Il tempo degli stregoni PDF

Title Il tempo degli stregoni
Author Giulia De Bellis
Course Diritto privato
Institution Università degli Studi Roma Tre
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INTRODUZIONE “Il tempo degli stregoni” di Wolfram Eilenberger vuole parlare di un naufragio, quello della Germania degli anni Venti del XX secolo. Il titolo “stregoni”, traduce la parola tedesca “Zauberer”, che prima che “stregoni” ha il significato di “maghi”, termine che è più vicino all’ambito dell’epoca, a Thomas Mann, ma anche a Goethe. Stregone è in italiano una parola che assume un significato decisamente negativo, da magia nera. Dei quattro filosofi di cui tratta Eilenberger – Heidegger, Wittgenstein, Benjamin e Cassirer – solo uno può essere avvicinato alla stregoneria, Heidegger, e se c’è un aspetto delle loro magie che può essere evocato, è quello espresso piuttosto dal polo opposto, dal bianco. Eilenberger vuole raccontare le vicende personali e pubbliche dei quattro autori nel decennio che va dal 1919 al 1929, quello compreso tra la fine della Prima guerra mondiale e la prima grande crisi economica del capitalismo mondiale. Sullo sfondo, evocato in alcuni punti del libro, c’è l’ascesa di Adolf Hitler, il vero stregone del decennio, che si avvicina a passi sempre più rapidi al potere per poi trascinare l’Europa in un conflitto mondiale. L’avvenimento storico che fa da sfondo alle vicende è senza dubbio la Repubblica di Weimar, il suo avvento e la sua rapida crisi che apre la strada al trionfo del nazionalsocialismo.

WITTGENSTEIN “Non fatene un dramma, so che non lo capirete mai.” Sono queste le ultime parole pronunciate da Ludwing Wittgenstein il 18 giugno 1929 a Cambridge per concludere il suo esame di abilitazione, forse uno dei migliori nella storia della filosofia. Negli anni tra il 1911 e lo scoppio della Prima guerra mondiale aveva studiato con Russel, diventando uno tra gli studenti più stimati. Era una personalità eccentrica, facilmente irascibile, e portava, come di consueto, camicia senza colletto, pantaloni di flanella grigia e pesanti scarpe di pelle. Iniziò ad acquisire fama dopo la pubblicazione del Tractatus logicophilosophicus, scritto durante la prigionia in Italia, e che presentò come tesi di dottorato. L’opera si presenta come la soluzione al problema creatosi tra le proposizioni del linguaggio che sono propriamente sensate, e che possono quindi essere veritiere, e quelle che sono soltanto apparentemente sensate, ma che invece traviano il nostro pensiero. A proposito, il libro si conclude con l’enunciato: “Su ciò di cui non si può parlare si deve tacere”, e rappresentava la speranza, tipica di quegli anni, di potersi liberare delle questioni metafisiche, assumendo come guida la logica e la scienza naturale. Wittgenstein si trovava di fronte a Bertrand Russell e George Edward Moore, una commissione d’esame che rimase sbalordita e non riuscì mai a comprendere a pieno la sua genialità.

HEIDEGGER e CASSIRER Era il 1929 e tra i principali oratori che avrebbero partecipato al rinomato convegno di Davos, sulle Alpi svizzere, nello stesso luogo dove Thomas Mann aveva ambientato solo cinque anni prima “La montagna incantata”, si trovava anche Martin Heidegger. Nel salone di Davos, dopo aver rinunciato a prendere posto fra gli altri professori di filosofia ed essersi infilato nella folla dei numerosi studenti giunti per l’occasione, avrebbe tenuto tre lezioni. “Che cos’è l’uomo?”: è questa la domanda che si pongono Ernst Cassirer e Martin Heidegger durante la disputa filosofica che si tenne l’ultimo giorno dei seminari. Una domanda che era già il filo conduttore della filosofia di Kant, che considerava l’uomo, innanzitutto, un essere metafisico. Cassirer nel semestre invernale 1929/1930 sarebbe stato il primo ebreo a ricoprire la carica di rettore in un’università tedesca, nonché leader indiscusso della scuola neokantiana, la più importante fra le correnti accademiche della filosofia tedesca. Il loro incontro è un evento: Cassirer, di acclamata fama, il cui ragionamento rigoroso procede senza accelerazioni o strappi, rappresenta

la rigida istituzione accademica. Heidegger invece è la novità, è un giovane rampante che auspica un ritorno alle origini, alla morte della metafisica, a un modo tutto nuovo di fare filosofia. Heidegger gode di un privilegio che è assai evidente nel confronto con il più anziano Cassirer: il primo è un uomo nuovo. E’ cattolico, figlio di sacrestano cattolico, alla ricerca di un suo posto al sole, privo di mezzi economici, sicuro di sé. Cassirer è invece un ricco borghese, con famiglia benestante alle spalle, un ebreo, un uomo del passato, dedito a un pensiero che, rapportato a quello del suo avversario risulta vecchio, legato alla tradizione neokantiana, al pensiero “razionalista” uscito a pezzi dal macello della Prima guerra guerra, e incapace di intuire quale strada si potesse aprire con la filosofia del Dasein dello stregone: la sua capacità d’instaurare un confronto con il pensiero sull’essere-per-la-morte. La figura di Cassirer, quindi, appare in queste pagine come quella di un anziano accademico, tutto casa e università, malaticcio e flebile davanti al giovane stregone a Davos: “Cassirer è l’albergo, Heidegger la Hutte.” A qualunque scuola o indirizzo appartenessero, i filosofi presenti al convegno concordavano sul fatto che ormai il fondamento ideologico e epistemologico su cui Kant aveva basato il proprio sistema filosofico, fosse crollato, e che fosse necessaria una risposta alla fatidica domanda: “Che cos’è l’uomo?”, soprattutto dopo gli orrori della Prima guerra mondiale. Le rispose si annunciano già nel titolo delle loro opere più importanti: “Filosofia delle forme simboliche” di Cassirer, “Essere e Tempo” di Heidegger. Secondo Cassirer l’uomo è un essere che fa uso di segni, attraverso i quali da un senso e una consistenza al proprio mondo: un animal symbolicum. Esistono numerosi altri sistemi di segni, da lui definite “forme simboliche”, come il mito, l’arte, la musica, la matematica, che non sono immediatamente comprensibili, ma richiedono di essere interpretati da altri

essere umani: questo processo è quella che chiamiamo cultura. La critica kantiana, diventa, quindi, per lui una critica della cultura. Anche Heidegger sottolinea l’importanza del medium linguistico per l’”esserci” dell’uomo. Tutta la base del suo essere metafisico è il riconoscimento della propria finitezza della propria esistenza, e fa dell’uomo un “esserci gettato” nel mondo che, grazie all’angoscia, si trasforma nel compito di esplorare le proprie possibilità di esistenza, che Heidegger definisce “autenticità”. Ovviamente il verdetto degli studenti e studiosi presenti a Davos fu tutto a favore di Heidegger.

BENJAMIN Nonostante i temi trattati a Davos fossero al centro della sua filosofia e del suo universo intellettuale (la crisi della

filosofia accademica, la lacerazione della coscienza moderna e del sentimento moderno del tempo, la trasformazione della filosofia kantiana…), Walter Benjamin non partecipò ai seminari tenuti nel 1929, a cui invece, furono presenti Heidegger e Cassirer. Le ambizioni accademiche di Benjamin ebbero un esito catastrofico, divenuto poi leggendario col fallimento della sua candidatura all’Università di Francoforte nel 1925: dopo aver presentato una tesi dal titolo “L’origine del dramma barocco tedesco”, che aveva lo scopo di inserire la tradizione del dramma barocco nel canone della letteratura tedesca, i commissari scelti dalla facoltà gli chiesero di ritirare volontariamente la sua domanda. Tentò anche di entrare a far parte della cosiddetta Scuola di Walburg, circolo amburghese raccolto intorno a Erwin Panofsky ed Ernst Cassirer, ma fu l’ennesimo fiasco, a causa del suo stile anticonvenzionale e quasi indecifrabile. Il “delirante enciclopedismo” di Benjamin, segue, in realtà, un metodo preciso rafforzato dalla convinzione che siano proprio i segni, gli oggetti e le figure marginali a portare il marchio più autentico della totalità sociale. I test di Benjamin sono intrisi di una nuova modalità di conoscenza: è proprio il carattere inconclusivo, vario e contraddittorio della sua scrittura a rappresentare per lui l’unica via ancora praticabile verso una possibile conoscenza del mondo e i sé stesso. Secondo Benjamin, infatti, “chi fa filosofia deve far venire fuori dagli estremi più remoti la configurazione dell’idea, intesa come quella totalità in cui gli opposti possono coesistere, acquisendo un senso proprio. Ma questo modo di rappresentare l’idea è destinato a fallire finchè non venga percorso per intero il cerchio delle sue possibilità estreme.” Risulta quindi evidente, che non è soltanto una teoria della conoscenza, bensì rappresenta anche un progetto esistenziale che pone la domanda “come devo vivere?”...


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