Giotto a Napoli PDF

Title Giotto a Napoli
Author Lucarosario Palmieri
Course Storia dell'arte medievale
Institution Università degli Studi di Napoli Federico II
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Summary

"Per una storia dell'arte come quella a cui penso e in cui credo, capace di svelare in profondità non solo le singole congiunture, le dinamiche dei rapporti economici, lo sviluppo dei ceti e dei gruppi sociali, l'organizzazione del lavoro o gli aspetti materiali della produzione, ma anche il dibatti...


Description

Giotto a Napoli Pierluigi Leone de Castris

Giotto giunse a Napoli nel 1328, vi restò fino al 1333. Lavorò alla corte di Roberto D’angiò per 5 anni; venne nominato “familiare” del re e “protomagister” dell’opera in Castel Nuovo nel 1331. Giotto, ipoteticamente, a Napoli ha lavorato solo nelle decorazioni in Santa Chiara e in Castelnuovo. Summonte, parlando di Santa Chiara, scriveva che “quale ecclesia è tutta pinctata di mano di Iocto”. Vasari, nelle Vite, precisa che gli affreschi in Santa Chiara rappresentavano molte storie dell’Apocalisse e storie del Vecchio e Nuovo Testamento. Secondo alcune fonti, Giotto decorò il coro delle monache (grande ambiente di forma rettangolare a tre navate sostenuto al centro da due pilastri e coperto ai lati da volte a crociera) in Santa Chiara, di cui restano solo pochi frammenti sulla parte retrostante e comunicante con l’area presbiteriale della chiesa. Il tema iconografico sarebbe quello della “Passione di Cristo” e del “Compianto sul Calvario”. Summonte descrive , nel 1524, opere di Giotto in Santa Chiara, tra le quali alcune pitture su tavola con immagini di Santi, conservate a quel tempo nel monastero delle monache e commissionate dalla regina Sancia dopo la morte di Roberto D’Angiò. Non si sa se tali fonti siano attendibili ma i documenti ci dicono che la bottega di Giotto era attrezzata per realizzare anche questo tipo di tavole, purtroppo non più in situ e molte andate perdute. Nel monastero vi sono ancora tracce dell’intervento di Giotto, come l’affresco della Crocifissione nella sala di conferenze “Maria Cristina di Savoia”. Vasari, Capaccio e Summonte, nei loro scritti, parlano di affreschi in Santa Chiara anche nelle Cappelle; purtroppo tutto è andato perduto ma diamo peso a tali testimonianze in quanto loro potevano vedere effettivamente gli affreschi, visto che furono distrutti intorno al 1608. Un’indagine mirata alle murature ha scovato tracce di decorazioni geometriche a finto mosaico, ad ornati vegetali, a stemmi e a faccine di fronte, tre quarti e profilo, nelle cappelle. Tracce giottesche o decorazioni trecentesche? Domanda lecita in quanto nelle fasce ornamentali son presenti stemmi, quindi le cappelle appartenevano a varie famiglie. La regina Sancia sollecitò e diede istruzioni riguardo l’affidamento delle cappelle nelle “costituzioni” del 1321. Attorno al 1329-30 si pensava alle cappelle come ad un progetto organico guidato da unico disegno, anche dal punto di vista decorativo. Negli ultimi decenni si è fatta strada una suggestione, espressa per la prima volta nel 1995 da Caroline Bruzelius, relativa a un possibile legame tra la pianta di Santa Chiara e un diagramma del “Liber Figurarum” attribuito a Gioacchino Da Fiore che illustra la “teoria delle Tre Età”: è formato da una figura a forma di rettangolo con compartimenti laterali rappresentanti gli stadi principali delle età parallele del Padre e del Figlio. Lungo l’asse centrale vi è una figura allungata culminante in uno spazio vuoto alla fine della prima e seconda età e corrisponde alla terza, quella dello Spirito Santo; situata in una posizione analoga a quella del coro dei Frati. Oltre vi è uno scomparto finale separato da una linea retta, rappresentante la resurrezione dalla morte, corrispondente al coro delle monache. Una possibile iconografia è la seguente: da un lato storie dell’Evangelo e di Cristo, dall’altro scene dell’Antico e Nuovo Testamento per finire poi con L’apocalisse. Le pareti della navata, scandite in origine da finestroni policromi, prevedeva una decorazione a fresco sulla fronte delle cappelle (riemersi dopo restauri post-bellici affreschi con figure in clipei). Gli affreschi della cappella palatina di Castel Nuovo sono la prima opera di Giotto a Napoli a poter contare su un’ampia documentazione; l’impresa fu avviata da Roberto D’Angiò nel 1329 fino al 1333 (contemporaneo al cantiere in Santa Chiara). La decorazione, in origine, consisteva in un ciclo di storie del Vecchio e Nuovo testamento ma fu distrutta nel 1470 sotto il regno di Ferrante D’Aragona, distruzione di cui fu testimone oculare l’umanista napoletano Pietro Summonte che, in una lettera all’amico veneziano Marcantonio Michiel scrisse:

“Dentro la cappella del Castelnuovo era puntato per tutte le mura, di mano di Iocto, lo testamento vecchio e nuovo, di un buon lavoro. Poi, ad tempo del re Ferrando Vecchio, un suo consigliere, poco bon iodice di cose simili, estimandole poco, fe’ dar nuova tunica ad tutte quelle mura: lo che dispiacque e dispiace anco oggi ad tutti quelli che hanno alcun iudicio”. Degli affreschi restano solo tracce frammentarie concentrate negli sguanci dei sette finestroni. Questi erano otto ma l’ampliamento della Sala dei Baroni ce ne ha lasciati sette, i quali presentano due fasce piane decorate negli sguanci: una delle due fasce maggiori è decorata come fosse una membratura architettonica ed inquadra teste virili affacciate in cornici esagonali o circolari, l’altra è decorata con ornati vegetali su fondo scuro. Un documento del 1331 ricorda che Giotto non realizzò solo gli affreschi della cappella palatina, ma iniziò anche una “cona” (dipinto d’altare) destinata alla cappella palatina e altri affreschi a complemento di una decorazione già esistente in un’altra cappella (segreta), andata distrutta (si suppone fosse in prossimità degli appartamenti reali). Giotto realizzò anche un ciclo raffigurante “Uomini illustri dell’antichità e dei loro amori” nella Sala Grande del palazzo ma ebbe vita breve a causa delle vicende strutturali della sala in questione....


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