Pensiero e poetica di Alessandro Manzoni PDF

Title Pensiero e poetica di Alessandro Manzoni
Author Noemi Galfano
Course Letteratura Italiana
Institution Università degli Studi di Parma
Pages 14
File Size 120.1 KB
File Type PDF
Total Downloads 76
Total Views 131

Summary

Riassunto dettagliata della poetica e del pensiero di Alessandro Manzoni...


Description

Pensiero e poetica di Alessandro Manzoni

Per poetica e pensiero di Alessandro Manzoni si intendono le convinzioni poetiche, stilistiche, linguistiche ed ideologiche che hanno delineato la parabola esistenziale e letteraria di Manzoni dagli esordi giacobini e neoclassici fino alla morte. Pensiero e poetica Dopo una fase iniziale di profondo legame con la tradizione letteraria settecentesca e l'illuminismo sensista del gruppo dei filosofi francesi degli Idéologues, Manzoni cambiò le proprie posizioni in seguito alla conversione al cattolicesimo del 1810, avvicinandosi al romanticismo e producendo, nel cosiddetto Quindicennio creativo, opere letterarie, poetiche, teatrali e saggistiche che cambieranno nel profondo la genetica della letteratura italiana e la sua stessa lingua letteraria, imponendosi come pietra miliare nella storia della letteratura italiana.

Gli esordi illuministi e neoclassici Alle scuole dei sacerdoti somaschi e barnabiti, Manzoni ricevette una formazione classica, basata sullo studio dei grandi classici latini e italiani: Virgilio, Orazio, Petrarca e Dante erano tra gli autori più studiati[1] [2], e il neoclassicismo allora imperante nella cultura letteraria italiana favoriva il radicamento nell'animo degli studenti. Il giovane Manzoni, infatti, ammirava i due massimi esponenti della cultura neoclassica: Giuseppe Parini, della cui morte rimase fortemente impressionato, e Vincenzo Monti, che fece visita agli studenti del collegio Longone[3], assorbendo da costoro quegli stilemi poetici che contraddistingueranno la sua poesia per tutti i primi anni dell'800, dal Trionfo della Libertà all'Urania[4]. Fortemente impregnato della tradizione dell'illuminismo lombardo (basti ricordarsi che Manzoni era nipote, per parte di Giulia Beccaria, del noto giureconsulto Cesare), Manzoni, in seguito alla formazione di circoli giacobini a Milano e al contatto con la tradizione illuminista più radicale[N 1], aderì fino agli ultimi anni del primo decennio dell'Ottocento a un illuminismo scettico nel campo della religione (associata alla negativa esperienza esistenziale ricevuta in collegio[5]), in cui predominava il valore per la libertà propugnata dagli ideali rivoluzionari[6][7]. Decisivi, per questa svolta, furono l'incontro a Milano con gli esuli napoletani Vincenzo Cuoco (che gli fece conoscere il pensiero filosofico di Vico)[8] e Francesco Lomonaco[9]; a Parigi, dal 1805 in avanti, con il gruppo degli Idéologues capeggiati da Pierre de Cabanis e da Claude Fauriel, intellettuali portavoce dell'eredità illuminista sensista e facenti capo ad Helvétius, Condillac, Voltaire e Rousseau[10] e attenti a certe istanze sociali quali l'attenzione verso gli ultimi[11].

Tra illuminismo e romanticismo Dopo la conversione

Francesco Rosaspina Giuseppe Parini, litografia del XVIII secolo. Parini, insieme alla tradizione illuminista lombarda, furono fondamentali per lo sviluppo della letteratura civile manzoniana, un apporto che non cessò (ma che si accentuò) dopo la conversione al romanticismo del Manzoni.

In seguito alla conversione del 1810, Manzoni ruppe con parte della cultura laica erede dell'illuminismo, mantenendone però gli aspetti più moderati. Infatti, la parabola poetico-letteraria del Manzoni, così come per gli altri romantici italiani, non propendette verso una totale rottura con la tradizione illuminista settecentesca. Al contrario, dopo il contatto con Fauriel e gli altri idéologues, Manzoni assorbì sì quei tratti caratteristici propri del nascente romanticismo (attenzione verso la natura, il mondo dei "piccoli", la spontaneità emotiva), ma li filtrò con gli apporti paideutico-educativi propri della lezione del Parini, del nonno Cesare Beccaria e di Pietro Verri[12]. A tutto ciò, si aggiunse la riscoperta dell'etica cristiana, comportante quella coralità poetica e quell'onnipresenza divina nell'anima del Creato che non annulla, ma rafforza in Manzoni il vincolo tra la ragione illuministica (fallimentare, dopo le esperienze rivoluzionarie e napoleoniche) e la necessità del credente di affidarsi a Colui che regola il mondo[13].

L'illuminismo manzoniano. Dagli esordi giacobini alla Lettera sul Romanticismo Seguendo fin dalla gioventù canoni dell'illuminismo milanese e dell'Accademia dei Trasformati[N 2], Manzoni si fece portavoce inoltre della figura dell'intellettuale impegnato civilmente, rimarcando l'aspetto etico che il letterato può assumere all'interno della comunità civile: questi, infatti, deve collaborare con il potere sulla via delle riforme per migliorare la condizione del popolo, come aveva fatto il Parini quarant'anni prima[N 3]. Questo tipo di letteratura impegnata moralmente la si riscontra in una lettera inviata a Fauriel nel 1806, dove un giovanissimo Manzoni si lamenta dello stato di decadenza della società italiana, cosa per cui «gli Scrittori non possono produrre l'effetto che eglino (m'intendo i buoni) si propongono, d'erudire cioè la moltitudine, di farla invaghire del bello e dell'util, e di rendere in questo modo le cose un po' più come dovrebbero essere»[14]. Questa concezione civile e morale della letteratura, oltre alle prove poetiche delle Odi civili del 1814 e del 1821, viene ripresa a livello nella più matura Lettera sul Romanticismo inviata al marchese Cesare d'Azeglio (1823)[15], in cui Manzoni ribadisce il valore sociale che un'opera d'arte letteraria deve avere come principale finalità:

«…mi limiterò ad esporle quello che a me sembra il principio generale a cui si possano ridurre tutti i sentimenti particolari sul positivo romantico. Il principio, di necessità tanto più indeterminato quanto più esteso, mi sembra poter esser questo: Che la poesia, e la letteratura in genere debba proporsi l'utile per iscopo, il vero per soggetto, e l'interessante per mezzo.»

(A. Manzoni, Lettera al marchese Cesare d'Azeglio) L'influenza romantica La coralità della poesia L'elemento romantico nella produzione poetica manzoniana emerge, per la prima volta, negli Inni Sacri, dove l'io del poeta si eclissa a favore di un'universalità corale che eleva il suo grido di speranza e la sua fiducia a Dio[16][17]. La conversione romantica, come sottolinea il critico Ezio Raimondi, nasce dalla conversione al cattolicesimo, fattore che «obbliga il Manzoni a una scelta radicale anche nei confronti della poesia», determinando un cambio di rotta rispetto al neoclassicismo dell’Urania[18].

La storia Oltre alla dimensione "ecclesiale" della religiosità manzoniana, non si può dimenticare l'apporto fondamentale della storiografia francese di Fauriel e degli altri ideologi. Costoro propugnavano, infatti, una storia non più incentrata sui grandi della storia, quanto sugli umili, i piccoli che non scemano nell'oblio del tempo perché non oggetto d'interesse da parte dei cronisti loro coevi e che sono oggetto di violenza da parte delle decisioni dei potenti[19][20]. Lo stesso vale, di conseguenza, per i fatti storici: la conoscenza di Augustin Thierry, avvenuta a Parigi tra il 1819 e il 1820, «rappresenta per Manzoni il campione della ricerca documentaria e filologica, in massima parte destinata alla scoperta di quella storia sociale che si prospettava essere un'affascinante novità intellettuale»[21][22]. Tale "storia sociale", indagata attraverso il metodo storico-filologico degli ideologues ed espressa nel Discorso sulla storia longobardica in Italia, vera e propria base storica per il dramma dell'Adelchi[23], troverà poi la massima espressione nel Fermo e Lucia e quindi ne I Promessi Sposi[24].

Per Manzoni, la storia ha un valore sacro[25]: essa non dev'essere modificata sulla base della necessità dell'ingegno poetico, ma deve coesistere con quest'ultimo senza che il corretto avvicendarsi degli avvenimenti venga modificato. Come infatti dichiarerà nella Lettera a Monsieur Chauvet:

«...l'essenza della poesia non consiste nell'inventare dei fatti. Questo genere di invenzione è quanto di più facile e di più insignificante esista nel lavoro della mente, e richiede ben poca riflessione e persino ben poca immaginazione. Perciò creazioni di questo genere si moltiplicano più che mai: mentre tutti i grandi monumenti poetici hanno a base avvenimenti tratti dalla storia, o...da ciò che un tempo è stato considerato come storia.»

(Manzoni, scritti di teoria letteraria, p. 109) L'oggetto poetico. Il vero poetico e il vero storico

Carlo Gerosa, Ritratto di Alessandro Manzoni, 1835 La dichiarazione poetica manzoniana non intende, però, scemare al contempo il valore dell'ingegno poetico. Infatti, poco più avanti nella trattazione, Manzoni pone l'ipotetica domanda su che cosa possa rimanere al poeta se gli si toglie l'inventio di creare il substrato della vicenda[26], dando come risposta la sua definizione di che cosa fosse la poesia:

«...la poesia: si, la poesia. Perché, alla fin fine, che cosa ci dà la storia? ci dà avvenimenti che, per così dire, sono conosciuti soltanto nel loro esterno: ci dà ciò che gli uomini hanno fatto. Ma quel che essi hanno pensato, i sentimenti che hanno accompagnato le loro decisioni e i loro progetti, i loro successi e i loro scacchi; i discorsi coi quali hanno fatto prevalere, o hanno tentato di far prevalere, le loro passioni e le loro volontà su altre passioni o su altre volontà, coi quali hanno espresso la loro collera, han dato sfogo alla loro

tristezza, coi quali, in una parola, hanno rivelato la loro personalità: tutto questo, o quasi, la storia lo passa sotto silenzio; e tutto questo è invece dominio della poesia.»

(Manzoni, scritti di teoria letteraria, pp. 111-112) Con tale dichiarazione di poetica, Manzoni delinea definitivamente il limite che separa i due ambiti di cui deve trattare il poeta e che saranno alla base del romanzo: il vero poetico e il vero storico. Il primo «deve indagare sui sentimenti con cui gli uomini vivono gli avvenimenti e su quegli aspetti della storia che sfuggono alla storiografia vera e propria»[27]; il secondo, è il materiale storico, oggettivamente vero e storicamente indagabile, quel «vero per soggetto» ricordato nella Lettera sul romanticismo.

Se il soggetto, dunque, dev'essere il vero, non ci può essere spazio per la mitologia finora utilizzata nel campo della poesia[N 4][28]. Non soltanto perché ciò contraddirebbe i principi poco prima espressi sul vero storico, ma la stessa base etico-religiosa di chi si professa cristiano, come rileva Cesare Goffis riguardo al mutamento d'opinione del giovane Manzoni verso l'Urania[29]. Manzoni e il Romanticismo italiano All'ombra della querelle tra romantici e classicisti Gli anni successivi alla conversione furono assai significativi per il panorama letterario e culturale italiano. L'Italia, ancora ancorata a una salda tradizione classicista grazie ai magisteri passati di autori quali Parini e Alfieri, e attuali quali quello del Monti, fu costretta a confrontarsi con la nuova temperie romantica europea. Nel gennaio del 1816, infatti, l'intellettuale francese Madame de Staël pubblicò, sul primo numero del giornale letterario la Biblioteca Italiana, un articolo intitolato Sulla maniera e l'utilità delle traduzioni, in cui attacca l'ostinato ancoraggio degli italiani a una vacua retorica, ignorando invece le novità letterarie provenienti dalla Germania e dall'Inghilterra[30][31]. Alla successiva querelle tra classicisti (capeggiati da Pietro Giordani) e romantici (tra i quali spiccano Ludovico di Breme e Giovanni Berchet), Manzoni non partecipò attivamente. Benché fosse apertamente dalla parte dei romantici (l'ode L'ira di Apollo testimonia, in chiave ironica, l'ira del dio della poesia pagano per essere stato escluso dai testi poetici) e partecipasse alla Cameretta letteraria animata da Ermes Visconti, Gaetano Cattaneo, Tommaso Grossi e, soprattutto, dal poeta dialettale Carlo Porta[32][33], Manzoni si rifiutò di collaborare apertamente sia alla Biblioteca Italiana che al successore della prima rivista, Il Conciliatore. Oltre all'interesse sempre crescente per la formulazione di una poetica cristiana e l'inizio delle indagini sul genere teatrale, furono determinanti anche la nevrosi depressiva che colpì Manzoni, per la prima volta, nel 1810 (in occasione dello smarrimento di Enrichetta) e, in modo sempre più debilitante, negli anni successivi: disturbi agorafobici, attacchi di panico, svenimenti e difficoltà a parlare in pubblico avevano minato i suoi rapporti interpersonali, costringendolo a una vita tranquilla e ritirata nei suoi possedimenti di Brusuglio o nella quiete del suo palazzo milanese[34].

I rapporti con Porta e la Cameretta Per tutti gli anni dieci, fino alla morte improvvisa del Porta, Manzoni non fu quindi l'unico esponente del romanticismo italiano. Il dinamismo divulgativo e critico di un Ludovico di Breme e la prolissità con cui un Porta esprimeva il cuore del popolo meneghino nel suo dialetto, senza dimenticarsi del teorico del gruppo

romantico ruotante attorno al Conciliatore, Ermes Visconti[35], fiancheggiavano il laboratorio creativo del Manzoni.

Ritratto del poeta milanese Carlo Porta (1774-1821), in un pastello del Bruni (1821), riportato in Raffaello Barbiera, Carlo Porta e la sua Milano, G. Barbera, Firenze 1921. Quest'ultimo ebbe, nonostante i problemi di salute prima esposti, dei legami di stima con i romantici lombardi, in special modo quei letterati che erano soliti frequentare abitualmente Carlo Porta in casa sua: Gaetano Cattaneo, Giovanni Torti, Tommaso Grossi, Luigi Rossari e il pittore e scrittore Giuseppe Bossi[36]. Fu il Bossi a presentare Manzoni a questi intellettuali, ma l'autore degli Inni Sacri, benché mantenesse rapporti amichevoli con loro, non aderì mai ufficialmente al gruppo, specialmente per il progetto linguisticoletterario portato avanti dal Porta, antitetico alla ricerca linguistica manzoniana e mai apprezzato dal Manzoni[37][38]. Il giudizio più esplicativo sul Porta lo si trova nella lettera del 29 gennaio 1821, inviata a Fauriel in cui, tra le altre cose, si ricorda anche la dipartita del poeta dialettale e la sua eredità:

(FR) «Vous trouverez un petit discours de M. Grossi qui vous announcera la perte que nous venons de faire de M. porta. Son talent admirable, et qui se perfectionnait de jour en jour, et à qui il n'a manqué que de l'exercer dans une langue cultivée pour placer celui qui la possède absolument dans les premiers rangs le fait regretter par tous ses concitoyens; le souvenir de ses qualités est pour ses amis une cause de regrets encore plus douloureux.»

(IT) «Voi troverete un piccolo discorso del Signor Grossi che vi annuncerà della perdita che noi abbiamo appena avuto del Signor Porta. Il suo talento ammirabile, che si perfezionava di giorno in giorno, e che non ha scarseggiato di esercitare in una lingua coltivata per piacere a chiunque la possiede da madrelingua, lo fece rimpiangere da tutti i suoi concittadini; il ricordo delle sue qualità è per tutti i suoi amici una causa di rimpianto ancora più doloroso.»

(Manzoni, lettere, p. 323) L'imporsi del romanticismo "manzoniano" La morte del Porta non fu l'unico colpo che il romanticismo lombardo subì in quel periodo. Il Conciliatore, i cui articoli assumevano sempre più un tono politico di stampo liberale, fu chiuso nell'autunno del 1819. Le morti di Ludovico di Breme (15 agosto 1820), considerato il "ponte" tra il romanticismo lombardo e quello europeo[39][40], e del Porta (5 gennaio 1821), privarono il romanticismo lombardo di due importantissime figure letterarie. Infine, la repressione dei moti carbonari del 1820-1821 videro coinvolti alcuni "romantici": Giovanni Berchet, costretto all'esilio per non cadere in mano della polizia austriaca, e Silvio Pellico,

incarcerato nello Spielberg. Il vuoto generatosi lasciò solo Manzoni, ormai sulla strada del romanzo, e alcuni membri della vecchia cameretta, come per esempio Tommaso Grossi, che diventerà amico intimo del Manzoni e del quale tenterà di seguirne le fortune letterarie. L'esaurimento della polemica classicoromantica e il progressivo instaurarsi del romanticismo di stampo manzoniano negli anni venti determinerà un percorso univoco della letteratura lombarda di quel periodo[41].

Il cattolicesimo manzoniano La religione e il "pessimismo" esistenziale

Jacques-Bénigne Bossuet (1627 – 1704) fu uno dei più importanti predicatori francesi del grand siècle, uno dei modelli fondamentali per la religiosità manzoniana Persa, all'inizio dell'Ottocento, la speranza di raggiungere la serenità per mezzo della ragione, la vita e la storia gli parvero romanticamente immerse in un vano, doloroso, inspiegabile disordine: bisognava trovare un fine salvifico che potesse aiutare l'uomo sia a costituire un codice etico da praticare nella vita terrena, sia a sopportare i mali del mondo in previsione della pace celeste[42]. Il critico Alessandro Passerin d'Entrèves sottolinea l'importanza che ebbero Blaise Pascal e i grandi moralisti francesi del Seicento (Bossuet) nella formazione religiosa del Manzoni: da essi l'autore aveva attinto l'ambizione a conoscere l'animo umano e «la convinzione che il cristianesimo è l'unica spiegazione possibile della natura umana, che è stata la religione cristiana che ha rivelato l'uomo all'uomo»[43], trovando nei loro insegnamenti quella fiducia nella religione come strumento di sopportazione dell'infelicità umana. Gino Tellini riassume in modo assai esplicativo la concezione manzoniana della religiosità:

«Non basta a Manzoni la certezza d'una grazia salvatrice che rinvia all'aldilà il premio per le sofferenze ingiustamente patite nel mondo. Avverte invece il bisogno, qui e ora, d'un oggettivo parametro di giudizio, come un appiglio di salvezza su questa terra: onde la necessità di stabilire un sistema assoluto di valori etici che valga da guida e insieme da rigoroso metro valutativo d'ogni azione umana.»

(Tellini, p. 109) Il pessimismo di Manzoni e quello di Leopardi a confronto Magnifying glass icon mgx2.svg Lo stesso argomento in dettaglio: Pensiero e poetica di Giacomo Leopardi. La fiducia in Dio è il punto di distacco dal pessimismo propugnato da Giacomo Leopardi. Entrambi gli scrittori sono assertori della violenza che colpisce l'uomo nel corso della sua esistenza, ma la differenza verte sulla speranza ultima cui l'uomo è destinato: se per Leopardi, come esplicato nel Dialogo della natura e di un islandese, il ciclo esistenziale del mondo è destinato a risolversi in un ciclo meccanico di distruzione e morte[N 5], Manzoni riesce a non cadere in questo pessimismo "cosmico" grazie alla fiducia che pone nella Provvidenza divina[44]. Carlo Bo sintetizza questo abisso in poche righe:

«Altro punto di possibile confronto con il Leopardi - ché lui, sì, è inventore di ricette sull'infelicità dell'uomo -: il Manzoni non è affermativo, eppure là dove l'onda della commozione sembra tenerlo, ecco che non toglie la luce della nostra invincibile fragilità e della lotta, dal combattimento che avviene dentro di noi fra il bene e il male.»

(Bo, pp. 22-23) Alcuni versi e alcune scelte stilistiche dellOgnissanti, frammento manzoniano del 1847 e ultimo degli Inni sacri (seppur non completato), sono stati messi in contrapposizione con l'immagine finale della Ginestra di Leopardi:

Manzoni, Ognissanti, vv. 17-28

A Quello domanda, o sdegnoso, Perché sull’inospite piagge, All’alito d’aure selvagge, Fa sorgere il tremulo fior,

Che spiega dinanzi a Lui solo La pompa del candido velo, Che spande ai deserti del cielo Gli olezzi del calice, e muor.

E voi che, gran tempo, per ciechi Sentier di lusinghe funeste Correndo all’abisso, cadeste In grembo a un’immensa pietà [...]

Leopardi, La ginestra o il fiore del deserto, vv. 297-301; 304-317

E tu, lenta ginestra,

che di selve odorate queste campagne dispogliate adorni, anche tu presto alla crudel possanza soccomberai del sotterraneo foco [...] E piegherai sotto il fascio mortal non renitente il tuo capo innocente: ma non piegato insino allora indarno codardamente supplicando innanzi al futuro oppressor; ma non eretto con fors...


Similar Free PDFs