale dimora vacillare sull'orlo dello smarrimento dei sensi a causa di tutto quel biancore e leggerezza e sottigliezza e pulizia e nudità e levigatezza. Bramavano disperatamente un antidoto, qualcosa che desse intimità e colore. Tentarono di sommergere i sofà, rigorosamente candidi, sotto una valanga di cuscini di seta dai colon i pia ribelli e festosi immaginabili, dal magenta al rosa al verde tropicale. Ma l'architetto tornò (torna sempre, come un assassino sul luogo del delitto) e implacabile li redarguì, li svillaneggiò e fece sparire quelle care cosine multicolori. Uno dopo l'altro i grandi avvocati di New York trasferiscono, senza neanche borbottare, il loro studio legale in un edificio di vetro, dai pavimenti in piastre di calcestruzzo e i soffitti incombenti in lastre di cemento, dalle pareti in pannelli di gesso, dai corridoi lillipuziani — poi assoldano un arredatore e l'incaricano, a suon di migliaia di dollari, di trasformare quei miseri cubi e reticoli in qualcosa che

ricordi gli sviluppi orizzontali di un palazzo inglese della Restaurazione. Ho visto falegnami ed ebanisti, trovarobe e antiquari adattarvi più cornici, strombature, pilastri, modanature cesellate, cupolette a nicchie, pia pannelli rivestiti di stoffa, caminetti (senza fuoco) con fregi a foggia di festoni di frutta sulle mensole in mogano, più candelabri e lampadari, più appliques, divanetti di cuoio scuro, orologi a pendolo di quanti Wren, Inigo Jones, i fratelli Adam, Lord Burlington e i Dilettanti, lavorando di concerto, avrebbero potuto sognarsene. Senza batter ciglio, si trasferiscono — anche se quello scatolone di cristallo li sgomenta. Non sono, queste, mie semplici impressioni, ve lo giuro. Per averne la prova basta andare alle conferenze, ai simposi, alle tavole rotonde degli architetti che si riuniscono per discutere sullo stato della loro ante. Si dichiarano sgomenti essi stessi. Senza minimamente arrossire vi diranno che l'architettura moderna è esausta, finita. Ci scherzan su essi stessi, su quelle scatolone di cristallo. Lo dicono sogghignando. Philip Johnson, che nel 1949 si costruì per casa una scatola di cristallo nel Connecticut, pronuncia queste parole con il tono divertito di un antiquario, come un altro potrebbe parlare di una vecchia testiera d'ottone trovata in soffitta. In ogni modo — ci assicurano — il problema sta per essere risolto. Vi sono nuovi metodi, nuove teorie, nuovi ismi: postmoderno, tardo modernismo, razionalismo, architettura partecipatoria, neoCorbu e i Los Angeles Silvers. In che cosa si traduce tutto ciò? In nuovi scatoloni di cristallo rivestiti di lastre specchianti in modo da riflettere gli edifici vicini, anch'essi scatoloni di cristallo, e distorcere così quelle noiose linee rette, facendole sembrare curve. Trovo il rapporto che intercorre oggi, in America, fra l'architetto e il cliente, meravigliosamente eccentrico, da sfiorare il perverso. In passato, coloro che ordinavano — e pagavano — palazzi, cattedrali, teatri d'opera, biblioteche, atenei, musei, ministeri, case colonnate e ville di campagna, non esitavano a farne altrettante apoteosi di se stessi, inni alla loro gloria. Napoleone volle trasformare Parigi in una Roma dei Cesari, solo con una musica più forte e con più marmi. E l'accontentarono. I suoi architetti gli diedero l'Arco di Trionfo e la

Madeleine. Suo nipote, Napoleone III, voleva trasformare Parigi in Roma con sopra Versailles, e fu accontentato. Gli architetti gli diedero l'Opéra, gli ampliarono il Louvre, gli allungarono i boulevards. Palmerston una volta scartò tutti i progetti presentati a un concorso per la nuova sede del Foreign Office britannico e ordinò all'architetto Gilbert Scott, esponente massimo della Rinascenza Gotica di allora, di costruirlo in stile classico. E Scott obbedì. A New York, Alice Gwynne Vanderbilt disse a George Browne Post di progettarle uno chateau francese all'incrocio fra la Quinta Avenue e la Cinquantasettesima Strada, e lui allora ricopiò paro paro lo Chàteau de Blois, fino alle cesellature sulle sbarre di ottone alle finestre. Per non esser da meno, Alva Vanderbilt assoldò il più celebre architetto americano del momento, Richard Morris Hunt, e si fece disegnare da lui una replica del Petit Trianon, come dimora estiva a Newport; e lui eseguì la commissione, con gusto. Era dispostissimo a soddisfare qualsiasi fantasia dei Vanderbilt. "Se vogliono una casa col comignolo in giù," disse, "gliela do." Invece, dopo il 1945, i nostri plutocrati, burocrati, dirigenti d'azienda, funzionari e presidenti di college hanno subito una inesplicabile metamorfosi. Eccoli, d'un tratto, disposti ad accettare quel bicchier d'acqua gelida in faccia, quel manrovescio sui denti, quel castigo noto come architettura moderna. E perché? Non saprebbero dirlo neanche loro. Guardano il nudo edificio che hanno comprato, quelle strutture gigantesche e sgraziate che detestano cordialmente, e non sanno spiegarsi il perché. Ciò gli fa doler la testa.

1. IL PRINCIPE D'ARGENTO La nostra storia prende le mosse dalla Germania del primo dopoguerra. I giovani architetti americani — insieme ad artisti, scrittori e intellettuali vari — vagano per l'Europa. Questa grande avventura bohémienne s'intitola "la Generazione Perduta". Vale a dire? In The Liberation of American Literature, V.F. Calverton scrive che artisti e scrittori americani avevano sofferto d'un "complesso di colonia" per tutto il Sette e l'Ottocento — timidamente imitando i modelli europei — ma dopo la Grande Guerra finalmente trovarono quella fiducia in se stessi e quel senso di identità che permisero loro di emanciparsi dall'Europa in campo artistico. In realtà, tutto l'inverso. Il motto della Generazione Perduta era, per dirla con Malcolm Cowley, "In Europa fanno tutto molto meglio". Quel ch'era in corso era un giro d'Europa ai prezzi stracciati del dopoguerra, per cui praticamente qualsiasi americano — e non solo un Henry James, un John Singer Sargent o un Richard Morris come ai vecchi tempi — era in grado di recarsi all'estero e imparare a far l'artista europeo. Il "complesso di colonia" era, a questo punto, avvolgente come un boa. L'artista europeo! Che ammaliante figura! André Breton, Louis Aragon, Jean Cocteau, Tristan Tzara, Picasso, Matisse, Arnold Schoenberg, Paul Valéry... spiccavano, tutti costoro, come bronzeodorate statuette di Gustave Miklos sullo sfondo delle fumiganti macerie della Grande Guerra. Quei calcinacci, quelle rovine della civiltà d'Europa, eran parte essenziale del quadro. La catasta d'ossami sullo sfondo era, appunto, ciò che dava quel brillante risalto ad avanguardisti come Breton e Picasso. Agli occhi dei giovani architetti americani che compivano il pellegrinaggio, la figura più smagliante di tutte era Walter Gropius, fondatore del Bauhaus. Gropius fondò questa scuola a Weimar, allora capitale della Germania, nel 1919. Era più che una scuola: era

una comunità, un movimento spirituale, un nuovo modo di intendere l'Arte in ogni sua forma, un centro filosofico paragonabile al Giardino di Epicuro. Gropius, l'Epicuro del Bauhaus, era un trentaseienne snello, dalla semplice ma meticolosa eleganza, dai folti capelli neri, irresistibilmente bello per le donne, corretto e signorile alla maniera classica tedesca, tenente di cavalleria durante la guerra, decorato al valore, una figura emblematica di calma, sicurezza e convinzione, al centro del maelström. In senso stretto, non era un aristocratico, dato che il padre, pur benestante, non apparteneva alla nobiltà. Ma la gente non poteva far a meno di prenderlo per tale. Il pittore Paul Klee, che insegnò al Bauhaus, chiamò Gropius "il Principe d'Argento". L'argento gli si addiceva, appunto: l'oro sarebbe stato troppo sgargiante per un uomo così fine e preciso. Gropius sembrava un aristocratico che, grazie a una miracolosa sensibilità, avesse conservato ogni virtù della stirpe, sbarazzandosi d'ogni snobismo e d'ogni peso morto del passato. I giovani architetti e artisti che venivano al Bauhaus per vivere e studiare e apprendere dal Principe d'Argento parlavano di "ripartire da zero". La si udiva di continuo questa frase: "ripartire da zero". Gropius dava il suo avallo a qualsiasi esperimento che essi intendessero compiere, purché fosse in nome di un puro e pulito futuro. Persino a nuove religioni, come la Mazdaznan. Persino a nuovi, salutari regimi dietetici. Per un certo periodo al Bauhaus si mangiarono solo verdure fresche. Era una dieta tanto blanda e fibrosa che bisognava aggiungere un bel po' di aglio per dare un tantino di sapore ai piatti. A quell'epoca Gropius era sposato con Alma Mahler, già moglie di Gustav Mahler: la capostipite di quella meravigliosa dinastia di Vedove d'Arte del Novecento. Alma ebbe a dire, in seguito — ci riferiscono gli storici — che i contrassegni dello stile Bauhaus erano tetti piatti, spigoli di vetro, materiali genuini e struttura dichiarata. Però, si affrettava a soggiungere Alma Mahler Gropius Werfel (che frattanto aveva aggiunto il poeta Franz Werfel alla sua collezione di mariti), la caratteristica più indimenticabile dello stile Bauhaus era "il fiato che sapeva d'aglio". Ciò nondimeno... quant'era bello, puro, pulito, glorioso... ripartire da zero!

Marcel Breuer, Ludwig Mies van der Rohe, Lazle Moholy-Nagy, Herbert Bayer, Henry van de Velde... insegnarono tutti al Bauhaus, insieme a pittori come Klee e Josef Albers. Albers tenne al Bauhaus il famoso Vorkurs, o corso propedeutico. Entrava in aula e posava una catasta di giornali sulla cattedra e diceva agli studenti che sarebbe tornato fra un'ora. Essi dovevano, frattanto, trasformare quei giornali in opere d'arte. Al suo ritorno, Albers trovava castelli gotici di carta, panfili di carta, aerei, busti, uccelli, stazioni ferroviarie, cose stranissime. Ma c'era sempre qualcuno fra gli studenti — un fotografo o un soffiatore di vetro — che aveva preso un foglio di giornale, l'aveva avvoltolato e messo là, a mo' di tenda. Albers prendeva su la cattedrale e l'aeroplano e diceva: "Questi van fatti di pietra o metallo... non di carta." Quindi, raccattando la tenda distrattamente eretta dal fotografo, diceva: "Questa qui, invece! questa utilizza l'anima della carta. La carta si può avvolgere senza romperla. La carta ha forza tensile, e un'ampia superficie può essere sorretta da questi due sottili bordi. Questa si, ch'è un'opera d'arte in carta!" E tutti i cervelli nell'aula si mettevano a vorticare. Cosi semplice! cosi bello... Era come se, nella penombra del cervello, si fosse fatta d'improvviso la luce. Mio dio... ripartire da zero! E perché no?... La patria dei giovani Bauhäusler, la Germania, era stata distrutta dalla guerra e umiliata a Versailles, la sua economia era impazzita nel vortice dell'inflazione, il Kaiser se n'era andato, i socialdemocratici avevano preso il potere in nome del socialismo, torme di giovani scorrazzavano per le città bevendo birra in attesa d'una rivoluzione di stile sovietico dall'Est, o di qualche terribile rissa perlomeno. Macerie, calcinacci fumiganti... ripartire da zero! Se eri giovane, era stupendo. Ripartire da zero voleva dire, né più né meno, ricreare il mondo. È istruttivo — alla luce dell'effetto sorprendente che avrebbe poi sortito sulla vita negli Stati Uniti — rammentare alcuni moniti che risuonavano nell'Europa Centrale in quell'epoca strana, sessanta anni fa: "Pittori, Architetti, Scultori, tutti voi, alle cui opere la borghesia offre lauti compensi — per vanità, per snobismo, per noia —, ascoltate! Quel denaro è intriso del sangue e del sudore e

dell'energia nervosa di migliaia di poveri esseri umani. Ascoltate! Basta con gli sfruttatori!... Noi dobbiamo essere veri socialisti, a noi spetta accendere nei cuori la più alta virtù socialistica: la fratellanza fra gli uomini." Così esortava un manifesto del Novembergruppe, di cui facevano parte Moholy-Nagy e altri architetti che, in seguito, aderiranno al Bauhaus. Gropius presiedeva il Consiglio per l'Arte (Arbeitsrat fur Kunst) del Novembergruppe, il quale mirava a riunire insieme tutte le arti "sotto l'ala di una grande architettura" che sarebbe stata "impresa del popolo intero". Come tutti sapevano nel 1919, il popolo intero era sinonimo di operai. "L'intellettuale borghese si è dimostrato inetto come portatore della cultura tedesca," diceva Gropius. "Vengono su, dagli strati profondi, nuove forze non ancora intellettualmente sviluppate. Esse sono la nostra principale speranza." L'interesse di Gropius per il "proletariato" o il "socialismo" si rivelò semplicemente un fatto estetico e alla moda, più o meno come l'interesse di Rafael Trujillo, presidente della Repubblica Dominicana, o quello di Mao Tse-tung, presidente della Repubblica Popolare Cinese, per il repubblicanesimo. Tuttavia — come diceva Dostoevskij — le idee hanno conseguenze. Lo stile Bauhaus procedeva da alcune salde premesse. Primo: la nuova architettura era destinata agli operai. Il più sacro di tutti i traguardi: perfetti alloggi per lavoratori. Secondo: la nuova architettura doveva espungere tutto ciò ch'era borghese. Siccome tutti quanti gli addetti ai lavori — gli architetti non meno dei burocrati socialdemocratici — erano borghesi essi stessi, nel senso letterale e sociale del termine, ecco che "borghese" veniva a essere un epiteto atto a significare tutto quello che volevi fargli dire. Serviva a bollare qualsiasi cosa non di tuo gusto nel tenore di vita della gente, dal manovale in su. La cosa principale era non progettare niente di fronte al quale qualcuno potesse esclamare, con un sogghigno: "Ma che borghese!" I socialdemocratici, sia in Germania sia in Olanda, approvavano progetti di case operaie, per loro fini politici, dandone commissione a giovani architetti antiborghesi come Gropius, Mies van der Rohe, Bruno Taut e J.J.P. Oud. Quest'ultimo, a 28 anni, era stato nominato

architetto capo della città di Rotterdam. Faceva parte del gruppo denominato de Stijl (lo Stile). Il Bauhaus e de Stijl, al pari del Novembergruppe, non erano accademie, non erano ditte: anzi, non somigliavano ad alcuna organizzazione nella storia dell'architettura prima del 1897. Nel 1897, a Vienna, un gruppo di artisti e architetti, comprendente Otto Wagner e Josef Olbrich, diedero vita alla cosiddetta Secessione Viennese, poiché si staccarono formalmente dall'organismo ufficiale della cultura austriaca, il Kunstlerhaus. Neppure gli Impressionisti francesi avevan tentato alcunché di simile: il loro Salon des Refusés era stato un grido lanciato all'Istituto Nazionale: Vogliamo entrare! La Secessione Viennese (e quelle di Monaco e Berlino) diede l'avvio a una forma interamente nuova di associazione: la consorteria d'arte. In una consorteria o confraternita o conventicola d'arte (art compound) si annuncia, in un modo o nell'altro, ma di solito mediante un manifesto, quanto segue: "Abbiamo or ora rapito il sacro fuoco dell'arte al tempio ufficiale [l'Accademia, l'Istituto Nazionale, la Kunstlergenossenschaft] e ora esso si trova presso di noi, nel nostro convento. Non dipendiamo più dal patronato dell'aristocrazia, della classe mercantile, dello stato, o da qualsiasi altra entità esterna, per la nostra divina preminenza. D'ora in poi, chiunque voglia immergersi nella beatifica luce dell'arte deve venire qui, entro il nostro recinto, e accettare le forme da noi create. Non si accettano critiche, modifiche o richieste speciali da parte del cliente. Noi. la sappiamo più lunga. Nostra è, in esclusiva, la vera visione del futuro della architettura." I membri della consorteria si riuniscono regolarmente, concordano certi principi estetici e morali e li annunciano al mondo. La Secessione Viennese — come anche il Bauhaus, di lì a venticinque anni — costruì un vero e proprio convento, sotto forma di edificio esemplare — la Casa della Secessione — che essi chiamavano "tempio dell'arte". La nascita di questo nuovo tipo di comunità produsse un effetto di grande euforia su artisti e compositori, nonché su architetti, in tutta Europa ai primi del secolo. Siamo indipendenti dalla società borghese che ci circonda! (Se n'erano innamorati, dell'aggettivo borghese.) E superiori a essa! Furono le conventicole a produrre

quella sorta di avanguardia che costituisce tanta parte della storia dell'arte del Novecento. Tali consorterie — cubisti, fauves, futuristi o secessionisti che fossero — avevano la naturale tendenza a essere esoteriche, a generare teorie e forme che sbigottissero la borghesia. All'uopo, lo strumento migliore era — scopersero presto — dipingere, comporre, scrivere e disegnare in codice. Il singolare genio dei primi cubisti, come Braque e Picasso, non tanto si manifestava nel creare "nuovi modi di vedere" quanto nel creare nuovi codici visivi per le esoteriche teorie della loro conventicola. Per esempio, la tecnica cubista di dipingere un volto di profilo con entrambi gli occhi sullo stesso lato illustrava due teorie: 1) la teoria della piattezza, derivante dal concetto di Braque per cui un dipinto non è altro che un certo modo di disporre i colori e le forme su una superficie piatta; e 2) la teoria della simultaneità, derivante da recenti scoperte nel nuovo campo della stereo-ottica, per cui una persona vede un oggetto da due angoli simultaneamente. In musica, Arnold Schoenberg avvio esperimenti basati su codici matematici che riuscirono sconcertanti anche ai compositori, figurarsi alla borghesia — ed esercitavano tuttavia su essa un fascino irresistibile, nella nuova eta della conventicola d'arte. Compositori, artisti e architetti in confraternita cominciarono ad avere gli stessi istinti dei monaci medievali, buona parte della cui attività era dedicata esclusivamente a separare se stessi dal volgo. Al volgo si sostituisca la borghesia, ed ecco lo spirito dell'avanguardismo del XX secolo. Una volta dentro il recinto della setta l'artista entrava a far parte di una ecclesia, o clerisy — per usare un vecchio termine che in inglese sta a indicare una intelligencija con pretese clericali. Ma quale si supponeva che fosse la fonte dell'autorità del convento? Mah, la stessa di tutti i nuovi movimenti religiosi: diretto accesso al nume che, in questo caso, era la Creatività. Di qui una nuova forma di documento: il manifesto d'arte. Non v'erano manifesti nel mondo dell'arte prima del Novecento e dell'evolversi delle conventicole. I futuristi italiani promulgarono il loro primo manifesto nel 1910. Dopo di che, fu un profluvio di movimenti e ismi. Si emanavano manifesti uno dietro l'altro, giorno e notte. Un manifesto

altro non era che il decalogo della confraternita: "Ci siamo recati in cima alla montagna e ne abbiam riportato il Verbo, sicché ora noi dichiariamo che..." S'intende che per gli artis...


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