Mulas verifiche PDF

Title Mulas verifiche
Author Anna Callegari
Course Storia della Fotografia
Institution Università degli Studi di Parma
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Summary

Verifiche di Mulas...


Description

1. Omaggio a Niepce La fotografia che ho intitolato Omaggio a Niepce ! è il risultato di un riesame del mio lavoro di fotografo che ho fatto alcuni anni fa. ! Ho dedicato a Niepce questo primo lavoro, perché la prima cosa con la quale mi sono trovato a fare i conti è stata proprio la pellicola, la superficie sensibile, l’elemento cardine chiave di tutto il mio mestiere, che è poi il nucleo intorno al quale ha preso corpo l’invenzione di Niepce. ! È una verifica, che è prima di tutto un omaggio, un gesto di gratitudine, un dare a Niepce quello che è di Niepce. ! Per una volta il mezzo, la superficie sensibile, diventa protagonista; non rappresenta altro che se stesso. ! Siamo di fronte a un rullo vergine sviluppato; il pezzettino che è rimasto fuori del caricatore ha preso luce indipendentemente dalla mia volontà, perché è il pezzettino che prende “sempre” luce quando si deve innestare la pellicola sulla macchina: è un fatto fotografico puro. ! Prima ancora che il fotografo faccia qualsiasi operazione, già è avvenuta qualche cosa. Oltre a questo pezzettino che prende luce all’inizio, ho voluto salvare anche il tratto finale, quello che aggancia la pellicola al rocchetto. È un pezzettino che non si usa mai, che non viene mai alla luce, che si butta via, eppure è fondamentale, è il punto dove finisce una sequenza fotografica. ! Mettere l’accento su questo pezzetto vuol dire mettere l’accento sul momento in cui togli dalla macchina la pellicola per portarla in laboratorio. Vuol dire chiudere. Anche questa è una presenza fotografica, perché, essendoci ancora appiccicata della colla che fa corpo, la luce in quel punto non passa. ! Potrei aggiungere che questo omaggio a Niepce rappresenta trentasei occasioni perdute, anzi, trentasei occasioni rifiutate, in un tempo in cui,come scrive Robert Frank riferendosi al fotogiornalismo, l’aria è divenuta infetta per la puzza di fotografia. !

2. L'operazione fotografica Autoritratto per Lee Friedlander ! Qualche tempo dopo l'Omaggio a Niepce ho voluto verificare un altro aspetto della realtà della fotografia: la macchina. Contro la finestra c'è uno specchio, il sole batte sulla finestra, ne proietta l'ombra di un montante contro la parete e insieme proietta la mia ombra. Da quest'ombra si vede che sto fotografando, e la mia azione appare anche nello specchio. In ambedue due i casi c'è un elemento comune: la macchina cancella il viso del fotografo, perchè è all'altezza dell'occhio e nasconde i tratti del volto. La verifica è dedicata a quello che io credo sia il fotografo che più ha sentito questo problema, e ha tentato di superare la barriera che è costituita dalla macchina, cioè il mezzo stesso del suo lavoro e del suo modo di conoscere e di fare. Forse, qui come nel successivo autoritratto con Nini, c'è l'ossessione di essere presente, di vedermi mentre vedo, di partecipare, coinvolgendomi. O, meglio, è una consapevolezza che la macchina non mi appartiene, è un mezzo aggiunto di cui non si più sopravvalutare né sottovalutare la portata, ma proprio per questo un mezzo che mi esclude mentre più sono presente. !

3. Il tempo fotografico A J. Kounellis !

Tra la fine del 1969 e l’inizio del ’70 a Roma si tenne una mostra, Vitalità del negativo, in cui Kounellis esponeva: in un grande spazio neutro, un pianoforte, e due volte al giorno, un pianista suonava per alcune ore un pezzo del Nabucco di Verdi, in parte modificato, sicché il motivo ritornava ossessivamente. Fotografare il pianista mentre suonava non significava nulla; al più poteva essere una documentazione per Kounellis; allora mi sono messo dalla parte opposta al pianista e ho cercato, da quel punto fisso, di riprendere la sala. Volevo rendere il senso della ossessione della musica che di continuo ritorna, e insieme il senso del tempo musicale, che è antitesi al tempo fotografico. Foto dopo foto, mentre l’immagine resta immobile, perché sono sempre rimasto nello stesso punto e i movimenti del pianista così piccoli in un grande spazio non sono percepibili, la musica andava e tornava stringendomi in una specie di cerchio. Il risuolato è stato un intero rullo di trentasei fotogrammi in pratica identici, trentasei non per una scelta, ma perché gli scatti che la pellicola concede sono proprio trentasei. Nella stampa a contatto i numeri incisi sul bordo del film corrono via lungo l’immagine immobile l’uno dopo l’altro: se non ci fossero si potrebbe pensare a trentasei foto ripetute. L’unica cosa che muta, che scorre sono i numeri: non una sequenza di comodo, ma una realtà di linguaggio. Il tempo, cioè, acquista una dimensione astratta, nella fotografia non scorre naturalmente, come accade nel cinema o nella letteratura: sullo stesso foglio, nello stesso istante coesistono tempi diversi, al di fuori di ogni constatazione reale. È l’immobilità più efficace di qualsiasi movimento effettivo, è l’ossessione della immagine ripetuta a far emergere la dimensione del tempo fotografico.!

4. L’uso della fotografia Ai fratelli Alinari !

Lamberto Vitali mi aveva mostrato alcune foto dei fratelli Alinari, rappresentanti il re Vittorio Emanuele II. Una, in particolare, mi ha colpito: sulla stessa lastra stanno due immagini del re, praticamente identiche, se non per una che mostra il re più di profilo che l’altra: in realtà una è una foto ritoccata e l’altra no. Il fotografo ha usato una lastra di grande formato per delle foto di piccole dimensioni del tipo carte de visite di pochi centimetri per non sprecare lastre e per comodità, in pose diverse, con chassis a due aperture piccole, ha realizzato due emulsioni. Così abbiamo questa foto doppia: da un lato il re ha un aspetto fiero, un poco eroico, dall’altro, senza ritocco, il re è vecchio, ha grandi borse sotto gli occhi, è come mummificato dall’età. La compresenza, non tanto di due foto quanto di due realtà su una sola lastra, sorprende, anche per il personaggio ritratto, che è un re, l’immagine del potere. Sullo stesso portante corrono due immagini apparentemente simili, e in realtà opposte, come fossero il vero e la sua falsificazione, indici di un atteggiamento che è poi l’uso della fotografia: la storia vera, che resta negli archivi, e quella abbellita, cattivante, gradevole che viene diffusa !

5. L’ingrandimento II cielo per Nini !

Se vi è qualcosa che non è assolutamente possibile ingrandire, questo qualcosa è il cielo. Una foto di un giorno terso, senza nubi e senza riferimenti terrestri ingrandita è un assurdo o un paradosso. Così dalla terrazza di casa, verso il tramonto, ho scattato un rullo con vari tratti del cielo, con la macchina in verticale e in orizzontale: la sequenza che ne è venuta è ricca di gradazioni da un fotogramma all’altro, di profondità, di intensità. Poi ho scelto un fotogramma e l’ho ingrandito al massimo di lettura, dove si arriva alla percezione della grana. La terza operazione è stata ingrandire un minimo dettaglio del fotogramma precedente secondo quanto mi consentiva il mio studio: da un particolare di poco più di tre centimetri a quasi tre metri e mezzo. A quel punto il cielo scompare e si ha solo una superficie granulosa. L’elemento dominante sono i coaguli di sali d’argento, la grana, e ci si accorge che si potrebbe ottenere la stessa immagine fotografando un muro, cioè che l’immagine è reversibile, intercambiabile. !

6. L’ingrandimento Dalla mia finestra ricordando la finestra di Gras. !

(16 settembre 1824, Joseps Nicéphore N ie p c e a l f r a te l lo C la u de : «H o la sodd isfa z ione di pote rti fi na lm e nte comunicare che… sono riuscito a ottenere un’immagine della natura talmente buona che non potrei desiderare di meglio… Questa immagine è stata presa nella tua stanza dalla parte verso Gras»). ! Ogni tanto mi capita di affacciarmi alla finestra e di guardare giù nel cortile. Sapevo che là c’è un negozio di articoli fotografici e ne avevo ben presente l’insegna: Agfa forniture generali per la fotografia, ma non avevo mai collegato tutto questo con l’unica foto che ci resta di Niepce. Ho fotografato con una pellicola Agfa il cortile, e ho stampato il fotogramma così da leggere sul contatto la scritta Agfa che corre al bordo del film. Quindi ho ingrandito fino a lasciar intravedere, piccola in basso, la targa della ditta. Infine ho scelto quel dettaglio, l’insegna, per farlo emergere come l’unico elemento della foto. In questo caso il mezzo, la pellicola, oggetto e nome, diviene il soggetto. Nel fotogramma si vede il cortile ma non la targa, e il nome Agfa sta non sull’immagine ma sulla pellicola: l’insegna pubblicitaria, nella seconda parte di questa sequenza, comincia a emergere; nella terza infine la scritta è ingrandita al massimo ed è praticamente costituita da grumi di sali d’argento. Cioè, abbiamo la superficie sensibile visualizzata nella sua struttura: sono i sali d’argento a scrivere quell’Agfa che dice che cosa la fotografia è diventata, commercialmente, un mezzo di prevaricazione, di pseudoinformazione, comunque esattamente il contrario di quanto Niepce, mettendo a punto la superficie sensibile, si riprometteva. !

7. Il laboratorio Una mano sviluppa, l’altra fissa. – A Sir John Frederick William Herschel ! («Esperimento 1013. 29 gennaio 1939. Trovato l’iposolfito di sodio per arrestare l’azione della luce eliminando con lavaggio tutto il cloruro d’argento. Riuscito perfettamente. Carta metà esposta, e metà protetta dalla luce grazie a copertura di cartone. ! Poi ritirata dalla luce e spruzzata con iposolfito di sodio e quindi lavata bene con acqua pura. Fatta asciugare, poi esposta di nuovo, la metà oscurata rimane oscura, la metà bianca rimane bianca dopo qualsiasi durata d’esposizione»). ! È la mia verifica del laboratorio, cioè un’operazione in cui la macchina fotografica è esclusa e vengono messi in rilievo lo sviluppo e il fissaggio: un’operazione che volevo priva di ogni emozione e di una estrema secchezza e chiarezza, quale si può cogliere nell’appunto scientifico lasciatoci da Herschel. Nel laboratorio tutto si compie con le mani: prendere i fogli, metterli sotto l’ingranditore, mettere a fuoco, alzare l’ingranditore, abbassarlo, prendere il foglio, immergerlo nello sviluppo, lavarlo, riprenderlo, immergerlo nel fissaggio. Le mani sono dunque le protagoniste e sono anche l’unico oggetto di questa coppia di fotografie: ne ho immersa una nello sviluppo, e una nel fissaggio. Dopo aver fatto prendere luce al foglio, sotto l’ingranditore, le ho appoggiate e schiacciate sul foglio stesso in modo da dividerlo in due. La mano immersa nello sviluppo è apparsa subito, l’altra solo quando la metà del foglio è stata sviluppata. !

8. Gli obiettivi A Davide Mosconi, fotografo !

In genere, nei trattati tecnici e divulgativi si trova una sequenza di fotografie dello stesso paesaggio fatte con obiettivi diversi: dal totale di quel paesaggio si arriva, per passaggi successivi, a un suo minimo particolare. Quella che viene fornita è una spiegazione meccanica, cioè la capacità delle ottiche di avvicinare o allontanare, di ridurre o ingrandire, il campo. Invece la spiegazione va intesa soprattutto in senso linguistico: usare un grandangolo o un teleobiettivo per riprodurre la stessa immagine vuol dire darne già due interpretazioni diverse. Nella prima il volto sarà deformato in modo caricaturale, perchè le parti in primo piano risultano più grandi di quanto appaiono con un'ottica normale, mentre le parti lontane saranno sfuggenti o, addirittura, verranno eliminate. Nella seconda tutti gli elementi sono portati sullo stesso piano, e i tratti sporgenti sono allineati dalla profondità di campo, con un risultato esaltativo, favorevole. Il volto, il personaggio, l'atteggiamento, qui, sono identici: le due foto, invece, risultano profondamente diverse. !

9. Il sole, il diaframma, il tempo di posa Il secondo libro fotografico di Fox Talbot, edito nel 1845, si intitola Immagini della Scozia fatte dal sole. !

11. L’ottica e lo spazio Ad A. Pomodoro ! Foto non fatta. ! Siamo in un interno, nello studio di uno scultore: quest’ultimo è fra gli oggetti quotidiani, bottiglie, arnesi, giornali. In questo spazio il protagonista, malgrado la sua individualità, risulta naturalmente inserito, anzi la sua individualità risalta proprio perché si colloca in una situazione precisa, riconoscibile; tra lo scultore e gli oggetti permane un legame significativo. Con obiettivi a focale sempre più lunga le cose attorno, che gli davano un ambiente, una misura, via via scompaiono, col risultato che il personaggio estraniato dal suo tempo e dal suo spazio diventa quasi mitico, idealizzato. !

12. La didascalia A Man Ray !

E' Man Ray che indica un riquadro architettonico che simula una cornice su una parete. La foto non dice nulla, in se stessa, o dice troppe cose. Ho scattato mentre Man Ray pronunciava una battuta; indicando quello spazio vuoto e inquadrato, il pittore dice:" ça, c'est mon dernier tableau". L'immagine non rivela nulla del genere, perchè la foto è stata suggerita, non dalla situazione visiva, Man Ray che compie un gesto o si pone in un certo atteggiamento, quanto dalla sua battuta: io ho fotografato, cioè, una frase. Ma questo non si puo' vedere se non introducendo nella foto la frase, cioè collocandovi dentro la sua didascalia. La cosa, del resto, è confermata da Man Ray stesso, che non indica un quadro, ma pronuncia una frase che è il suo quadro: la frase è sia l'opera di Man Ray che la mia fotografia. !

13. Autoritratto con Nini Ho voluto tornare sul tema dell’autoritratto, del volto del fotografo cancellato o impreciso. Qui, su uno stesso fotogramma, Nini ed io siamo insieme: Nini è a fuoco, io sono sfocato. È a fuoco perché ero io a fotografarla, la vedevo così e così volevo vederla, perché voglio sempre vedere col massimo di chiarezza quello che mi sta davanti, e fotografare è vedere e voler vedere, prima di tutto. Il mio viso è sfocato perché c’è una sola parte del mondo sensibile che l’uomo, che «può vedersi mentre guarda» secondo MerleauPonty, non riesce a vedere di sé: il viso. Tutt’al più si può rendere un’idea approssimata, attraverso la memoria di altre fotografie, il narcisismo di una superficie riflettente, qualche riferimento casuale, ma l’immagine resterà imprecisa, sfocata. Quando il fotografo lascia l’apparecchio dopo averlo messo a punto, per trasferirsi dall’altra parte, questa realtà non muta e lui continua a non potersi vedere. Mettendo a fuoco la macchina gli è chiaro ciò che lo circonda, e può vederlo con estrema lucidità, ma il suo viso nell’obiettivo è assente. Mettere uno specchio davanti alla macchina è ingenuo, perché il discorso resta fra me e la macchina, e non fra la macchina e lo specchio. !

Fine delle verifiche Per Marcel Duchamp !

La serie delle verifiche, ad un certo momento, l’ho considerata finita, chiusa, e ho deciso di chiuderla là dove aveva avuto inizio. Ho fatto, in un certo senso, come un incisore che biffa la lastra a tiratura ultimata: il vetro, che ha una importanza decisiva per la mia composizione, dà infatti precise caratteristiche fisiche e visive al pezzo, e, una volta spezzato, è la stessa operazione a non poter essere ripetibile. Il risultato del mio gesto è stata un’immagine nuova, diversa rispetto a quella di partenza. E questa rottura radicale con ciò che precede mi ha portato a riflettere sul significato intrinseco dell’Omaggio a Niepce, mi ha portato a pensare a Duchamp; e non solo per la circostanza estrinseca che nella produzione di Duchamp c’è un’opera che è un grande vetro spezzato. Mi sono reso conto, cioè, dell’influenza, inconscia forse, di un atteggiamento di Duchamp, del suo non fare, che ha tanto significato nell’arte più recente, e senza del quale questa parte del mio lavoro non sarebbe nata. Perciò la fotografia è dedicata alla sua presenza....


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