Gratitudine by Oliver Sacks PDF

Title Gratitudine by Oliver Sacks
Course Psicobiologia
Institution Università degli Studi di Catania
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Libro...


Description

LDB

Indice Frontespizio Colophon Prefazione GRATITUDINE Mercurio La mia vita La mia tavola periodica Shabbat Nota al testo

Oliver Sacks Gratitudine Traduzione di Isabella C. Blum

Adelphi eBook

:

TITOLO ORIGINALE

Gratitude

Quest’opera è protetta dalla legge sul diritto d’autore È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata

Prima edizione digitale 2016

© 2015 ESTATE OF OLIVER SACKS All rights reserved © 2015 KATE EDGAR AND BILL HAYES per la Prefazione © 2015 BILL HAYES per le fotografie © 2016 ADELPHI EDIZIONI S.P.A. MILANO www.adelphi.it

ISBN 978-88-459-7815-9

PREFAZIONE Nei quattro saggi qui raccolti, scritti negli ultimi due anni della sua vita, Oliver Sacks affronta i temi dell’età che avanza, della malattia e della morte con un garbo e una semplicità straordinari. Nel primo di essi, Mercurio, scritto di getto nel luglio del 2013, pochi giorni prima del suo ottantesimo compleanno, elogia i piaceri della vecchiaia senza ignorare le fragilità del corpo e della mente che possono accompagnarla. Diciotto mesi dopo, quando aveva da poco finito di lavorare alla bozza della sua autobiografia In movimento, Sacks apprese che il raro melanoma a un occhio diagnosticatogli nel 2005 aveva metastatizzato nel fegato; per quel particolare tipo di cancro c’erano pochissime opzioni terapeutiche, e i medici gli pronosticarono soltanto altri sei mesi. Di lì a qualche giorno finì di scrivere il saggio La mia vita, nel quale esprimeva il suo travolgente senso di gratitudine per una vita ben vissuta. Esitò, tuttavia, a pubblicarlo immediatamente: era forse prematuro? Era davvero disposto a rivelare a tutti la sua malattia terminale? Un mese dopo, proprio mentre stava entrando in sala operatoria per un trattamento che gli avrebbe offerto diversi altri mesi di vita attiva, chiese che il saggio fosse inviato al «New York Times», dove fu pubblicato il giorno dopo. La reazione di moltissimi lettori, una reazione piena di empatia, fu per lui estremamente gratificante. Nei mesi di maggio e giugno del 2015, e anche nella prima parte di luglio, Sacks godette di una salute relativamente buona e si dedicò alla scrittura, al nuoto, al pianoforte e ai viaggi. In questo periodo scrisse diversi pezzi, tra i quali La mia tavola periodica, in cui rifletteva sul suo amore di sempre per la tavola degli elementi, e sulla propria mortalità. Ad agosto, mentre la sua salute stava ormai rapidamente declinando, consacrò le ultime energie alla scrittura. Il saggio finale di questo libro, Shabbat, aveva per lui un’importanza particolare: ritornò su ogni singola parola del testo, più volte, distillandola fino all’essenza. Esso uscì due settimane prima della sua morte, avvenuta il 30 agosto 2015.

Kate Edgar e Bill Hayes

GRATITUDINE

Adesso mi trovo faccia a faccia con la morte, ma non ho ancora chiuso con la vita.

MERCURIO

La notte scorsa ho sognato il mercurio: enormi gocce lucenti di «argento vivo» in movimento verso l’alto e verso il basso. Il mercurio è l’elemento numero 80, e il sogno mi ricorda che martedì compirò ottant’anni. Per me, elementi chimici e compleanni si sono intrecciati fin dall’infanzia, quando appresi dell’esistenza dei numeri atomici. A undici anni, potevo dichiarare «io sono il sodio» (l’elemento 11), e adesso che ne ho settantanove sono l’oro. Qualche anno fa, quando regalai a un amico una boccetta di mercurio per il suo ottantesimo compleanno – un contenitore speciale, infrangibile e a chiusura ermetica –, lui mi lanciò un’occhiata perplessa, ma poi mi inviò una bella lettera in cui diceva scherzando: «Ne prendo un goccio ogni mattino, per tenermi in forma». Ottanta! Quasi non riesco a crederci. Spesso mi pare che la vita stia per cominciare, ma subito dopo mi rendo conto che è ormai quasi finita. Mia madre era la sedicesima di diciotto fratelli; io ero il minore dei suoi quattro figli e uno dei più giovani nella schiera dei miei cugini per parte materna. Alle superiori ero sempre il più giovane della classe. Ho conservato questa sensazione di essere il più piccolo, anche se adesso poco manca che sia invece il più anziano fra tutti quelli che conosco.

A quarantun anni pensai di morire quando, durante un’escursione solitaria in montagna, feci una brutta caduta e mi ruppi una gamba. Me la steccai alla meglio e poi cominciai la discesa spingendomi giù goffamente, facendo leva con le braccia. Nelle lunghe ore che seguirono, fui assalito dai ricordi, belli e brutti. La maggior parte era ispirata a un senso di gratitudine: gratitudine per quanto avevo ricevuto dagli altri, ma anche per essere riuscito a dare qualcosa in cambio. Risvegli, il mio secondo libro, era stato pubblicato l’anno prima. A quasi ottant’anni, con qualche problema clinico e chirurgico, nessuno dei quali invalidante, sono felice di essere vivo: a volte, nelle giornate in cui il tempo è perfetto, mi viene fuori, prorompente, I’m glad I’m not dead! (Diversa è la storia raccontatami da un amico il quale, passeggiando a Parigi con Samuel Beckett in una perfetta mattina di primavera, gli chiese: «In un giorno come questo non si sente felice di essere vivo?»; al che Beckett rispose: «Non mi spingerei a tanto»). Sono grato di aver sperimentato molte cose – alcune meravigliose, altre orribili –, di esser riuscito a scrivere una dozzina di libri, di aver ricevuto innumerevoli lettere da amici, colleghi e lettori, e di aver avuto quello che Nathaniel Hawthorne chiamava un «contatto con il mondo». Mi dispiace di aver perso (e di continuare a perdere) moltissimo tempo; mi dispiace di essere tormentosamente timido a ottant’anni proprio come lo ero a venti; mi dispiace di saper parlare solo la mia lingua materna, e di non aver visitato o conosciuto altre culture come avrei dovuto. Sento che dovrei provare a dare un compimento alla mia vita, qualsiasi cosa significhi «dar compimento a una vita». Nunc dimittis, dicono alcuni dei miei pazienti, dopo aver varcato la soglia dei novanta o anche dei cento anni: «Ho avuto una vita piena, e adesso sono pronto ad andarmene». Per alcuni di loro, questo significa andare in paradiso: sempre il paradiso e mai l’inferno, anche se Samuel Johnson e James Boswell tremavano entrambi al pensiero dell’inferno e s’infuriavano con David Hume, che non aveva tali convincimenti. Io non credo in un’esistenza dopo la morte (né la desidero), se non nei ricordi degli amici, e nutro la speranza

che alcuni dei miei libri possano continuare a «parlare» alla gente dopo la mia morte. Spesso W.H. Auden mi confidava di pensare che sarebbe vissuto fino a ottant’anni (arrivò solo a sessantasette) e che poi si sarebbe «levato dai piedi». Sono passati quarant’anni dalla sua morte, eppure spesso sogno di lui, come dei miei genitori e dei miei ex pazienti: benché tutti deceduti da tempo, mi sono ancora cari e sono importanti nella mia vita. Quando si hanno ottant’anni, lo spettro della demenza o dell’ictus incombe: un terzo dei propri coetanei è morto, e molti di più, con gravi danni fisici o mentali, sono intrappolati in un’esistenza tragica ridotta ai minimi termini. A ottant’anni, i segni del declino sono fin troppo visibili. Le reazioni diventano un po’ più lente, spesso i nomi sfuggono, e le energie vanno dosate; nondimeno, capita spesso di sentirsi pieni di vita e di energie, niente affatto «vecchi». Forse, con un po’ di fortuna, resisterò – più o meno integro – per qualche anno ancora, e mi sarà concesso il lusso di continuare ad amare e a lavorare: come insisteva Freud, le due cose più importanti della vita. Quando verrà il mio momento, spero di poter morire lavorando, come fece Francis Crick. Venuto a sapere che il suo cancro al colon si era riformato, dapprima non disse nulla; si limitò a guardare per un minuto l’orizzonte e poi riprese il filo dei suoi pensieri. Dopo alcune settimane, a chi si ostinava a chiedergli della diagnosi, rispose: «Tutto ciò che ha un inizio deve avere una fine». Morì a ottantotto anni, ancora coinvolto appieno nel suo lavoro estremamente creativo. Mio padre, che visse fino a novantaquattro anni, diceva spesso che il decennio tra gli ottanta e i novanta era stato uno dei più piacevoli della sua vita. Percepiva, come ora comincio a percepire anch’io, non una riduzione ma un ampliamento della vita mentale e della prospettiva. Uno ha avuto una lunga esperienza della vita, non solo della propria, ma anche di quella altrui. Ha assistito a trionfi e tragedie, espansioni e contrazioni, guerre e rivoluzioni, grandi affermazioni e profonde ambiguità. Ha assistito all’ascesa di splendide teorie, solo per vederle cadere sotto il peso di inesorabili dati di fatto.

Vi è una maggior consapevolezza della transitorietà e, forse, della bellezza. A ottant’anni si può guardare lontano e avere un senso della storia, intenso e vissuto, impossibile quando si è più giovani. Adesso riesco a immaginare che cosa sia un secolo, riesco a sentirmelo nelle ossa; quando avevo quaranta o sessant’anni non potevo fare altrettanto. Non penso alla vecchiaia come a un’età sempre più triste che in un modo o nell’altro va sopportata facendo buon viso a cattivo gioco, ma come a un periodo di libertà e senza impegni, svincolato dalle artificiose urgenze del passato, in cui sono libero di esplorare quello che voglio e di legare tra loro i pensieri e i sentimenti di tutta una vita. Non vedo l’ora di compiere ottant’anni.

LA MIA VITA

Un mese fa credevo di essere in salute, addirittura che la mia salute fosse robusta: a ottantun anni, faccio ancora ogni giorno un buon chilometro e mezzo a nuoto. La mia fortuna, però, si è esaurita, e qualche settimana fa ho appreso di avere metastasi multiple al fegato. Nove anni or sono mi scoprirono un melanoma oculare, un tumore raro. Le radiazioni e i trattamenti con il laser eseguiti per rimuoverlo mi lasciarono infine cieco da quell’occhio. Benché i melanomi oculari metastatizzino forse nel 50 per cento dei casi, considerando la mia situazione particolare la probabilità era molto inferiore. Mi è andata male. Sono grato che dopo la diagnosi iniziale mi siano stati concessi nove anni di buona salute e produttività; adesso però mi trovo faccia a faccia con la morte. Il cancro occupa un terzo del mio fegato e, per quanto si possa rallentarne l’avanzata, è di un tipo che non può essere fermato. Sta a me, adesso, scegliere come trascorrere i mesi che mi restano. Devo vivere nel modo più ricco, più intenso e più produttivo possibile. In questo sono incoraggiato dalle parole di uno dei miei filosofi preferiti, David Hume, il quale a sessantacinque anni apprese di avere una malattia mortale e in

un solo giorno dell’aprile 1776 autobiografia, che intitolò La mia vita.

scrisse

una

breve

«Adesso conto su una rapida dissoluzione» scriveva. «Ho sofferto pochissimo a causa del mio male; e, quel che è più strano, nonostante il notevole declino fisico, il mio stato d’animo non ha subito un minuto solo di abbattimento … Ho ancora lo stesso ardore per lo studio e la stessa gaiezza in compagnia».1 Io sono stato abbastanza fortunato da superare gli ottant’anni, e i quindici in più che mi sono toccati rispetto ai sei decenni e un lustro di Hume sono stati densi, in ugual misura, di lavoro e affetti. In questo periodo ho pubblicato cinque libri e completato un’autobiografia (un po’ più lunga delle poche pagine di Hume); e ho diversi altri libri quasi finiti. Hume continuava descrivendosi come «un uomo di carattere mite, padrone del proprio temperamento, di umore aperto, socievole e brioso, capace di amicizia e ben poco capace di inimicizia, estremamente moderato in tutte le sue passioni».2 Qui, io mi discosto da lui. Benché abbia goduto di relazioni amorose e di amicizie, e non abbia autentiche inimicizie, non posso dire (né lo direbbe chiunque mi conosca) di essere un uomo dal carattere mite. Al contrario, sono un uomo dal carattere ardente, con entusiasmi violenti, e sono estremamente immoderato in tutte le mie passioni. Nondimeno, nello scritto di Hume c’è un passaggio che mi colpisce perché mi sembra particolarmente vero: «È difficile» scriveva «essere più distaccati dalla vita di quanto lo sia io adesso».3 Negli ultimi giorni sono riuscito a considerare la mia vita come da una grande altezza, quasi fosse una sorta di paesaggio, e con una percezione sempre più profonda della connessione fra tutte le sue parti. Questo non significa che io abbia chiuso con la vita. Al contrario, mi sento intensamente vivo, e nel tempo che mi resta ho la volontà, e la speranza, di approfondire le mie amicizie, dire addio a coloro che amo,

scrivere ancora, viaggiare se ne avrò la forza, raggiungere nuovi livelli di conoscenza e comprensione. Questo comporterà che abbia coraggio, sia trasparente e parli chiaro; e che cerchi di pareggiare i miei conti con il mondo. Ma ci sarà tempo anche per un po’ di svago (e perfino per qualche stupidaggine). Percepisco, chiare e improvvise, concentrazione e prospettiva. Non vi è tempo per nulla di inessenziale. Devo concentrarmi su me stesso, sul mio lavoro e sui miei amici. Non guarderò più «NewsHour» tutte le sere. Non farò più attenzione alla politica o alle discussioni sul riscaldamento globale. Non è indifferenza, è distacco. Il Medio Oriente, il riscaldamento globale e le disparità crescenti mi interessano ancora profondamente, ma non sono più cose che mi riguardano; appartengono al futuro. Mi rallegro quando incontro giovani dotati – perfino quello che mi ha fatto la biopsia e mi ha diagnosticato le metastasi. Sento che il futuro è in buone mani. Negli ultimi dieci anni, sono stato sempre più consapevole della morte dei miei coetanei. La mia generazione sta per uscire di scena, e ogni morte l’ho sentita come un distacco, come lo strappo di una parte di me stesso. Quando ce ne saremo andati, non ci sarà più nessuno come noi; d’altra parte nessuno è mai come qualcun altro. Quando le persone muoiono, non possono essere rimpiazzate. Lasciano dei buchi che non possono essere riempiti, perché è destino di ogni essere umano – destino genetico e neurale – quello di essere un individuo unico, di trovare la propria strada, di vivere la propria vita, di morire la propria morte. Non posso fingere di non aver paura. A dominare, però, è un sentimento di gratitudine. Ho amato e sono stato amato; ho ricevuto molto, e ho dato qualcosa in cambio; ho letto e viaggiato e pensato e scritto. Ho avuto un contatto con il mondo, di quel tipo particolare che ha luogo tra scrittori e lettori.

Più di tutto, sono stato un essere senziente, un animale pensante, su questo pianeta bellissimo, il che ha rappresentato di per sé un immenso privilegio e una grandissima avventura.

1. David Hume, Opere, trad. it. di E. Mistretta, 2 voll., Laterza, Bari, 1971, vol. II, pp. 1002-1003. Tutte le note sono della traduttrice. 2. Ibid., p. 1003. 3. Loc. cit.

LA MIA TAVOLA PERIODICA

Ogni settimana aspetto con impazienza, quasi con avidità, l’arrivo di riviste come «Nature» e «Science», e immediatamente vado agli articoli che parlano di scienze fisiche – e non, come forse dovrei, a quelli di biologia e medicina. Sono state le scienze fisiche a regalarmi il primo incanto, da bambino. Su un numero recente di «Nature» c’era un appassionante articolo del fisico premio Nobel Frank Wilczek, a proposito di un nuovo modo di calcolare la massa, leggermente diversa, di neutroni e protoni. Il nuovo calcolo conferma che i neutroni sono appena più pesanti dei protoni; il rapporto tra le loro masse è di 939,56563 a 938,27231: una differenza irrilevante, si potrebbe pensare, ma se le cose stessero altrimenti, l’universo non sarebbe mai potuto diventare come lo conosciamo. La capacità di effettuare questo calcolo, scriveva Wilczek, «ci incoraggia a prevedere un futuro in cui la fisica nucleare arriverà al livello di precisione e versatilità già raggiunto dalla fisica atomica» – una rivoluzione che purtroppo io non potrò vedere. Francis Crick era convinto che il «problema difficile» – la comprensione di come il cervello dia origine alla coscienza –

sarebbe stato risolto entro il 2030. «Tu lo vedrai,» diceva spesso al mio amico neuroscienziato Ralph Siegel «e forse anche tu, Oliver, se arriverai alla mia età». Crick visse quasi novant’anni, lavorando e riflettendo sul tema della coscienza fino all’ultimo. Ralph è morto prematuramente a cinquantadue anni, e adesso io mi ritrovo, ottantaduenne, con una malattia terminale. Devo dire che il «problema difficile» della coscienza non mi preoccupa più di tanto: in effetti, non lo considero nemmeno un problema; ma mi dispiace non poter vedere la nuova fisica nucleare immaginata da Wilczek, né mille altre grandi conquiste delle scienze fisiche e biologiche.

Alcune settimane fa, in campagna, lontano dalle luci della città, ho visto tutto il cielo «punteggiato di stelle» (per usare le parole di Milton); un cielo così, pensavo, poteva essere contemplato solo sui grandi altopiani deserti come quello dell’Atacama in Cile (dove si trovano alcuni dei più potenti telescopi del mondo). Fu lo splendore di quel cielo a farmi capire, all’improvviso, quanto poco tempo, quanta poca vita, mi fossero rimasti. La percezione della bellezza dei cieli, dell’eternità, era per me inseparabilmente mescolata a un senso di transitorietà – e di morte. Dissi ai miei amici Kate e Allen: «Mi piacerebbe, mentre morirò, vedere ancora un cielo così». «Ti porteremo fuori con la sedia a rotelle» risposero. Da quando, a febbraio, ho raccontato delle mie metastasi, sono stato confortato dalle centinaia di lettere che ho ricevuto, dalle espressioni di affetto e di stima, e dalla percezione di avere forse vissuto (nonostante tutto) una vita buona e utile. Mi sento felice e grato per tutto questo: ma nulla mi tocca come quel cielo notturno pieno di stelle. Fin da bambino ho avuto la tendenza ad affrontare la perdita – la perdita di persone care – rivolgendomi al non umano. Quando avevo sei anni, all’inizio della seconda guerra mondiale, fui mandato in collegio, e feci amicizia con i numeri; a dieci anni, tornato a Londra, divennero miei

compagni gli elementi chimici e la tavola periodica. Nel corso di tutta la vita, i momenti di stress mi hanno sempre spinto a rivolgermi, o a far ritorno, alle scienze fisiche, un mondo che non conosce la vita, ma nemmeno la morte. E adesso, in questo frangente, in un momento in cui la morte non è più un concetto astratto ma una presenza – fin troppo vicina, impossibile da ignorare –, mi sto nuovamente circondando, come facevo da bambino, di metalli e minerali, piccoli simboli di eternità. In fondo al mio scrittoio, in una bella scatola, ho l’elemento 81, che mi è stato inviato dall’Inghilterra da amici che condividono la mia passione per gli elementi: c’è scritto «Buon compleanno del Tallio», un souvenir per i miei ottantun anni, compiuti lo scorso luglio; c’è poi un territorio dedicato al piombo, l’elemento 82, per il mio ottantaduesimo compleanno, che ho festeggiato da poco, questo mese. E c’è anche un cofanetto di piombo contenente l’elemento 90, il torio – torio cristallino –, bello come il diamante e, naturalmente, radioattivo (ecco il perché del cofanetto di piombo).

Al principio dell’anno, nelle settimane successive alla mia diagnosi, nonostante metà del mio fegato fosse occupata dalle metastasi, mi sentivo abbastanza bene. A febbraio, quando il cancro al fegato fu trattato con l’iniezione di microsfere nelle arterie epatiche – una procedura chiamata embolizzazione –, stetti malissimo per un paio di settimane, ma poi mi sentii superbene, pieno di energie fisiche e mentali (l’embolizzazione aveva temporaneamente spazzato via quasi tutte le metastasi). Mi era stata regalata non una remissione ma una tregua, un periodo in cui approfondire le mie amicizie, visitare i pazienti, scrivere e tornare in patria – in Inghilterra. In quel periodo, la gente faticava a credere che avessi una malattia terminale, e io stesso riuscivo facilmente a dimenticarmene. Quando maggio cedette il passo a giugno, questa sensazione di benessere ed energia cominciò a declinare, ma fui comun...


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