L’ Inutile Fatica DI Essere SE Stessi ( Seminario) PDF

Title L’ Inutile Fatica DI Essere SE Stessi ( Seminario)
Course Psicologia delle organizzazioni e istituzioni
Institution Università degli Studi di Palermo
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appunti lezione Ruvolo...


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L’INUTILE FATICA DI ESSERE SE STESSI (SEMINARIO) LA FATICA DI ESSERE SE STESSI, DEPRESSIONE E SOCIETA’ (Alain Ehrenberg) Il seminario, intitolato appunto l’inutile fatica di essere se stessi, ha posto quesiti quali: perché la fatica di essere se stessi è inutile? Che cosa significa essere se stessi? In che rapporto l’essere se stessi è con gli altri? Tali quesiti ci spingono ad indagare su cosa è la cura di se stessi e che posto occupano gli altri in questo. Dietro la fatica di essere se stessi si dissimula l’angoscia di essere se stessi in quanto, come sostenuto da Lacan, “diventare adulti equivale all’angoscia di diventare se stessi”. Non è casuale la scelta di tale distinzione tra i termini, poiché l’angoscia è quello stato che ci avverte che stiamo infrangendo un interdetto che ci divide, ossia una patologia della colpa e del conflitto; la fatica rimanda ad uno stato di debilitamento del soggetto che lo rende incapace di agire. L’essere o il dover essere, un tempo, trovava risposta in un approccio fondato sulla coscienza morale, mentre nella società odierna l’essere se stessi si fonda su un ideale dell’Io, sempre più socialmente modellato. Essere se stessi significa essere individuali, essere in sé e per sé. La fatica dell’essere se stessi si traduce nella fatica delle richieste sociali di fare i conti con le soggettività che andiamo a comporre, in quanto noi “siamo” in base al contesto in cui siamo. La fatica è dunque una malattia della responsabilità e dell’insufficienza. La responsabilità, in tal senso, è strettamente connessa al livello di discrezionalità, inteso come spazio all’interno del quale risiede la decisionalità del soggetto, sanzionabile o meno, secondo i vincoli legalmente riconosciuti dalla società in cui il soggetto vive, pensa e agisce. La questione di fondamentale importanza riguarda gli effettivi vincoli posti a tale libertà, ad esempio dal liberismo economico, sempre più tendente ad una riduzione di tali vincoli per fini utilitaristici e spesso di profitto; esso ci governa ed agisce ed è definibile come orizzonte etico di senso il cui valore è un’accezione di libertà: libertà da ogni vincolo. La responsabilità, pertanto, può declinarsi in responsabilità sociale di impresa e responsabilità individuale. Nel primo caso, un esempio interessante potrebbe riguardare l’evoluzione e il fallimento del protocollo di Kyoto. Esso è un accordo internazionale, stabilito nel 1997, che fissa gli obiettivi per i tagli delle emissioni dei gas serra nei paesi industrializzati, in quanto considerati responsabili dell’innalzamento a livello mondiale della temperatura che può avere conseguenze catastrofiche per la vita sulla Terra. I paesi firmatari sono impegnati a tagliare le loro emissioni combinate del 5% sotto i livelli del 1990 entro il 2008/2012. In realtà il protocollo di Kyoto non ha avuto completamente successo, in quanto nel 2001 gli Stati Uniti si sono ritirati dall’accordo, definito dall’ex presidente degli Stati Uniti George Bush come un “trattato sbagliato senza rimedi”, poiché metterlo in pratica sarebbe stato dannoso per l’economia del paese. In realtà si deduce che la responsabilità sociale di impresa è solo un accessorio dichiarato, ma spesso non effettivo, per cui il liberismo diviene uno strumento che tende a riprodurre una modalità di potere di chi è in condizione di realizzare ciò che gli piace a discapito dell’altro, senza spesso nessuna effettiva responsabilità.

Per responsabilità individuale, invece, si intende il comprendere intersoggettivamente e non solo soggettivamente, le proprie azioni e le conseguenze che ne derivano. Ad esempio, relativamente al dramma della deforestazione in Amazzonia, il singolo potrebbe agire responsabilmente utilizzando materiali riciclabili ed alternativi. Riprendendo il quesito precedentemente posto relativo al rapporto intercorrente tra l’essere se stessi e gli altri e riguardo il modo in cui concepiamo la cura di noi stessi, è importante fare riferimento a Platone. Egli scrive il Dialogo su Alcibiade, dal quale si evince il suo profondo desiderio di entrare in politica: sino ad allora quest’ultimo ha vissuto nel lusso ed ha perso i suoi amanti tranne Socrate, in quanto ha a cuore il suo animo. Socrate opera un lavoro di decostruzione del desiderio politico facendo notare ad Alcibiade la sua mancanza di competenze invitandolo caldamente a conoscere se stesso, occuparsi innanzitutto di se stesso per poter occuparsi della polis e comprendere ciò che è bene per la polis stessa. Tale dialogo, pertanto, ci permette di inquadrare il concetto di cura di sé e la sua evoluzione. Che cosa vuol dire allora il prendersi cura di sè? Ciò significa mettere in discussione tutti quei modi di pensare e di desiderare, quelle forme dell’essere che sono costitutive del soggetto. Per Alcibiade prendersi cura di sé, è prendere coscienza delle pretese ingiustificate, prendersi cura delle proprie motivazioni, degli ideali, dei propri scopi e obiettivi. Chi vuole fare politica si dovrebbe domandare quale sia la motivazione che lo spinge ad occuparsi della politica stessa. Avere ideali di sé non è patologico, lo diventa quando la cura di sé è dissociata dall’altro ed implode nel narcisismo maligno: la cura del proprio corpo, dei propri interessi perdono l’interesse della comunità. Il soggetto può veramente realizzarsi o implodere nell’individualismo narcisistico, nel narcisismo degli ideali, inteso come cura dei propri interessi e non degli altri. Bouvier afferma il concetto di narcisismo terziario sintetico come prodotto del capitalismo: un ideale di uomo desideroso di essere prestante, efficiente, imprenditore di se stesso, causando inevitabilmente una rottura narcisistica del soggetto stesso. L’impossibilità di essere se stessi è data dai sè in concorrenza: dobbiamo adeguarci alla disciplina del luogo, in cui subiamo un’esaltazione della precarietà, poiché non essendo garantiti dal datore di lavoro, gli operatori sono in eccedenza ed entrano in competizione tra loro. Il benessere non è essere felici, poiché bisogna distinguere il benessere dalla guarigione; si può essere felici infatti condividendo la precarietà. Pertanto, in questa dimensione di trionfo dell’economia non può esserci cura di sé destinata al bene comune, dunque degli altri. Nelle opere di Kafka (il castello, la metamorfosi, il digiunatore) riscontriamo tutti personaggi eccedenti, che sono o stanno per essere espulsi dal posto. Con la legge Fornero tanti operai qualificati si sono trasformati in insetti sociali, in termini kafkiani. Qual è dunque la soluzione? Tornare forse al passato? Ciò pare essere impossibile. Ci rimangono, allora, due ipotesi: correre lungo la dinamica del disastro, oppure, paternalistica definita come “la rinormazione” secondo il punto di vista Lacaniano.

l’ipotesi

Viene suggerito al seminario più che la presenza del padre quella della madre, in modo particolare ciò che manca è la corporeità della madre, intesa come bisogno del corpo disponibile a farsi linguaggio. Oggi abbiamo bisogno del contatto fisico con l’altro, ma al tempo stesso ne abbiamo paura, poiché entrare in contatto con l’altro implica il subire ed esercitare frustrazioni. L’unica soluzione allora è prendersi per mano per superare l’abisso esistente, dialogare con l’altro. L’inutile fatica di essere se stessi deve essere allora trasformata in utile fatica di partire da noi stessi,riappropriarci di pensieri e desideri. Prendersi per mano in funzione non solo consolatoria, ma anche dal punto di vista della condivisione. In tal senso, una soluzione alla precarietà potrebbe essere la riduzione dell’orario di lavoro, in modo da concedere anche agli altri “precari” la possibilità di lavorare. Alla luce degli argomenti sopra citati, il soggetto oggi è il simbolo di una cultura della concorrenza, la cui “moda dell’emancipazione” invita tutti a partire alla conquista della propria identità personale e alla conquista della promozione sociale. Nell’impresa, i modelli di gestione delle risorse umane segnano il passo a iniziative autonome; le modalità di controllo della forza lavoro premiano più lo spirito di iniziativa che l’obbedienza meccanica. Il modello non è più quello dell’uomo macchina, tutto ripetitività e regolarità, bensì quello dell’imprenditore, tutto flessibilità e inventiva. Il liberismo economico contemporaneo ha visto l’affermarsi di un maggiore spazio di discrezionalità dell’individuo, al quale si è correlato automaticamente un maggiore livello di responsabilità: vi è l’idea che la mancanza di successo è dovuto al soggetto stesso. Con la crisi del modello Fordista si assiste, dunque, all’affermarsi di una nuova politica del lavoro denominata Post-Fordista, nella quale si registra uno sfruttamento della libertà dell’individuo, traducibile nella sua totale responsabilizzazione in cambio del suo successo personale. Il soggetto vive un’idealizzazione di se stesso suscitata dalla cultura in cui vive, che lo descrive e lo esige come imprenditore di se stesso, efficiente, competente, ponendo le basi di una rottura narcisistica, prodotta dal capitalismo stesso che delinea successivamente la patologia depressiva. Si delinea una rappresentazione collettiva, secondo la quale la potenza del singolo dipende dal suo successo personale, che il sistema organizzativo connette alle capacità e competenze dell’uomo:l’ideale dell’Io è la forza e la potenza, non abbiamo il diritto di fallire ed essere imperfetti. Tale dinamica culturale investe tutto l’arco della vita dell’individuo, diversi versanti esistenziali: ad esempio la scuola conosce trasformazioni analoghe, incidendo profondamente sulla psicologia degli studenti, con la conseguenza di “una esacerbazione degli imperativi di riuscita individuale e scolare che affligge bambini e adolescenti”, portandoli a sentirsi gli unici responsabili dei propri fallimenti. Gli stessi genitori esercitano una pressione sui figli, in quanto legano al successo degli stessi la propria posizione nella società, non supportandoli in una serena formazione. Volendo individuare delle alternative pedagogiche alle dinamiche suddette, sarebbe interessante citare il metodo Waldorf della scuola Steineriana, non improntato principalmente sull’aspetto cognitivo-intellettuale dell’apprendimento, ma su una didattica artistico-creativa e pratico-

artigianale dell’allievo; tuttavia tale metodo risulta essere poco impiegato o addirittura sconosciuto dalla collettività. Ritornando ad Ehrenberg, egli inoltre approfondisce la tematica della depressione, definita come “malattia alla moda” fondata sul processo mimetico sociale, per cui l’oggetto del desiderio è socialmente desiderabile. Essa risulta essere influenzata dalle istituzioni e dalla cultura, che attraverso il potere deontico, ci riordinano dall’interno e ci formano secondo rappresentazioni del mondo non necessariamente corrispondenti alla realtà umana: ad esempio la nostra rappresentazione immaginaria della figura dello psicologo è quella di un individuo onnipotente in grado di risolvere tutte le problematiche umane, in realtà sappiamo che lo psicologo è un essere umano e in quanto tale ha i propri limiti. Ehrenberg suggerisce che la patologia depressiva sia dovuta alle nuove norme di convivenza civile fondate sulla responsabilità e sullo spirito di iniziativa, motivo per cui l’individuo risulta così schiacciato dalla necessità di mostrarsi sempre all’altezza. La depressione si configura, dunque, come l’affezione per eccellenza del registro narcisistico, inteso non tanto come amore di sé, quanto come l’essere schiavo di un’immagine fortemente idealizzata di sé da sentirsi paralizzati, dando luogo ad un senso di inferiorità ed impotenza. A tal proposito, gli psicofarmaci si pongono come risposta farmaceutica all’enfasi sociale posta sull’azione personale istituzionalizzata dalla cultura, dal momento che le uniche qualità richieste all’uomo moderno sono fiducia in se stessi, rapidità ed energia. Si costituisce dunque un marketing di psicofarmaci il cui scopo è il profitto: occorre però tener presente che questi non possono ristabilire l’“equilibrio spirituale, la gioia di vivere e un’esultanza improvvisa ed illimitata”. Nessun farmaco, infatti, è un filtro onnipotente che basta applicare al problema per farlo istantaneamente sparire. Purtroppo è ancora attuale la mancata consapevolezza della connessione mente-corpo: spesso accade che il sintomo sia ricondotto semplicisticamente alla sua dimensione corporea, trascurando la natura psicologica insita nello stesso sintomo e le relazioni d’aiuto derivanti da un approccio di tipo psicologico. La depressione è la degenerazione di un individuo che è solo se stesso, di conseguenza, mai se stesso, come se corresse perpetuamente dietro alla propria ombra da cui è dipendente. La depressione oggi è una patologia del tempo, infatti, il depresso è privo di futuro, ma anche privo di energia; è difficile che il depresso formuli progetti, gli mancano le energie e le motivazioni per farlo. Inibito, impulsivo e compulsivo, egli comunica a fatica con se stesso e con il prossimo. La soluzione sarebbe forse nel tenersi per mano, in quel culto di fraternità come cura di sé e dell’altro. Carola Stancampiano Letizia Frasca Angela Di Bilio Dorotea Avanzato

Salvatore Rita Cataldo Mariateresa Albani...


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