Riassunto \"la questione meridionale in breve\" G. Pescosolido PDF

Title Riassunto \"la questione meridionale in breve\" G. Pescosolido
Author sarah lazzarini
Course Lettere moderne
Institution Sapienza - Università di Roma
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Il documento è un riassunto delle informazioni più importanti del libro. La terminologia utilizzata è quasi interamente quella del libro....


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Considerazioni di Pescosolido sulla questione meridionale: 1) La condizione creatasi nel 1861 nello Stato unitario fu per il popolo italiano migliore e più progressiva dal punto di vista non solo politico istituzionale, ma anche economico, sociale e civile, di quella sino allora vissuta all’interno degli antichi Stati preunitari, nessuno escluso, sia pure con una gradualità diversificata nelle realizzazioni e nei benefici tratti nel corso dei successivi 150 anni; 2) il Mezzogiorno è stato parte integrante dello sviluppo capitalistico nazionale, e il mercato meridionale decisivo ai fini dell’avvio e del consolidamento dell’industrializzazione del Nord, in particolar modo dall’Unità almeno fino alla seconda guerra mondiale; 3) nel secondo dopoguerra, in regime di liberalizzazione dei mercati e di globalizzazione, il peso del mercato meridionale si è attenuato, ma non è stato mai irrilevante. Esso resta ancora oggi essenziale per lo sviluppo dell’economia settentrionale, se è vero che «recenti analisi della Banca d’Italia mostrano come il Sud rappresenti un mercato di sbocco fondamentale della produzione nazionale, pari a oltre un quarto di quella del Centro-nord, oltre tre volte il peso delle esportazioni negli altri paesi della Ue. Inoltre, circa il 40% della spesa per investimenti al Sud attiva produzione nel Centro-Nord». Ciò significa che la mancata ripresa del Sud rischia di compromettere la stessa ripresa nazionale, come ammoniva nel lontano 1958 Rosario Romeo quando affermava che l’arretratezza del Mezzogiorno sarebbe potuta divenire un fattore di rallentamento dello sviluppo capitalistico dell’intero paese.

I. Un problema antico e irrisolto Questione meridionale: insieme di problemi posti dall’esistenza all’interno dello Stato italiano di una vasta area corrispondente grosso modo alle regioni dell’ex Regno delle Due Sicilie, la quale ha presentato sin dalla nascita dello Stato unitario e presenta tutt’ora rispetto al Centro-nord un più debole sviluppo economico, uno svolgimento meno avanzato dell’insieme delle relazioni sociali, un più basso livello di importanti aspetti della vita civile. + pregiudizio reciproco tra nord e sud, che è mutato in avversione.  ne consegue un indebolimento del sentimento di appartenenza ad uno stato unitario. (letture razzistiche di Niceforo e Lombroso, Banfield e Putnam  meridione senza civiltà) Nel progetto risorgimentale di unificazione della penisola il Regno di Sardegna era fondamentale, ma fu causa di problematiche politico-istituzionali. Il regno delle due sicilie era favorevole all’unificazione, in quanto la riteneva l’unico mezzo per superare l’arretratezza del meridione. Il meridionale Pasquale Stanislao Mancini, che giocò un ruolo decisivo nel convincere Cavour a liquidare la luogotenenza del titubante Luigi Carlo Farini e ad accelerare i tempi dell’unificazione istituzionale, legislativa, amministrativa, al fine di bloccare sul nascere le crescenti spinte centrifughe e imprimere al processo di modernizzazione quell’energia che era del tutto mancata nel regime borbonico dell’ultimo quindicennio preunitario. Giustino Fortunato  “due italie” caratterizzate da diversificate geomorfologie e sistemi economico-sociali, che l’azione, o l’inazione, del governo aveva contribuito ben poco ad avvicinare, equiparare e tanto meno amalgamare

Gaetano Salvemini, e successivamente Guido Dorso e Antonio Gramsci sostennero che la soluzione della «questione» la si poteva trovare solo con una trasformazione dal basso degli equilibri politico-sociali (Salvemini proponeva un assetto federale). Del tutto politico-istituzionale fu la natura del movimento separatista siciliano del 1943-47 e della connessa concessione all’Isola dell’autonomia a statuto speciale. Nonostante la questione meridionale non è mai stata effettivamente risolta, l’economia del sud, nel corso degli anni è molto migliorata.

II. La nascita: due differenti livelli di arretratezza La questione meridionale nacque solo con lo Stato Unitario, nonostante ciò, si sarebbe continuato a indagare sulla condizione economica, sociale, civile, politica, del Regno delle Due Sicilie, anche mettendola in toto o in parte a confronto con quella di altri Stati, come sin dal Seicento aveva fatto esplicitamente il cosentino Antonio Serra, il primo a riscontrare un’inferiore capacità del Regno di Napoli di creare ricchezza e accumulare metalli preziosi rispetto agli altri Stati italiani ed europei; o come avevano fatto nel Settecento celebri illuministi come Antonio Genovesi, Gaetano Filangieri, Ferdinando Galiani, Giuseppe Maria Galanti, Eleonora de Fonseca Pimentel, e nell’Ottocento studiosi come Luigi Blanch o Matteo de Augustinis. Luigi Carlo Farini a Cavour, «Altro che Italia. Questa è Affrica: i beduini, a riscontro di questi caffoni [sic], son fior di virtù civile» Debolezza politica e arretratezza economica sono da associare a tempi lontani e dipendevano sia da cause interne che esterne.  



Piano militare e politico  fine del XV secolo con la discesa di Carlo VIII di Francia e l’inizio dell’età delle preponderanze straniere nella penisola Piano economico-sociale  prima metà del XVII secolo, con l’affermazione dei grandi imperi coloniali. In particolare, il divario economico tra Italia ed Europa avanzata, la situazione era diventata veramente grave dalla fine del Settecento in poi con l’industrializzazione. Piano delle risorse energetiche essenziali per l’industrializzazione  Italia nettamente inferiore

Le classi politiche e dirigenti risorgimentali erano riuscite con la proclamazione del Regno d’Italia a ridurre drasticamente l’inferiorità politica e militare rispetto all’Europa, conquistando l’indipendenza e l’Unità. Il governo si trovava però di fronte a un’arretratezza della società italiana nei processi di modernizzazione civile. Fu anche per questo che uomini politici meridionali come Mancini, Spaventa, Crispi ritennero possibile il riscatto economico-sociale del Mezzogiorno solo nel contesto di quello dell’intera economia nazionale. Nel 1861, mentre la situazione italiana era mutata di poco per il cotone e rimasta sostanzialmente immutata per il ferro, i due principali rami dell’industria inglese erano giunti a una produzione notevolmente superiore rispetto a quella italiana: la cotoniera di almeno 66 volte e la siderurgica di 123 volte. L’Italia aveva posizioni di primato su scala europea erano quelli dell’estrazione dello zolfo, di cui la Sicilia deteneva il monopolio mondiale, e della seta greggia, per l’80% circa dislocata nel Centro-nord e il 20% nel Sud. Tuttavia la produzione dello zolfo veniva quasi integralmente esportata. Non ingannino dunque i dati del censimento del 1861 sugli occupati, che registrano per l’Italia un numero di addetti alle attività industriali superiore ai 3 milioni. Quei dati si riferivano non solo agli occupati in senso stretto nell’industria, ma a quelli dell’insieme delle attività secondarie, comprendenti gli artigiani delle città

e, specie nel Sud, tutto l’esercito di agricoltori di ogni tipo, incluse le donne, impegnati nell’industria a domicilio nei periodi morti dei lavori campestri. Al Nord come al Sud, a metà Ottocento le aspettative medie di vita erano di circa 32 anni, con tassi di natalità del 37,6‰ e mortalità del 30,3‰. Molto basso in Italia era anche il livello dell’istruzione elementare, con un tasso di analfabetismo medio della popolazione in età scolare del 75%. Inoltre, il boom demografico causò una maggiore necessità di risorse, che l’Italia non aveva. Per cui, l’alimentazione rimase legata a pochi generi alimentari e soprattutto poco calorici e proteici. Alla crescita del fabbisogno alimentare conseguente alla bomba demografica l’Italia fino all’Unità aveva fatto fronte grazie a un incremento della produzione agraria ottenuto soprattutto con l’estensione delle colture sia arboree sia erbacee a danno di boschi, paludi, pascoli permanenti, anche se poco o punto grazie a incrementi di produttività della cerealicoltura. La stessa struttura urbana dell’Italia settentrionale, certo più forte e omogenea di quella meridionale, non era connotata da alcun rilevante fenomeno di urbanizzazione di tipo industriale. L’Italia era tutta arretrata, ma tra nord e sud c’erano due diversi livelli di arretratezza. La conclusione prevalente, ma non unanime, è che il divario tra nord e sud non fosse così accentuato come descritto. Pescosolido: mi sembra dunque di poter concludere che nel settore industriale il divario tra Nord e Sud non aveva al momento dell’Unità grande rilievo, perché l’insieme dell’apparato industriale italiano era ancora poca cosa e incideva quindi nella formazione del Pil assai meno di quanto incideva nei paesi industrializzati e di quanto avrebbe inciso nella stessa Italia quando, a partire dagli anni ottanta dell’Ottocento, nel Settentrione cominciò a prendere quota un autentico sistema di grande industria. Perdono quindi del tutto significato le proposte interpretative che teorizzarono una sorta di inferiorità socio-antropologica dell’imprenditore meridionale rispetto al modello anglo-europeo. La tardiva industrializzazione della penisola e non solo del Mezzogiorno resta quindi consegnata a ragioni di ordine naturale (soprattutto carenza di fonti energetiche) e politico, che facevano del Sud a metà Ottocento un’area arretrata sia nell’industria che nei trasporti terrestri e marittimi, e che aveva peraltro accumulato il grosso del suo ritardo soprattutto nel mezzo secolo precedente l’Unità. Nel determinare quindi l’entità del divario nel Pil pro-capite nel 1861 il fattore decisivo non era l’industria, ma l’agricoltura – che su scala nazionale forniva il 58% del Pil e assorbiva circa il 60-70% degli occupati – e in seconda battuta le attività terziarie. Secondo Eckaus, il dislivello fosse di almeno il 20% a favore del Nord nella produzione agraria e del 15-25% nel Pil pro-capite. Controllando tuttavia i dati dell’Annuario statistico italiano del 1864, sui quali in larga misura l’Eckaus poggiò le sue stime, e le fonti dalle quali l’Annuario aveva attinto i dati relativi al Mezzogiorno, si può agevolmente rilevare che la produzione agricola del Mezzogiorno fu in più di un settore o sottovalutata (in particolare nella consistenza del patrimonio zootecnico) o del tutto ignorata (in una serie di produzioni tipiche meridionali), per cui, considerato anche che la produzione di cereali per abitante era nel Nord di 2,58 ettolitri, nel Centro-nord di 2,55 e nel Sud di 3,31 ettolitri, con una superiorità del Sud del 30% rispetto al Centro-nord, il divario nel reddito agricolo pro-capite negli anni intorno all’Unità di sicuro non poteva essere del 20% a favore del Nord come stimava l’Eckaus. Quanto al regime alimentare della popolazione, differenze di un qualche rilievo tra Nord e Sud si potevano individuare solo nelle masse cittadine, mentre tra quelle rurali, che erano la maggioranza, l’estrema povertà della dieta in tutta la penisola, aggravata dall’aumento demografico ormai secolare, lasciava intravedere addirittura una lieve maggiore varietà di principi nutritivi nel Mezzogiorno.

Nord prevalentemente manifatturiero e finanziario e un Sud eminentemente agricolo, esistita sin dal basso medioevo, si era drasticamente attenuata a partire dal Seicento; nel 1861 le due aree si trovavano entrambe ai primordi di un’industrializzazione quasi tutta da realizzare. Secondo Pescosolido, il divario nel Pil pro-capite non superava nel 1861 il 10% e le differenze di prodotto agricolo il 6-7% il brigantaggio si diffonde soprattutto al Sud, poiché, oltre ai livelli di produzione e reddito influivano anche e soprattutto altri fattori, quali la diversa tipologia dei rapporti di produzione e della struttura sociale, e il diverso livello di sviluppo infrastrutturale e civile in genere, che erano entrambi strettamente collegati alla diversità nelle scelte di politica economica e sociale effettuate dagli Stati preunitari. Nel Nord le campagne portavano segni più estesi e profondi dell’intervento dell’uomo. Le distese latifondistiche del Sud dedite alla cerealicoltura asciutta erano invece quasi del tutto prive di alberi e abitazioni, ed erano ancora nettamente più estese delle aree costiere meridionali dedite alle colture specializzate dell’olio, della vite, degli agrumi, che pure si erano allargate durante la prima metà dell’Ottocento, assumendo forme più avanzate di organizzazione capitalistica della produzione e del commercio. I contadini meridionali, a differenza della popolazione rurale del Centro-nord, abitavano per lo più in grossi borghi, anche di 5-10 000 abitanti, dai quali uscivano ogni giorno per recarsi al lavoro nei campi del latifondo e rientrarvi a sera. Inoltre, le pianure costiere erano per lo più paludose e malariche. Giustino Fortunato più di tutti mise l’accento sul progressivo dissesto idrogeologico oltre che sulla naturale povertà del territorio meridionale, individuandovi una delle cause fondamentali della sua miseria e arretratezza. Diverso era anche il panorama della struttura urbana, relativamente più forte e omogenea nell’Italia centrosettentrionale, dove le città erano più numerose e vi era una prevalente fisionomia artigianale, commerciale e finanziaria che il più delle volte risaliva all’età medievale. Come abbiamo già detto, sia a Nord che a Sud mancavano città industriali con un grande proletariato, ma nell’insieme la struttura sociale delle piccole e medie città del Nord aveva una più accentuata connotazione borghese e produttiva rispetto a quella delle città della Sicilia e soprattutto del Mezzogiorno continentale. Importante la differenza tra Nord e Sud nelle relazioni sociali e nei rapporti di produzione esistenti nelle campagne al momento dell’Unità. Giuseppe Bonaparte avviò una politica di eversione del feudalesimo nel 1806, tuttavia il panorama rurale meridionale al momento dell’Unità si presentava ancora dominato dal latifondo, sia pure borghese e non più feudale, e dalla microproprietà contadina non autosufficiente, entrambi collegati alle tecniche più arcaiche di sfruttamento della terra. Mentre nel Centro-nord, con l’eccezione del Lazio, erano decisamente più avanzati in senso capitalistico i rapporti di produzione e più estesa la presenza del medio e piccolo possesso terriero. La storiografia ha molto e opportunamente insistito, giungendo a collocare l’origine prima della diversità del Mezzogiorno rispetto al Nord nell’epoca normanno sveva, quando fu introdotto il feudalesimo e schiacciata l’autonomia delle città meridionali, mentre nel Nord si affermava la precoce e definitiva indipendenza politica dei Comuni, perpetuatasi poi nelle Signorie e negli Stati regionali dell’età moderna. L’eversione del feudalesimo e le altre misure prese nella prima metà dell’Ottocento a favore della piena affermazione dell’individualismo agrario a scapito dei diritti comunitari e collettivi avevano contribuito ad avvicinare il regime giuridico della proprietà fondiaria del Sud a quello vigente nel Nord, ma contestualmente avevano generato uno stato di tensione sociale nelle campagne meridionali che non esisteva nel Nord, o non esisteva nelle forme esasperate e tragiche che esso assunse nel Mezzogiorno nel 1860-61. Il brigantaggio fu dunque guerra civile tra meridionali (cafoni contro galantuomini e mafie a loro difesa) prima che ribellione aperta contro il nuovo ordine nazionale.

La premessa fondamentale della sollevazione che sottrasse per anni al controllo delle forze dell’ordine vaste zone del Mezzogiorno con punte di adesione altissima in Basilicata, Puglia, Calabria, stava nel malessere delle popolazioni rurali (non mi risultano briganti ex-artigiani o ex-operai e se vi furono numericamente irrilevanti), esasperate dall’iniqua distribuzione delle terre ex-feudali e demaniali, dall’usurpazione vera e propria che di larga parte di queste era stata fatta dalla vecchia e nuova borghesia, dalla contestuale perdita degli usi civici non compensata da adeguata assegnazione di terre in un contesto sociale connotato da una persistente polarizzazione della proprietà fondiaria e da un quadro dei rapporti di produzione fortemente arretrato. Il divario maggiore lo si riscontrava tuttavia nel sistema dei trasporti. La rete stradale del Centro-nord, secondo valutazioni recenti, sarebbe stata di circa 75 500 chilometri contro i 14 700 del Meridione e delle Isole, per una densità di 626 chilometri/1000 chilometri quadrati contro 10845. Dei 1828 comuni del Napoletano, 1431, nel 1861, erano privi di strade carrozzabili. In Sicilia il rapporto era di 182 su 358. Ma ancor più grave era l’inferiorità nella dotazione di strade ferrate, che costituivano, a livello europeo e mondiale, il mezzo di modernizzazione per eccellenza del sistema dei trasporti.

III. Nello Stato unitario: il Sud soffre ma il divario non cresce Con l’Unità il Sud entrò a far parte di uno Stato portatore di un progetto di rinnovamento politico, istituzionale, economico e sociale, nettamente più ambizioso e dinamico di quello incarnato dal modello di Stato e di società del caduto regime borbonico. E mentre i sacrifici richiesti erano immediati, gli effetti positivi del nuovo modello richiedevano tempi medio lunghi per essere significativamente percepiti. Nel Sud la delusione e la resistenza al nuovo ordine furono quindi diffuse. Lo scontento e il malessere erano estesi a un’area più ampia di quella delle campagne e coinvolgevano parte dei centri urbani e del mondo delle manifatture e dell’artigianato, insofferenti sia all’adozione di un sistema fiscale che, se non fu pedissequamente quello piemontese, di questo attuava comunque gli indirizzi dottrinari di fondo, sia all’estensione al Mezzogiorno a partire dal 1° gennaio 1861 del regime doganale liberista che significò l’abbattimento dall’oggi al domani dell’80% della barriera protettiva rispetto alla concorrenza estera. Il malessere economico del Sud nei primi decenni postunitari non ebbe origine tanto da un trasferimento di risorse dal Sud al Nord. Questo non ebbe le dimensioni macroscopiche denunciate dai meridionalisti e fu in gran parte compensato da un consistente impegno dello Stato unitario nella realizzazione di opere pubbliche e in particolare nella costruzione di ferrovie, che, come vedremo, portarono il Mezzogiorno a recuperare sensibilmente sin dal primo ventennio postunitario il ritardo accusato al momento dell’Unità. Esso ebbe origine soprattutto dal ricordato aggravamento del carico fiscale e dagli effetti del brigantaggio, oltre che dall’introduzione del libero scambio con l’estero, ma in questo caso in misura meno accentuata. Nel 1861 la tariffa liberista, che comportò l’improvviso abbattimento della cinta daziaria meridionale, mise infatti subito in crisi buona parte del già modesto apparato industriale meridionale. Nonostante le perdite registrate nella parte meno competitiva e più arretrata delle attività secondarie, data anche la loro non grande rilevanza, il settore più penalizzato dell’economia meridionale fu sicuramente quello della marina mercantile napoletana, e lo fu anche a causa delle politiche di concessione delle licenze di navigazione a vapore da parte dello Stato italiano. Nel 1861 il Centro-nord registrava un tonnellaggio di navi in approdo (in partenza erano più o meno equivalenti) superiore a quello del Mezzogiorno. Nel 1881 Genova aveva in effetti preso il sopravvento su Napoli sia nei bastimenti approdati, sia nella quantità della

merce sbarcata, ma nell’insieme dei bastimenti approdati e partiti nelle due macroaree la situazione era nettamente capovolta a favore del Mezzogiorno. Le battute d’arresto delle attività secondarie furono comunque ampiamente compensate da un miglioramento quantitativo e qualitativo della produzione agricola meridionale senza precedenti. La politica commerciale liberista permise infatti al Mezzogiorno di partecipare alla crescita dell’agricoltura nazionale con una moderata espansione, o comunque con una tenuta, della coltura dei cereali, ma soprattutto con una vivacissima estensione delle colture specializzate. Se, nel conto del dare e dell’avere nel «matrimonio unitario» tra Nord e Sud, i vantaggi maggiori per il Nord derivarono in misura molto contenuta dallo spostamento di capitali attraverso la leva della finanza pubblica, ben più im...


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