Brian O\'Doherty. Inside the White Cube, l\'ideologia dello spazio espositivo PDF

Title Brian O\'Doherty. Inside the White Cube, l\'ideologia dello spazio espositivo
Course Storia dell'arte contemporanea
Institution Università di Bologna
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Summary

Riassunto completo del saggio di Brian O'Doherty "Inside the White Cube, l'ideologia dello spazio espositivo" per l'esame di Attori dell'arte contemporanea del prof. Roberto Pinto...


Description

INSIDE THE WHITE CUBE Brian O’Doherty Nel volume O'Doherty affronta un momento di particolare crisi nell'arte del secondo dopoguerra ed esamina i presupposti su cui si fonda lo sviluppo dello spazio espositivo, privato o museale. In un'analisi che si confronta con le complesse e delicate relazioni tra economia, contesto sociale ed estetica condensate all'interno di una galleria d'arte, O'Doherty si pone il problema di come gli artisti debbano concepire il proprio lavoro in relazione allo spazio espositivo e al sistema dell'arte. INTRODUZIONE Lo studio si incentra sugli effetti che il contesto severamente controllato della galleria d’avanguardia ha avuto sull’oggetto d’arte e sull’osservatore: il contesto ha divorato l’oggetto, rubandogli la scena. L’eternità evocata dai nostri spazi espositivi è apparentemente quella della posterità artistica, della bellezza immortale, del capolavoro: l’Occhio e lo e lo Spettatore sono tutto quello che rimane di chi è “morto” entrando nel white Cube. Nelle gallerie d’avanguardia tradizionali come nelle chiese non si parla con un tono normale, non si ride, mangia, beve, dorme né ci si sdraia poiché il white Cube promuove il mito secondo cui essenzialmente siamo esseri spirituali - l’Occhio è l’occhio dell’anima. La galleria priva l’opera di tutti i riferimenti che si frappongono al suo essere arte. Il white cube è l’archetipo dell’arte del ‘900 - galleria-limbo. All’interno il campo di forze percettive è così potente che fuori l’arte può scadere in una dimensione terrena, le cose diventano arte in uno spazio in cui potenti idee sull’arte su concentrano su di esse. L’oggetto è mezzo per le idee, già presenti nella galleria. Legge proiettiva del modernismo: più lo spazio invecchia, più il contesto diventa il contenuto. Il mondo deve restare fuori. OSSERVAZIONI SULLO SPAZIO ESPOSITIVO La galleria ideale priva l’opera di tutti i riferimenti che si frappongono al suo essere “arte”. Essa è isolata da tutto quello che potrebbe nuocere alla sua autovalutazione. In questo modo lo spazio acquisisce una presenza che tipica dei luoghi in cui le convenzioni si preservano attraverso la ripetizione di un sistema chiuso di valori. La sacralità di una chiesa, il formalismo di un’aula di tribunale, il fascino di un laboratorio sperimentale si uniscono all’eleganza del design per produrre una camera dell’estetica unica. Una volta fuori l’arte può scadere in una dimensione terrena. È l’oggetto introdotto nella galleria a “inquadrare” la galleria stessa e le sue leggi. Poiché il mondo esterno deve restare fuori in genere le finestre sono sigillate, i muri sono dipinti di bianco, il soffitto diventa fonte di luce. Il pavimento di legno è così tirato a lucido che si avverte distintamente il rumore dei passi oppure è coperto da un tappeto che attutisce quel suono, permettendo di riposare i piedi mentre gli occhi prendono d’assalto la parete. Il Salon in effetti definisce implicitamente una galleria, una definizione appropriata all’estetica dell’epoca. Una galleria è un luogo dotato di un muro a sua volta ricoperto da un muro di dipinti. La “Galleria del Louvre” di Morse sconvolge l’osservatore moderno: una tappezzeria di capolavori non ancora separati l’uno dall’altro e isolati nello spazio a mò di trono. Tralasciando l’accozzaglia di periodi e stili - per noi orrenda - quello che l’allestimento impone all’osservatore va al di là della nostra comprensione. Tanto l’alto

quanto il basso sono ingrate. In realtà ciascun dipinto era considerato un’entità autonoma ed era totalmente isolato dal suo incombente vicino da una massiccia cornice esterna e al suo interno grazie a un sistema prospettico completo. La scoperta della prospettiva coincide con il successo del quadro da cavalletto che a sua volta conferma la promessa illusionistica propria della pittura. Visti da vicino i murali tendono a esibire apertamente i propri strumenti: i murali proiettano una rete di vettori ambivalenti e instabili rispetto ai quali l’osservatore cerca di allinearsi. Il quadro da cavalletto sulla parete, invece, gli indica immediatamente dove guardare. È il modello classico della prospettiva presentato nella sua cornice accademica a permettere che i quadri possano essere allineati come sardine. Nulla suggerisce che lo spazio all’interno del dipinto possa prolungarsi ai suoi lati. I dipinti che, focalizzandosi su un frammento indeterminato di paesaggio, spesso sembrano “sbagliare” soggetto, introducono l’idea di un occhio che scruta. Questo sguardo “accelerato” sfida il carattere assoluto della cornice rendendola una zona incerta. La separazione dei dipinti lungo la parete diventa inevitabile. Il fenomeno venne accentuato e in larga misura innescato dalla nuova scienza, o arte, dedicata a estrarre il soggetto dal suo contesto: la fotografia. La fotografia ha imparato subito a rifuggire le cornici pesanti e a montare una stampa su un foglio di cartone. La cornice poteva circondare il cartone solo dopo un intervallo neutro. Monet: uno dei tratti distintivi dell’impressionismo è il modo in cui la scelta casuale del soggetto attenua il ruolo strutturale del margine nel momento stesso in cui questo subisce pressioni da parte di uno spazio sempre meno profondo. La resa letterale del piano pittorico è un tema sconfinato. Il concetto di struttura del Cubismo manteneva lo status quo della pittura da cavalletto: i dipinti di questo movimento sono centripeti, si raccolgono verso il centro e si dissolvono verso il margine. Seurat è riuscito a definire molto meglio i limiti di una formulazione classica. Spesso i suoi bordi dipinti, composti da un agglomerato di puntini colorati, si dispiegano verso l’interno; a volte cosparge tutta la cornice di puntini n modo che l’occhio possa uscire dal dipinto, e rientrarvi, senza scosse. Nei grandi dipinti di Matisse non abbiamo quasi mai coscienza della cornice. Egli non privilegia il centro a discapito del margine o viceversa. L’allestimento. il modo di appendere un dipinto fornisce molte indicazioni su ciò che viene esposto. Esso esprime un’interpretazione e un giudizio di valore, ed è inconsapevolmente influenzato dal gusto e dalla moda. In epoca moderna, la prima occasione in cui un artista radicale creò uno spazio e vi espose i propri dipinti fu il Pavillon du Realisme personale che Courbet allestì all’esterno dell’Exposition del 1855: era la prima volta che un artista moderno si ritrovò a ideare il contesto della sua opera e, di conseguenza, a pronunciarsi sul valore di quest’ultima. Alla prima mostra del 1874 gli impressionisti appesero le loro tele una incollata all’altra, proprio come avrebbero fatto al Salon. Quando, in occasione della grande retrospettiva di Monet tenutasi al Museum of Modern Art nel 1960, William Seitz fece togliere le cornici, all’inizio le tele messe a nudo sembrarono delle riproduzioni, finché non ci si rese conto di quanto dominassero la parete. Quel minimo spessore del telaio equivale a un abisso formale. La pittura da cavalletto domina l’arte fino al Color Field e la liberalizzazione del piano pittorico è praticata contro i requisiti dell’illusionismo. Gli attacchi sferrati alla pittura negli anni 60 hanno trascurato di specificare che il problema non era la pittura generale, bensì il quadro da cavalletto. Il Color

Field è rimasto una pittura da Salon: aveva bisogno di grandi pareti e di grandi collezionisti. Il Minimalismo, al contrario, ha riconosciuto le illusioni proprie della pittura da cavalletto e non si è fatta illusioni sulla società. Non si è alleato con la ricchezza e il potere, e il suo tentativo abortito di ridefinire il rapporto tra artista e le diverse istituzioni è rimasto perlopiù inesplorato. La pittura tardo modernista ha avanzato alcune ingegnose ipotesi su come spremere qualcosa di più da questo recalcitrante piano pittorico: oggetti piatti che si fondevano con la superficie letterale (le Flags di Jasper Johns, i Platform Painting di Cy Twombly) o la soluzione che consiste nell’incidere il piano pittorico (Fontana), fino a far sparire la tela e attaccare direttamente l’intonaco della parete. Il cubismo è stato un movimento conservatore in questo senso: ha prolungato la vitalità della pittura da cavalletto posticipandone il crollo. Nell’arte moderna la potente voce dell’opposizione fu quella di Henri Matisse, il quale formulò alla sua maniera, razionale e un po’ in sordina, una visione del colore che di primo acchito paralizzò il grigiore cubista. In Art and Culture Clement Greenberg racconta come gli artisti newyorkesi abbiano puntato astutamente gli occhi su Matisse e Mirò: i dipinti dell’espressionismo astratto si sono liberati della cornice e gradualmente hanno cominciato a concepire il margine come un’unità strutturale attraverso cui il dipinto entrava in comunicazione con la parete. È qui che entrano in scena l’agente e il curatore. La maniera in cui entrambi, con la collaborazione dell’artista, esponevano queste opere, ha contribuito, tra la fine degli anni 40 e 50, alla definizione della nuova pittura. Nel corso degli anni 50 e 60 viene a delinearsi un nuovo tema di cui si acquista una progressiva consapevolezza: di quanto spazio ha bisogno un dipinto per, come si diceva allora, respirare? Una volta diventata una potenza estetica, la parete ha trasformato qualsiasi cosa vi fosse esposta. Le prime tele sagomate di Stella piegavano o tagliavano il margine a seconda delle esigenze della logica interna che le generava. La rottura del rettangolo confermò formalmente l’autonomia della parete, alterando una volta per tutte il concetto di spazio espositivo. L’OCCHIO E LO SPETTATORE Con l’avanzare dell’arte moderna, il contenuto della tela vuota è aumentato. Da Cézanne al Color Field, la pittura tradizionale scorre lungo la parete, la misura in base alle coordinate verticali e orizzontali, rispetta la forza di gravità e mantiene l’osservatore in piedi. Quando Picasso incollò su un supporto quel pezzo di tela cerata si poteva pensare che fosse un gesto tardivo. Adesso quell’opera è IL COLLAGE e segna un passaggio irrevocabile attraverso il quale dallo spazio del dipinto si entra nella dimensione laica dello spazio dell’osservatore. Il cubismo analitico non ha spostato di lato il piano pittorico, ma lo ha reso sporgente. Alcuni frammenti di cubismo analitico, allora, possono già essere considerati una sorta di collage manqué. Si verificò un cambiamento: i molteplici pdf del dipinto si riversano nella stanza con l’osservatore. Nella dimensione sacra del novecento, lo spazio, sono coinvolte tuttavia sia l’astrazione sia la realtà. Lo spazio non è solo il luogo in cui avvengono le cose: sono le cose a far nascere lo spazio. Esso si è concretizzato non solo nel quadro, ma anche nel luogo in cui l’opera è appesa, cioè la galleria che, con l’avvento del postmodernismo, si unisce al piano pittorico come unità del discorso. Se il piano della tela definitiva la parete, il collage inizia a definire l’intero spazio.

Con l’arte moderna arriva lo Spettatore, quando è sparita la prospettiva. Egli non si limita ad alzarsi a sedersi a comando, ma arriva a sdraiarsi e perfino a strisciare quando il modernismo l’opprime con le sue ultime umiliazioni. Insieme a lui l’Occhio, che può essere guidato, ma con meno fiducia dello Spettatore che, a differenza dell’altro, è desideroso di compiacere. L’Occhio è l’unico abitante dell’asettica fotografia dell’installazione. Lo spettatore è assente. L’arte su cui l’occhio si applica in modo esclusivo è quella che preserva il piano pittorico: la corrente del modernismo. Tutto il resto, ciò che è impuro, favorisce lo spettatore. Quando lo spettatore è Kurt Schwitters, ci ritroviamo in uno spazio che possiamo occupare soltanto attraverso i racconti dei testimoni oculari, lasciando scorrere lo sguardo sulle fotografie che ci illudono, ma non confermano l’esperienza: il Merzbau di Hannover. I testimoni non dicono nulla su se stessi all’interno del Merzbau; lo guardano ma non fanno l’esperienza di starci dentro. L’Environment sarebbe diventato un genere quasi quarant’anni dopo. Se la sua opera aveva un principio organizzativo questo era la città, che forniva anche i materiali. Era un’opera austera a sinistra. Nacque da uno studio, cioè spazio, da materiali, da un’artista e da un processo. Lo spazio si estese e lo stesso accadde al tempo. Era una costruzione mutevole, conteneva reliquiari, era un racconto autobiografico di viaggi in città. Ma qua c’è qualcosa di involutivo e rovesciato. I concetti a cui è ispirato sono caratterizzati da una follia. La natura sacramentale della trasformazione ha un legame con l’idealismo romantico e nella sua fase espressionista si mettere alla prova, compiendo operazioni di salvataggio. All’inizio il piano pittorico è uno spazio in trasformazione idealizzato, dove la trasformazione degli oggetti è contestuale. Una volta isolati, gli oggetti trovano il loro contesto nella galleria. Alla fine essa stessa diventa una forza di trasformazione. È difficile eliminare l’idealismo dall’arte, perché anche la galleria vuota diventa una forma di art manqué che lo preserva. Il Merzbau di Schwitters può essere il primo esempio di galleria intesa come camera di trasformazione, da cui l’Occhio convertito può colonizzare il mondo. Le declamazioni di Schwitters infrangevano la prassi della vita comune, quali parlare e tenere conferenze. I pezzi del Merzbau sono assemblati in una data situazione, un ambiente, da cui ricavano energia. L’indeterminatezza del contesto favorisce lo sviluppo di nuove convenzioni, che in teatro verrebbero soffocate da quella del “recitare”. I primi happenings si tennero in spazi casuali e non convenzionali, tra cui depositi, fabbriche abbandonate, vecchi negozi, occupando quindi un prudente spazio intermedio tra il teatro d’avanguardia e il collage. Concepivano lo spettatore come una sorta di collage, perché tendeva ad occupare tutto l’interno. Sebbene nella maggior parte degli happenings non si parlasse molto, essi brulicavano di parole. Words, per esempio, fu il titolo di un Environment del 1961 con cui Allan Kaprow circondò lo spettatore: conteneva nomi circolanti - persone - che erano invitati a scrivere parole su fogli di carta da attaccare alle pareti e ai pannelli divisori. L’avvento dell’enviroment è tardivo. Nel 1926, mentre Schwitters lavora al suo Merzbau, El Lissitskij progetta uno spazio espositivo moderno ad Hannover, però questi gesti non derivano dal collage. L’assemblaggio e il collage ambientale si chiariscono nel momento in cui il tableau viene accettato come genere. A quel punto, per esempio con Segal e Kienholz, lo spazio illusionistico del quadro tradizionale diventa reale nella scatola della galleria. Il desiderio di rendere concreta perfino

l’illusione è un segno distintivo dell’arte degli anni 60. Con il tableau la galleria diventa un bar o una stanza d’ospedale (Kienholz), una stazione di servizio (Segal), una camera da letto (Oldemburg), un soggiorno (Segal), un “vero” studio (Samaras). Lo spazio espositivo cita i tableaux e li rende arte, proprio come la loro rappresentazione diventa arte all’interno dello spazio illusorio di un quadro tradizionale. Quando si trova all’interno di un tableau lo spettatore ha la sensazione che non dovrebbe essere lì; tra le figure, e tra queste e il loro ambiente, c’è una sorta di vuoto lento e astratto. Lo spettatore, avvicinandosi, si sente un intruso. L’incontro con un Hanson o un DeAndrea è sconcertante: viola il nostro senso della realtà o la realtà dei nostri sensi. Queste opere non derivano tanto dalla scultura quanto piuttosto dal collage: sono state portate all’interno di una galleria e queste le ha rese arte. Sono tappe del percorso che conduce al collage ultimo e definitivo: la figura viva. Presentata da Jeffrey nella mostra OK. 1972 la scultura vivente recitava a comando la propria storia. Dopo il cubismo analitico, l’Occhio e lo Spettatore, prendono 2 strade diverse. Il primo segue il cubismo sincretico nella sua ridefinizione di piano sincretico. Il secondo si occupa dell’invasione dello spazio. Le due direzioni competono tra di loro. Nel tardo modernismo si rincontrano allo scopo di rinnovare le loro incomprensioni. Dopo il climax finale, e americano, del modernismo, l’Occhio trasporta trionfalmente il piano pittorico di Pollock verso il Color Field, mentre lo Spettatore lo conduce nello spazio reale dove tutto può accadere. Tra la fine degli anni 60 e 70 l’Occhio e lo Spettatore negoziano alcune transazioni. Gli oggetti minimalisti spesso provocano percezioni diverse da quelle distinte. Si trattava di un processo in due tempi l’occhio coglieva subito l’oggetto, come dipinto, poi il corpo faceva girare l’occhio intorno ad esso. Questo provocava una reazione tra l’aspettativa confermata e la sensazione fisica fino ad allora subliminale. L’occhio e lo spettatore collaboravano per l’occasione. Gli altri sensi dello spettatore, ancora allo stato grezzo, erano pervasi dai raffinati giudizi dell’occhio. Quest’ultimo spinge il corpo per fornire informazioni, trasformandolo in una sorta di raccoglitore di dati. È da questa riconciliazione che hanno origine le messe in scena della percezione, la performance e la body art. Spesso abbiamo l’impressione di non poter fare esperienza di qualcosa se prima non ce ne allontaniamo. Banalmente, soltanto nelle foto dell’estate possiamo vedere quanto ci siamo divertiti. Essere presenti davanti a un’opera d’arte, allora, significa assentarsi lasciando il posto all’Occhio e allo Spettatore, che ci riferiscono cosa avremmo potuto vedere se fossimo stati. L’opera d’arte assente spesso per noi è più presente (probabilmente Rothko l’ha capito meglio di chiunque altro). Noi, insomma, oggettiviamo e consumiamo l’arte per nutrire il nostro io inesistente o per mantenere un cosiddetto “uomo formalista” affamato di esperienze estetiche. I problemi di comportamento sono intrinseci al modernismo ed è con l’impressionismo che è iniziato quel tormento dello Spettatore inscindibile dall’arte più innovativa. Leggendo i dispacci dell’avanguardia, infatti, sembra che il modernismo abbia sfilato su un enorme angoscia sensoriale. Il modernismo sottolinea il fatto che nel 900 l’identità” è incentrata sulla percezione. In effetti, come l’Ottocento e ossessionato dai sistemi, il Novecento lo è della percezione, che media tra l’oggetto e l’idea che li include entrambi. L’Occhio, allora, rappresenta due forze opposte: la frammentazione dell’io e l’illusione di tenerlo unito. Lo Spettatore, invece, rende possibile l’esperienza che ci è concesso di fare. Quando guardare un’opera d’arte è diventato un atto consapevole - guardare noi stessi che guardiamo -, qualsiasi certezza riguardo

a cosa c’è là fuori è stata intaccata dalle incertezze del processo percettivo. L’Occhio e lo Spettatore rappresentano quel processo, che riformula in maniera costante i paradossi della coscienza. La possibilità di un’esperienza diretta dà l’opportunità di eliminare l’Occhio e lo Spettatore e al tempo stesso di istituzionalizzarli. L’arte concettuale intransigente, infatti, elimina l’Occhio a vantaggio della mente. Il pubblico legge. Il linguaggio è dotato degli strumenti necessari per esaminare la serie di condizioni che elaborano il prodotto finito dell’arte, ovvero il “significato”. Questa analisi spesso tende a diventare autoreferenziale o contestuale, vale a dire più simile all’arte o alle condizioni che la sostengono. Una di queste condizioni è lo spazio espositivo: l’installazione presentata da Joseph Kossuth nel 1972 alla Leo Castelli Gallery, composta da tavoli, panchine e libri aperti, non era una sala da guardare ma una sala di lettura. L’opera, pur cancellandolo, attingeva allo speciale chiostro dell’estetica rappresentato dalla galleria. Altrettanto notevole era il suo opposto: un uomo in una galleria che minaccia la sua stessa essenza con atti di violenza implicita o esplicita (Chris Burden). La punizione dello spettatore è uno dei grandi temi dell’arte di avanguardia. C’è qualcosa di patetico nella figura solitaria dentro la galleria che mette alla prova i suoi limiti, ritualizza gli assalti al proprio corpo e raccoglie scarse informazioni sulla carne di cui non può liberarsi. IL CONTESTO COME CONTENUTO Il soffitto, fino al momento in cui Duchamp vi si “installò” nel 1938, sembrava relativamente al riparo dagli artisti. Era già occup...


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