Saggio letteratura Inglese 2: Il ruolo del Fool nel \"King Lear\" PDF

Title Saggio letteratura Inglese 2: Il ruolo del Fool nel \"King Lear\"
Author Stefania Follini
Course Letteratura e cultura inglese II
Institution Università degli Studi di Macerata
Pages 5
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Summary

Saggio di circa 1400 parole, con breve introduzione sull'origine del Fool tradizionale e specificità del Fool Shakespeariano. Si segue la rilevanza del personaggio nello sviluppo della vicenda, con ipotesi di analisi psicologica e di carattere sociale, ricavati anche dal confronto di traduzioni, rap...


Description

Stefania Follini matr. 69927

KING LEAR: IL RUOLO DEL FOOL NELLA TRAGEDIA E LA SUA FUNZIONE NELLO SVOLGIMENTO DELLA VICENDA.

(Fool): “This cold night will turn us all to fools and madmen” (Matto): “Questa notte fredda ci farà diventare tutti pazzi e buffoni” (III.4.76)

Può sembrare strano, quasi fuori luogo che la figura leggera di un giullare si affacci in una tragedia di Shakespeare così totale e devastante come il Re Lear, tanto più che questo personaggio non compare in nessuna delle fonti da cui si pensa che l'autore abbia attinto per la sua opera. Nelle precedenti versioni della storia, infatti, mancano alcuni dei temi che oggi consideriamo strutturali: Lear non perde la ragione; non c'è la trama parallela di Gloucester; Lear e Cordelia riconquistano il regno; manca, come già accennato, la figura del Matto. Quest'ultimo, in realtà, non poteva nemmeno esistere nel più antico riferimento ad un “Re Leir” che risale al 1135, la Historia Regum Britanniae. Il Fool è una figura che si è sviluppata più tardi storicamente, trattandosi di una evoluzione del Matto carnascialesco, il “Naturall Fool” che veniva incoronato re o pontefice per un giorno e rappresentava il capovolgimento dell'ordine delle cose “semel in anno”. In seguito, il ruolo di stolto venne affidato ad un attore, diventò quindi un professionista, “Artificial Fool”, richiesto nelle corti per intrattenere e divertire. I giullari erano anche coloro ai quali erano permesse particolari licenze verbali nell'ambito del palazzo dove erano ospitati. Anche nelle varianti del XVI secolo Albion's England (Warner) e The second Book of the Histoire of England e The True Chronicle History of King Lear -forse quella che ispirò maggiormente Shakespeare- manca la figura del buffone. Eppure, il Matto non è una presenza casuale, non si limita a portare quel comic relief di origine medievale così necessario all'economia della rappresentazione. Il Fool a cui dà vita Shakespeare è un personaggio completo, a tutto tondo, che interagisce con il contesto culturale e genera una raffigurazione vivente della profonda crisi dei valori medievali in corso nel Rinascimento Inglese. Soprattutto dopo la morte di Elisabetta I e l'inizio del regno di Giacomo I, si avverte un senso di imminente catastrofe a livello sociale, che Shakespeare trasferisce nelle tragedie scritte in quel periodo. Anche le vicende umane personali (la morte del figlio Hamnet) possono aver contribuito a incupire l'atmosfera dei suoi lavori. 1

Il Matto di Re Lear è un giullare di corte, cioè un buffone “patentato”, come osserva indignata Goneril rivolgendosi a Lear per protestare contro la presenza del suo numeroso seguito: “Not only, Sir, this your all-licens'd Fool, but other of your insolent retinue” (I.4.193-194). E deve essere un buffone a cui il Re è affezionato, dato che lo difende dalla prepotenza dedli uomini della corte di Goneril: “Did my father strike my gentleman for chiding of his Fool?” (I.3.1-2). lo cerca: “Where's my Fool, ho? I think the world's asleep” (I.4.47) gli permette di chiamarlo pazzo: “Dost thou call me fool, boy?” ( I.4.143) anche se a volte lo minaccia bonariamente: “Take heed, sirrah; the whip” ( I.4.107) Il Matto dimostra un pari affetto, e infinita lealtà, seguendo il suo Re nella tempesta che infuria: Kent: “...But who is with him?” Gentleman: “None but the Fool, who labours to out-jest his heart-strook injuries” (III.1.15-17) Il Matto stesso diventa il protettore del sovrano, cerca di difenderlo dalla forza della natura, da eventuali nemici che potrebbero attaccarlo di nascosto, e soprattutto da se stesso, perché già la pazzia si fa strada nella mente di Lear. Che strana pazzia, quella di Lear: lo scuote e sconvolge fino a non fargli più sentire freddo e stanchezza, ma lo risveglia, e risveglia la sua premura verso i più deboli, verso chi gli sta intorno, tanto che offre al Matto il riparo appena trovato, chiedendogli se ha freddo: “Come on, my boy. How dost, my boy? Art cold?” (III.2.68) Soltanto il Matto e Kent, travestito da mendicante, restano vicini al Re. A questi si aggiunge poi Edgar, che si finge matto per sfuggire a Gloucester, suo padre, che lo crede un traditore. Proprio dietro le battute del Matto sembra di sentire la voce stessa di Shakespeare, con le sue inarrestabili arguzie, i doppi sensi che lo rendono irresistibile e comprensibile al suo pubblico, a tutti e ognuno, che inventa canzoni per il suo Re e con gesti esagerati commenta, consola, si costerna di fronte alla rovina del mondo com'era e non sarà più, lui che ammicca, un occhio divertito e l'altro disperato. In effetti, è stato notato come Re Lear si muova in bilico fra la commedia e la tragedia. Il primo atto prende l'avvio con tono leggero, proprio all'inizio c'è uno scambio di battute salaci fra Kent e Gloucester sulla nascita di Edmund, figlio naturale di Gloucester. 2

La competizione promossa da Lear tra le figlie ha un sapore quasi di fiaba, potrebbe dare inizio a peripezie che conducono verso il lieto fine, ma il lieto fine non arriva, e la vicenda è uno di quei sogni che piano piano si trasformano in incubo. Anche in una delle scene più drammatiche, la follia urlante di Lear nella tempesta, il paradossale contrasto tra la furia titanica di Lear e la sua reale impotenza ad agire portano l'azione al limite del comico, e così il processo a Goneril e Regan. La tensione però non si risolve: cresce, ossessiva, ossessionante. C'è ancora un'altra interpretazione da dare, considerando i tempi di azione drammatica del Fool. Vediamo costui per la prima volta nel salone del palazzo del Duca di Albany, mentre il Re si confronta con Goneril e per la prima volta si accorge che tutte le sue aspettative nei riguardi della figlia erano illusorie. Lear comincia a rendersi conto dell'errore, dell'inganno in cui lui stesso si è gettato, e non può accettarlo, tutto in lui si ribella, si rifiuta. Solo il Matto, come una voce dal di dentro, lo ammette chiaramente, con ironia e con amore. Interviene, quindi, nel momento in cui Lear comincia a perdere il senso di sé, della propria identità e ruolo, che erano così solidi, prima, e a cui volontariamente ha rinunciato. Il Matto interviene, cioè, quando inizia quella scissione interiore che porterà Lear alla follia. Rimane al suo fianco, specchio, interlocutore antagonista, luce, coscienza, finché la lacerazione è in atto. Lo vediamo invece per l'ultima volta quando Lear istituisce il finto processo contro le figlie, insieme al Povero Tom: i tre insieme rappresentano la follia vera, quella simulata di Edgar, e quella, in realtà saggia, del Matto. La follia carica di umanità contro la normalità inumana, avida e crudele. Il Matto scompare, infine, senza una spiegazione se non la frase pronunciata dallo stesso Lear: “And my poor fool is hang'd...” “E il mio Matto è morto impiccato...” (V.3.304). Ma a quel punto, la scissione è completa. Non resta, di Lear, che la parte desolata, smarrita, straziata. Il Matto era l'alter ego di Lear, una proiezione della sua mente, e con lui scompare ogni capacità di ridere, di guardare le cose da un diverso punto di vista e credere che ci può essere una opportunità, una via per la riappacificazione e la guarigione dell'anima. Con la capacità di ridere, anche la capacità di vivere scompare, e Lear muore. Che cosa resta? Niente. Quel niente che per Cordelia era colmo di amore sincero, era in realtà tutto. Quel niente che risuona, si ripete: “Nothing will come of nothing...” sentenzia Lear, nel suo fraintendimento delle parole di Cordelia (I.1.89). E più avanti, nel salone di Goneril, il Matto appena arrivato sollecita: “...Can you make no use of nothing, Nuncle?” “Why no, boy; nothing can be made out of nothing” ammette Lear (I:4.126-128). 3

Il niente, il vuoto che culmina nel suo grido sgomento, disperato alla morte di Cordelia: “Never, never, never, never, never!” (V.3.307). È la fine. Il vuoto consegna in eredità l'urgenza di consapevolezza e discernimento, la necessità di vedere oltre le apparenze e di farsene carico, così come avevano fatto Kent e il Matto, così come fa Edgar: “The weight of this sad time we must obey; speak what we feel, not what we ought to say. The oldest hath born most: we that are young shall never see so much, not live so long.”

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Bibliografia Lombardo A. (a cura di) William Shakespeare: Re Lear Milano, Feltrinelli 2018

The Norton Anthology of English Literature London, Norton & Company 2012 Lerner L. (a cura di) Shakespeare's Tragedies London, Penguin Shakespeare Library 1963 Ansaldo, Bertoli, Mignani Visiting Literature, vol.1 Torino, Petrini 2010 Siti web www.shmoop.com/king-lear (18 maggio 2019) TedEd-David T. Freeman and Gregory Taylor (14 maggio 2019) www.bartleby.com (10 maggio 2019) www.bl.uk/shakespeare/articles/king-lear (15 maggio 2019)

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