94258-Brevini, Tessa - L’è el dì di Mort, alegher! PDF

Title 94258-Brevini, Tessa - L’è el dì di Mort, alegher!
Author Giada Meroni
Course Letteratura italiana
Institution Università degli Studi di Bergamo
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L’è el dì di Mort, alegher!...


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L’è el dì di Mort, alegher! De là del mur di Delio Tessa franco brevini

1. Genesi e storia. 1.1. «Una vergogna della critica italiana». Un lettore raffinato come Pietro Paolo Trompeo, non certo sospettabile di tendenziosità meneghina, scriveva nel 1950 che se è necessario studiare il greco per leggere Saffo, bisogna imparare il milanese per capire Tessa1. Il lusinghiero apprezzamento dell’illustre francesista romano riesce quanto mai caratteristico della critica tessiana: isolati, autorevoli giudizi, provengano essi da Croce o da Pasolini, da Linati o da Mengaldo, da Fortini o da Isella, campeggianti in un panorama di generale indifferenza. Tanto che ancora nel 1978, presentando Tessa nella benemerita antologia Poeti italiani del Novecento, Mengaldo poteva denunciare nel «disinteresse per questo poeta, uno dei più grandi del nostro Novecento senza distinzione di linguaggio, una vergogna della critica italiana»2. È noto come nel corso degli anni Sessanta-Settanta si sia consumata la crisi della vecchia storiografia letteraria fondata sulle riviste e sui gruppi, all’origine del primato accordato alla linea novecentesco-ermetica, dalla «Voce» a Ungaretti. La ripresa di interesse verso Tessa, culminata nella fondamentale edizione critica delle poesie allestita da Dante Isella nell’85, si colloca in quel clima di rinnovamento degli studi. Si rendeva finalmente possibile, come annotava Fortini nel 1977, il recupero di quanto di espressionistico, plurilinguistico e dialettale si è manifestato negli scorsi sessant’anni3. Eppure, se oggi le poesie di Tessa tornano a essere accessibili, dopo una lunga assenza dalla scena editoriale, se nessuno dubita più del valore del poeta milanese, la sua opera stenta ancora a trovare un’adeguata considerazione critica. Continuano infatti a mancare, non si dice una buona monografia, ma indagini più ravvicinate dei suoi testi. Per non di-

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re di vistose discriminazioni tuttora vigenti nel dosaggio degli spazi anche all’interno di pregevoli opere manualistiche: a fronte delle molte pagine riservate a figure pur rilevanti come Saba, Ungaretti e Montale, liquidare Tessa in una paginetta, come accade in una certa storia letteraria, pare francamente un po’ riduttivo. Una responsabilità nella scarsa sollecitudine della critica verso l’opera di Tessa, almeno fino all’edizione Isella4, è spettata tuttavia al cattivo stato delle stampe. Per decenni i suoi libri sono risultati introvabili. Tessa è autore dalla vena non copiosa: il corpus della sua produzione in versi, quale è consegnata al volume einaudiano dell’85, L’è el dì di Mort, alegher! De là del mur e altre liriche, comprende solo trentanove testi distribuiti in un arco di tempo di circa un trentennio. Ma soprattutto Tessa mostrò, almeno inizialmente, una singolare reticenza alla pubblicazione dei suoi versi5. Sappiamo che il primo e unico volume che vide la luce vivente l’autore, L’è el dì di Mort, alegher! («È il giorno dei Morti, allegri!»), apparve da Mondadori nel 19326 solo dietro le insistenze dell’amico Luigi Rusca, ai tempi direttore generale della casa milanese («el Rusca col me liber», come ha ricordato Isella, è uno degli

Delio Tessa Nato il 18 novembre 1886 a Milano, compie gli studi presso il liceo Beccaria; nel 1911 si laurea in giurisprudenza presso l’Università di Pavia. Aveva cominciato, nel frattempo, a dedicarsi alla poesia, mostrando anche vivo interesse per il cinema e la musica; negli stessi anni (1909-12) si innamora di una giovane pianista, una passione avversata dalla famiglia di lei e di cui porterà memoria lungo il corso della sua vita. Mentre frequenta l’Accademia scientifico-letteraria, di cui segue le lezioni di filosofia, intraprende la carriera legale, esercitando la professione di avvocato e di giudice conciliatore. Non riuscendo a ricavarne guadagni sufficienti, decide di affiancarvi, dagli anni Trenta in poi, l’attività giornalistica, dapprima svolta in collaborazione con la stampa locale, poi, dal 1935, con alcuni giornali ticinesi – per i quali scrisse anche di critica cinematografica – e con la Radio della Svizzera italiana. L’anno successivo, inoltre, iniziò a collaborare all’«Ambrosiano», dove comparvero in quel periodo gli articoli di importanti letterati del tempo: Tessa volle intitolare le sue cronache, che descrivevano la vita cittadina, Ore di città (pubblicate postume nel 1984 a cura di Dante Isella). La sua cultura letteraria risentí fortemente dell’influenza della lezione dei grandi poeti milanesi, anzitutto di Porta, dei cui versi fu pubblico declamatore; altri debiti espressivi contrasse con le tendenze decadentiste degli ambienti letterari della città e con la scapigliatura. Improntò la sua poesia all’osservazione e alla rappresentazione della vita popolare, da cui ricavò materia linguistica e ispirazione tematica: il frutto di questo lavoro è visibile anche nell’opera, inedita, Frasi e modi di dire del Dialetto milanese. Nel 1932 l’editore Mondadori stampa L’è el dí di Mort, alegher!, l’unico testo pubblicato in vita, dove alla raffigurazione dell’ambiente quotidiano milanese si sovrappongono gli eventi tragici della Prima guerra mondiale. De là del mur, suo ultimo libro di poesie, apparve dopo la sua morte, avvenuta il 21 settembre 1939 a Milano.

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enuegs che infastidiscono il poeta-ciclista sul fango della «Comasna»)7. Già questa reticenza, come vedremo, ci fornisce un primo dato interpretativo. Le milleseicento copie del volume mondadoriano uscivano accompagnate da un «testo esplicativo in lingua» assai corrivo, di probabile fattura editoriale. Non si trattava di una vera traduzione, ma di un «riscontro» inteso a evitare note e glossario. Fortunato Rosti lo sostituí con una nuova versione di propria mano, quando ristampò la raccolta nel 1960, accompagnandola con una nota di Emilio Guicciardi8. Malgrado il prestigio del primo editore, la raccolta di Tessa non ebbe tuttavia né echi di critica, né fortuna di mercato (l’autore stesso allude in Il buon gobbetto, in Ore di città9, alla «tristezza in cui verso da anni nel sapere che quasi tutta l’edizione è rimasta nel gobbo della Mondadori»). Non molto diversa la sorte della successiva ristampa presso un piccolo editore come Scheiwiller. Da un’Autopresentazione a Radio Monteceneri del 1935 (ora in Critiche contro vento) apprendiamo del progetto di un nuovo libro di versi: «Avevo intenzione di pubblicare una nuova raccolta di miei recenti versi e già tutto era pronto ma poi vi ho rinunciato»10. Negli anni successivi gli accenni al nuovo libro si moltiplicano. In Parlando con loro (poi in Ore di città), una prosa risalente al 1937, il fiuto dei librai milanesi Baldini e Castoldi viene provato dal fatto che gli avveduti commercianti-editori «il mio nuovo libro di poesie non lo vorrebbero neanche a ammazzarli...»11. Che Tessa ci avesse quanto meno ripensato è testimoniato anche da un articolo dell’«Ambrosiano» dello stesso anno, non raccolto in Ore di città e intitolato Questa sera a Bagutta. Nel testo, firmato con lo pseudonimo Illius, Tessa osserva: «Se mi capitasse di pubblicare un altro volume lo vorrei con questa fascetta: “Un libro d’eccezione! – questo autore non è mai stato premiato”»12. La dicitura sarebbe poi stata suggerita dal poeta per la promozione di De là del mur, come ricorda l’Antonicelli nell’edizione di Poesie nuove ed ultime13. Un più esplicito riferimento all’opera inedita cade in una lettera dell’anno precedente all’editore Formiggini, di cui ha dato notizia Renzo Cremante14. Il documento è interessante per più ragioni. Intanto perché Tessa accenna alle famose «pagine del dicitore», lo «specialissimo commento» che il poeta aveva preparato per i suoi versi: «Nel progetto del mio nuovo volume di poesie avrei abbandonato il sistema delle traduzioni per sostituirlo con una sorta di disco-pagina a fronte del testo. Es-

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sa sarebbe un po’ di tutto e cioè: traccia per il dicitore, traduzione e illustrazione della lirica». Inoltre perché il poeta menziona la Poesia della Olga, che avrebbe dovuto già figurare nella prima raccolta, sottolineando il parallelismo con il capolavoro portiano: «Nel volume verrebbe inclusa la “Poesia della Olga” che ritengo sia quanto di meglio io ò saputo immaginare e fare. Carlo Porta nella sua “Ninetta” à cantato la “tosa de Casin” e io la “Ruffiana”». Tuttavia la raccolta, che ad un tratto sembrò persino dovesse apparire presso un editore di Lugano, evidentemente per la polemica verso il regime, non vide mai la luce durante la vita del poeta. Le due sole poesie a essere stampate dopo L’è el dì di Mort, alegher! furono La giornata de me zio pescaú de Lacciarella15 e Finester16. Tessa morí nel’39 e le sue carte passarono all’amico Fortunato Rosti, il quale già nel ’41 informa il ticinese Piero Bianconi che Einaudi si sarebbe assunto l’iniziativa di ripubblicare il corpus poetico tessiano. In realtà il libro, con il titolo Poesie nuove ed ultime, apparirà solo nel ’47

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왗 Eugenio Spreafico, Dolori (La sagra dei morti), 1886. Monza, Musei Civici.

da un altro editore torinese, De Silva (presso cui l’anno seguente apparirà la seconda edizione di Sera di Virgilio Giotti), per le cure del Rosti e di Franco Antonicelli. Veniva annunciato come primo volume di un’edizione integrale, purtroppo mai realizzata, degli Scritti di Delio Tessa. L’opera era suddivisa in due sezioni: la prima comprendeva De là del mur («Al di là del muro»), il libro che al Tessa non era riuscito di stampare, per il quale i curatori avevano potuto servirsi del testo dattiloscritto approntato dal poeta stesso. Una nota d’autore riferisce che la raccolta avrebbe dovuto inizialmente intitolarsi I cinqu settacuu, «quel piombar giù che si fa d’improvviso sull’osso sacro e per di più con gran difficoltà a rialzarsi». Fu poi optato per un titolo più neutro «per non urtar subito e tutti». La seconda sezione sotto il titolo Poesie fatte comprendeva una scelta di sedici liriche sparse, di solito degli ultimi anni, fra cui la celebre A Carlo Porta. Accanto a esse compariva qualche testimonianza delle prime prove tessiane «trascritte da un quadernone di tela nera “aperto nel novembre 1906, chiuso nel luglio 1912”, ma anch’esse rivedute dal poeta più tardi e destinate a una futura pubblicazione». In nota a Poesie nuove e ultime si legge pure un terzo dialogo, che avrebbe seguito i due Del poeta e del Consigliere Delegato del 1936-37, con cui si apriva De là del mur. Protagonisti del colloquio, che anche Tessa aveva tralasciato nel dattiloscritto predisposto in servizio dell’edizione, e che è ambientato «molti anni dopo», sono due anonimi personaggi, A e B, che si aggirano nella Milano del 2000, rievocando la drammatica età fra le due guerre in cui era occorso di vivere al poeta: «Nessun poeta è venuto a noi da quella disgraziata metà del novecento. Questo è un sintomo. Un popolo senza poesia è un corpo senz’anima: un cadavere vivente».

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1.2. Poesia e oralità. Il canale privilegiato che Tessa concepiva per la sua poesia, assai più che la lettura silenziosa, era, come si è visto, la dizione orale: dapprima in cerchie ristrette di amici e conoscenti, più tardi anche in sale pubbliche, per tacere di un’inconsueta recitazione in una casa di tolleranza di Piazza Vetra, cui l’autore accenna in Piazza Vetra (la Vecchia)17. Sono del resto ben note e tramandate da una ricca aneddotica le sue singolari doti di dicitore di versi propri e altrui, fra questi ultimi soprattutto del Porta, ma anche di simbolisti francesi e di autori moderni italiani. Ne rimase colpito persino Croce, ascoltandolo recitare in casa del conte Casati. Nel più suggestivo ritratto del poeta, «El Tessa», dovuto alla penna di Carlo Linati, leggiamo: Uomo piacevole, di vena, e dicitore squisito, veniva spesso invitato in case d’amici a dir cose sue e del Porta. Allora infilava l’abito buono, il solino duro con le alette e si recava a quei ritrovi a dire La nomina del Cappellann, Ona vision, La messa noeuva, e poi cose sue: Caporetto, La mort della Gussona, I deslipp di Càmol o qualcuna delle sue violente e argute poesie civili... Negli ultimi anni aveva posto una sollecitudine singolare nel rendere sempre più ben colorite le sue dizioni, cercando di intonare e di muovere il verso con appropriati chiaroscuri, intercalando pause studiate, sorvegliando il gestire. [...] ... Il Tessa otteneva effetti bellissimi come dicitore. Chi non ha sentito dire da lui Il Miserere con quelle cantatine di preti vicciurinatt e quei loro dialoghetti in pelle in pelle ch’egli riproduceva a meraviglia, non può sapere a quale grandezza d’effetti può arrivare la poesia ambrosiana18.

Il poeta stesso ci ragguaglia intorno a questa attività nel primo Dialogo del Poeta e del Consigliere Delegato che apre De là del mur e in alcune prose di Ore di città; la citata Piazza Vetra (la Vecchia) e Notturno. In un testo pubblicato nel 1934 su «Radioprogramma», periodico della Radio della Svizzera Italiana, cui Tessa collaborò assiduamente nel corso degli anni Trenta, leggiamo: «Non immagino la lirica se non come una musica della parola e le mie dizioni le preparo come si preparerebbe un concerto»19. Del resto tutte le poesie di De là del mur, insieme a qualche altra approntata per la stampa, con una capziosità che documenta quanto l’aspetto fonico-ritmico risultasse decisivo per il poeta, sono sempre accompagnate dalle famose «pagine del dicitore». Un solo esempio, tratto da I deslipp di Càmol («Le disdette di una famiglia»): La dizione di questa lirica discorsiva e caricaturale comincia pianamente ma si infervora subito. Dal terzo al settimo verso sottolinea in progressione di forza l’accanimento del destino contro la quieta famiglia borghese... [...]. Poi riprende il tono

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dimesso e quasi segreto da confidenza, da pettegolezzo. Dizione ondosa, incerta, tanto che nessun tema prevale. (p. 154).

Mentre la nota a L’è el dì di Mort, alegher!, si apriva con questa inequivocabile dichiarazione: «Come un fascio di musiche si affida all’esecuzione canora, cosí i miei saggi lirici attendono la voce del dicitore» (p. 143). Ora, corredare il testo di minute istruzioni per la sua esecuzione orale vuol dire ancora una volta privilegiare un tipo di circolazione, che a partire dall’ermetismo avrebbe sofferto un crescente discredito, pur conoscendo ancora una certa diffusione negli anni Trenta. Anche Marinetti aveva insistito sull’aspetto vocale della poesia, benché poi il testo futurista divenga puro pretesto per la performance avanguardistica. Ma si tratta comunque di un’eccezione in un panorama che inclina ormai verso la sillabazione interiore e la «degustazione» solipsistica dei lirici nuovi. Anche nella scelta di questa anacronistica comunicazione Tessa ribadiva dunque la propria fedeltà alla tradizione dialettale. Senza risalire alle vere e proprie tournées, che Testoni, Pascarella e Trilussa compirono nei primi anni del secolo, tenendo pubbliche letture nei principali teatri della penisola, basta citare il caso di un dialettale di prim’ordine come Noventa e la sua orgogliosa difesa de «i versi, | che mi digo e me basta de dir»20, riservati a uno scelto cenacolo di amici e «toseti». Si può dire che almeno fino alla metà del Novecento il dialetto contribuisca, nei modi più diversi, a mantenere ancorato il poeta alla dimensione dell’oralità. Il salto dal parlato allo scritto comporta per il dialettale, che spesso fa precedere la pubblicazione del testo da una lunga consuetudine di recitazione (a proposito di Tessa Pancrazi ricorda come le sue poesie fossero cose molto elaborate e rifinite, dette e ridette, collaudate dalla viva voce e dall’aria prima che stampate sulla carta)21, un inconveniente assai grave: autore ed esecutore cessano di coincidere, il rischio che l’appiattimento sulla pagina impoverisca il testo è per il poeta in dialetto tutt’altro che teorico. Se Leopardi è nato per lo scritto, già il Giusti di «Vostra Eccellenza che mi sta in cagnesco» pone il problema della realizzazione orale, proprio perché la sua operazione si compie a ridosso del parlato. E su cosa gioca la letteratura dialettale se non sugli effetti derivanti dall’importazione nella pagina scritta della lingua dell’oralità quotidiana? Del resto un’analoga riluttanza a pubblicare non si ritrova forse in Paganini o, spostandoci altrove, in Petrolini, in personaggi cioè che ugualmente hanno puntato tutto sulla coincidenza delle due

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figure dell’autore e dell’esecutore? Tessa stesso nel già ricordato Perché scrivo in dialetto? confessa la sua scarsa simpatia per la pagina scritta: «Una poesia scritta, e fin che è lí adagiata sulla pagina di un libro, mi dice ben poco: bisogna portarla fuori, bisogna impararsela a memoria, fare come faceva Bellini coi versi del Romani: se li diceva ad alta voce e dalla dizione gli nasceva la musica»22. A questo disagio verso lo scritto, che gli impedisce di controllare l’utterance, la pronuncia, il poeta dialettale reagisce di solito intensificando le ricerche sulla rappresentazione grafica della sua lingua. È questo il caso più diffuso: basti pensare a Di Giacomo, che si inventa un nuovo napoletano letterario, fino a giungere a talune curiose soluzioni dei neodialettali, che, alle prese con parlate inedite, gremiscono la pagina di segni grafici, fino a trasformare la lettura in un percorso di guerra. Ogni volta che questo rapporto con l’oralità si attenua nella coscienza dell’autore, ci troviamo di fronte a un segnale inconfondibile di poesia, malgrado il mezzo, «antidialettale», che versa cioè le lingue orali in stampi culturali allotri: è il caso di taluni esiti di Giotti, di Marin o di Firpo e in generale dei dialettali più vicini alla convenzione ermetica. Tessa aveva alle spalle un’illustre tradizione letteraria, che almeno dal Balestrieri vantava ormai un secolo e mezzo di codificazione grafica. Questo spiega perché egli si sia attenuto alla norma del milanese. Ma, al di là delle licenze che si prende, non rinuncia a stipare la pagina di istruzioni e didascalie, che gli consentano di pilotare a distanza la restituzione orale dei suoi testi, nel tentativo di reintegrare sulla pagina scritta i diritti della voce. 1.3. L’anacronismo di Tessa. Tessa e Noventa, nonostante la loro diversità, restano in pieno Novecento i più tenaci e autorevoli assertori di una poesia dialettale che punta sugli elementi di continuità con la tradizione, con il “genere”, piuttosto che sulla rottura impartita dalla svolta novecentesca, avviatasi con Di Giacomo e portata a termine da Giotti. Le differenze riguarderanno semmai gli esiti: nel poeta veneto improntati a un aristocratico anacronismo e caratterizzati da un’intonazione ironico-discorsiva, orgogliosamente opposti all’ascetismo della forma e alla religione estetica dei «leterati»; nel collega milanese, invece, a una partenza radicata nella convenzione bozzettistica ottocentesca e dialettale nel senso più deteriore dell’aggettivo, corrisponderanno approdi di imprevedibile modernità.

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Per intendere l’anacronismo di Tessa, rilevato da quasi tutti i suoi lettori (anche al livello più esteriore Linati notava che il poeta era un po’ sempre come uno che fosse rimasto indietro con la moda di qualche decennio)23, occorre chiarire il suo atteggiamento verso la tradizione dialettale. Il poeta milanese parte da una concezione, che proprio nel primo decennio del Novecento sarebbe entrata in una crisi irreversibile: la poesia dialettale è un sottosistema della letteratura italiana, che le ha ritagliato la zona ben identificata del comico, antitetica al sublime della produzione in lingua. Chi scrive in dialetto non può non tenere conto di ciò: la forza del codice si sprigiona dai suoi stessi vincoli. D’altro canto lo spento panorama della produzione vernacolare del secondo Ottocento (si veda l’af...


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