la banalità del male PDF

Title la banalità del male
Course Filosofia Della Storia
Institution Università Ca' Foscari Venezia
Pages 7
File Size 93.2 KB
File Type PDF
Total Downloads 76
Total Views 134

Summary

appunti del corso di filosofia della storia...


Description

LA BANALITÀ DEL MALE Il processo ad Eichmann Il libro raccoglie gli articoli scritti da Arendt per il New Yorker. Nasce dal processo del secolo, il processo del carnefice, chiamato dalla vittima di un tempo, ora giudice: il popolo ebraico, rappresentato nello Stato ebraico. Eichmann era riuscito a fuggire tramite l’operazione Odessa e a rifugiarsi in Argentina, a Buenos Aires. Fu rapito dai servizi segreti israeliani, in quanto l’Argentina non permetteva l’estradizione: fu dunque un blitz che lo portò a Gerusalemme. L’opera parte da una considerazione molto amara: il processo rovescia il tema del male radicale, come era stato rappresentato nell’opera Le origini del totalitarismo (dalla Critica della Ragion Pratica), con il nazismo visto come trionfo della morte sulla politica. Il male che emerge è di una banalità che disarma Arendt. Eichmann è un burocrate, piccolo borghese, che ha scelto di difendersi sostenendo di aver “semplicemente obbedito a degli ordini”. Uno dei massimi gerarchi nazisti si pente forse di essere stato troppo zelante. Per compiere un male così radicale è bastato un semplice uomo, avvezzo all’obbedienza. Appare il tema della macchina burocratica che funziona grazie all’obbedienza cieca e zelante di semplici impiegati. Eichmann non oppose mai una coscienza, si mise al servizio di un potere politico. In ciò sta la pericolosità del male banale. Il male radicale richiede una scelta, un coinvolgimento forte, una visione in prima persona. Il male banale richiede semplicemente obbedienza, cui l’uomo è già di per sé propenso. Il male banale coinvolge tutti, Hitler come mostro non assolve il male banale. È il male stesso che dà la forza a Hitler, ma anche a Stalin, a Mussolini, a Franco. Chiunque decida di abbandonare il proprio spirito critico è passibile di malvagità. Abdicare alla coscienza, alla moralità, riduce l’uomo a servitore, macchina obbediente. In politica serve il coraggio, dice Arendt, di opporsi. Non può esserci politica senza morale. Bisogna anteporre una moralità all’azione politica. Uno stato libero è uno stato in cui i cittadini esercitano il proprio spirito critico. La difesa di Eichmann è una deresponsabilizzazione dell’individuo. Le critiche di Arendt alla comunità ebraica: il processo fu intaccato da istanze politiche, tra cui la giustificazione dell’ideologia sionista i Consigli Ebraici operarono in collaborazione con i nazisti Lo straniero di Camus, che uccide un uomo per caso ma poi non prova alcun rimorso. Non c’è un’intenzione particolare nel suo gesto o un’ovvia motivazione malvagia: “è successo e basta”. “restai colpita dalla evidente superficialità del colpevole, superficialità che rendeva impossibile ricondurre l’incontestabile malvagità dei suoi atti a un livello più profondo di cause o di motivazioni. Gli atti erano mostruosi, ma l’attore – per lo meno l’attore tremendamente efficace che si trovava ora sul banco degli imputati – risultava quanto mai ordinario, mediocre, tutt’altro che demoniaco o mostruoso”. Arendt venne criticata per aver psicanalizzato quindi evitato il problema del “male per il male”, racchiudendo la sua definizione nella noiosa esistenza di Eichmann. Il focus sulla vita insignificante e banale di Eichmann sembrava un’ “assurda digressione” dalle sue azioni malvagie.

Si può fare il male senza essere malvagi? Anziché usare il caso Eichmann come modo per approfondire la tradizionale concezione del male radicale, Arendt decise che la sua malvagità fosse banale, cioè che “si sottraesse al pensiero”. Scegliendo un approccio limitato, giuridico e formale all’analisi del processo Arendt enfatizzò il fatto che non ci fosse nient’altro in gioco se non l’oggettività legale della colpa o innocenza di Eichmann. Perché un uomo così normale ha contribuito a creare uno stato di cose così straordinario? Prima di tutto, la domanda è semplicemente mal posta. Basterebbe rispondere: “Perché no?”. È la nozione di normalità ad essere discutibile. Ma soprattutto è la nozione di straordinarietà. La banalità del male di cui parla Arendt è semplicemente il volto del male nella società di massa. La lezione profonda è che non è la Germania Nazista a essere così: sono tutte le società fondate su questi “individui normali” a poter assumere il volto di Eichmann. La realtà è dominata da uomini che sono incoscienti e quindi involontariamente malvagi, ebbene, ecco la banalità del male, condizione naturale delle società umane. Banale in quanto senza radici. Afferma la Arendt che il male non è mai radicale, che non possiede né la profondità né una dimensione demoniaca. Il pensiero che cerca il male in profondità è frustrato perché non trova nulla. Solo il bene infatti ha profondità e può a ragione definirsi integrale. Simone Weil IL BELLO E IL BENE Le modalità d’esistenza dell’uomo, pensiero, contemplazione, azione, corrispondono alle idee del vero, del bello e del bene. Che rapporto intercorre fra il bello e il bene? Il senso comune li confonde, lo stesso Platone ne è colpevole. Si prenda ad esempio un tempio e un’azione morale: il tempio “immobilizza il corpo e lo spirito”, “si impone al corpo che è dunque costretto ad imitarlo. Allo stesso modo, il pensiero “si interrompe”, è impossibilitato a modificare l’ordine. Il tempio è infatti un ordine di pietre, non meccanico, in cui ogni pietra “ha un essere proprio”, che tende ed è richiesto dal tempio stesso. [Weil stessa afferma di parlare un linguaggio mitologico, non potendo fare altrimenti] L’ordine si configura come finalità, che è allo stesso tempo tensione e unità data dalla “volontà delle pietre di rimanere al proprio posto”. Il tempio mi conduce solo verso sé stesso. Non rimanda ad altro da sé perché ne si colga la finalità propria (martello e cerchio). Il tempio nella sua interezza “è fine e modello di sé stesso”. Non richiede fini né cause. È eterno, “non nel senso che non abbia una fine, ma nel suo essere fuori dal tempo e al di sopra dell’esistenza”. È l’oggetto.

Così la musica, che pur “sfugge in continuazione”, al contrario del tempio, ma il cui ordine “è tanto inflessibile quanto quello dell’architettura”. Tutte le note sono infatti mezzi e fini, come le pietre del tempio. Così tutte le arti, la danza, “architettura vivente e mobile”, i cui singoli elementi sono esseri umani. È essa, come ogni forma d’arte, cerimonia; in quanto tale, manifestazione della società. La materia diviene, attraverso l’arte, bella, e in quanto bella si fa oggetto in sé e per sè, non più semplice affezione del corpo. Il bello funge a sé stesso da modello, vi convergono materia e forma in un’unità percepita. Tuttavia, resta “impenetrabile all’intelletto”, è “presenza misteriosa”, Sfinge. Si consideri ora un’azione morale: su quali basi si può definire tale? (un passante lascia cadere del denaro per strada. Un uomo lo raccoglie e glielo restituisce) Un’azione che si consideri morale non può per definizione avere una causa meccanica. La moralità consiste dunque un ordine nei movimenti: organizzati e dominati secondo un fine. La moralità è finalità. Qual è il fine che regola l’azione? Non vi è un rapporto dell’azione con la conseguenza, il che sarebbe contingente. Il rapporto necessario intercorre fra azione e forma dell’azione morale. Contraddizione: giudizio di moralità formulato su un terzo presuppone conoscenze che lo rendono contingente. Le intenzioni non possono essere scisse dai movimenti percepiti, dunque dall’azione in sé. “Non si dà morale che per sé stessi”. Prima differenza: il bene sta nel soggetto, mentre il bello è l’oggetto per eccellenza. L’azione deve essere conforme a una regola, legge morale. Essa, tuttavia, non è una definizione, un postulato, ma necessita di un principio fondativo. (si noti come non è l’azione gestuale in sé a essere parte del rapporto, bensì l’intenzione) La legge morale, ancora una volta rinvenibile in sé stessi, è l’imperativo categorico kantiano. “Agisci sempre in modo che la massima che regola la tua azione possa valere come norma universale”. Il principio? La morale non consiste in un rapporto fra azione e legge: è bensì l’atto di libera volontà che impone l’obbligo di conformarsi alla legge morale. Il bene non è non-peccato, è un’ azione perpetua. È movimento verso la legge morale. Una realtà buona e bella: una “bella azione”. (si prenda ad esempio il racconto di Alessandro che, soffrendo la sete con tutto il suo esercito, condotto attraverso il deserto, versa a terra dell’acqua offertagli da un soldato). Come nel caso dell’azione morale, è importante immedesimarsi nella scena, dunque immaginarla al presente. Un soldato porta l’acqua ad Alessandro, è suo dovere; tuttavia, neppure la desidera, sarebbe suo diritto. Nemmeno il resto dell’esercito si precipita, né desidera possederla. La scena è statica. “L’universo è riempito del silenzio e dell’attesa di tutti quegli uomini”. Alessandro versa l’acqua, e l’attesa è come liberata. La scena ha l’aspetto di una cerimonia. Il bello nell’azione, così come nell’arte, non ha altro fine da sé; allo stesso tempo, è consentito dalla partecipazione dell’esercito che, come le pietre del tempio, è allo stesso tempo fine e mezzo. L’azione di Alessandro è cerimonia, in quanto contemplabile e contemplata. Diventa così immutabile e fuori dal tempo, perfetta, fine a sé stessa, Sfinge. L’azione appare bella in quanto spettacolo.

Alessandro è, alla pari dei soldati, un corpo, materia che ha ricevuto forma (nello spirito umano). A questo punto, non importa l’esistenza dell’azione. Anche l’azione teatrale, di per sé immaginaria, è bella. L’azione bella è mito. Nel caso di Alessandro, l’azione vera non è il gesto del versare, bensì “il rifiuto di ogni gesto istintivo”, la “immobilità sculturale”. Il peccato è sonno, è assenza di coscienza dell’azione. Il pentimento, nella dottrina cattolica, consiste nel risveglio. Alessandro da solo deve scegliere tra l’essere animale, e bere, o l’essere uomo, e rifiutare. Il suo esercito non è che un mito, il mito dell’umanità, è oggetto rispetto a lui. “Occorre dunque che ciascuno autoredima il proprio sé: che salvi in sé lo Spirito di cui l’umanità esteriore è il mito”. Lo diceva anche Etty nel suo diario: il vero compito non è essere salvati da Dio, ma salvare il Dio che c’è in noi. In ciò sta il sacrificio, la sofferenza scelta volontariamente. Il bene è dunque lo sradicarsi dalla propria individualità per affermare la propria umanità. Nel momento in cui agiamo, ogni gesto è cerimonia, il giusto è anche bello, il bello e il bene sono uno e noi siamo liberi e uguali a Dio. Il bene è sì regolato su un concetto – l’imperativo categorico kantiano – ma tale concetto è il simbolo del percorso di distacco dalle cose, che è il bene stesso. Come Dio separò le terre dalle acque, così noi separiamo l’oggetto, che diventa bellezza, dallo spirito, dicendo “no” a tutte le cose che non ci appartengono. ecco il bene. Il primo momento della esperienza estetica è sentirsi uno con la cosa. Porre il tempio in quanto perfetto in sé, porlo in quanto bello, è anche liberarsene. “Noi andiamo verso Dio, respingendo la materia plasmata da noi nel respingerla”. “percepire una cosa come bella è percepirla immutabile ed eterna, anziché percepirvi la cosa esistente; è percepire l’essenza sotto l’esistenza.” Il bene è rifiuto dell’essenza stessa, attribuita a Dio, unità di libertà, esistenza ed essenza. L’azione è dunque affermazione di Dio. DOMANDE Perché hai deciso di portare questi libri? Ho deciso di portare il Diario di Etty Hillesum e La banalità del male, Il processo a Eichmann di Hannah Arendt, perché entrambi, in modi diversi, hanno contribuito nel mio tentativo di comprendere il fenomeno della Shoa, o più in generale la questione del male, così come dell’ingiustizia nel mondo. Dal Diario di Etty, ho appreso come un costante dialogo con sé stessi non significhi affatto un rifugiarsi intimistico per fuggire dalla realtà. Ciò che invece è ricercato è piuttosto un equilibrio fra la realtà interna e quella esterna, fra il proprio mondo interiore, fatto di emozioni, stati d’animo oscillanti, e il mondo circostante, con le difficoltà proprie del tempo. Ecco, io credo che fare filosofia significhi propriamente mettere in rapporto sé stessi con le cose, come scrive Etty “avere un rapporto diretto con la cosa”, e in tal senso la forma poetica riesce dove

la razionalità si ferma. Poesia non è sinonimo di soggettivismo, distante, bensì è la forma di oggettività che più permette la comprensione dei fenomeni. Seppure, a prima vista, lo scritto di Arendt si distanzia totalmente dalle pagine di diario di Etty Hillesum, vi ho tuttavia ritrovato la medesima profondità in ciò che concerne l’atto di comprendere, in tal caso riferito al criminale in quanto altro da sé stessi, ma non per questo meno umano. Sulla base di ciò, Arendt avverte circa la facilità di fare dell’imputato un “monstrum”, e così disfarsi della responsabilità di riconoscere il male come possibilità umana, di cui nessuno è esente. La banalità del male non è da leggersi in senso qualitativo, come male banale; è piuttosto una provocazione rivolta a ogni lettore affinchè non si esima dal comprendere, e dunque fare propria, la possibilità di fare il male. Cosa ti ha colpito? Cosa più di tutto? Etty Hillesum: - il poeta; cosa riprende da Rilke? Ritrarre le cose come sono, lavoro manuale (Rodin), necessità di scrivere, bisogno, attitudine alla poesia. Il diario di Etty si configura come un laboratorio di scrittura, sempre volto alla ricerca di un tono proprio, personale. Allo stesso tempo, è un mezzo per ordinare i pensieri, propedeutico alla scrittura stessa (si ricordi che Etty già dalle prime pagine esprime il desiderio di diventare scrittrice). Scrive Etty: “scrive bene chi pensa bene, e pensa bene chi è capace di apertura”. Quella ricercata da Etty è, più che un’estetica dell’arte, un’etica dell’artista, in cui la parola assume un ruolo preponderante. Da Rilke, Etty prende il rigore e la disciplina proprie dell’arte della scrittura, come esplicitato dal poeta in “Lettere a un giovane poeta” (indirizzate a Kapus). La volontà di scrivere deve nascere come necessità, urgenza. Bisogna chiedersi “Devo io scrivere?”, guardarsi dentro, ricercare in sé stessi la radice di tale bisogno. L’arte è una “vocazione”, alla quale, come esprime il termine stesso, si è chiamati: contrariamente all’ideale del poeta felice, a la Goethe, anche in Thomas Mann si delinea quello dello scrittore-giraffa, che vede più lontano, partorendo nel dolore. Il tema del parto, della gestazione, è caro a Rilke, che in un frammento scrive “pazienza è tutto”. Etty compie dunque un percorso dentro se stessa, nel proprio desiderio di possessione che la rendeva ammutolita di fronte alla bellezza, finchè non riesce a goderne senza desiderarle. La parola diventa quindi rivelazione della cosa, trasparente, e rivela insieme la cosa e l’anima di chi la pronuncia. Per essere poeta Etty capisce che occorre stabilire un rapporto reale con le cose, diretto; in ciò sta il carattere oggettivo della poesia, cui è richiesto di dire la miseria. - Dio; l’uomo deve proteggere Dio dentro di sé, serbare la parte migliore di sé che è Dio, differenza con gli stoici che si fermano alla rassegnazione, mentre lei compie il doppio movimento della fede. Etty era convinta che esistesse una sorgente divina in ogni individuo. Il suo compito è dunque quello di salvare il Dio che c’è in lei, non di chiedere a Dio di essere salvata. con ciò intende salvaguardare la parte più profonda di se stessa, contro l’inumanità che la circonda. Scrive alla fine del diario “Si vorrebbe essere un balsamo per molte ferite”. La fortezza inespugnabile di Etty non è tuttavia la fortezza isolata in cui l’uomo colloquia con se stesso in una forma di autocompiacimento, in una vaga contemplazione interiore. Etty erge “la

statua di sé” per donarla agli altri, in quello che viene definito a ragione un “altruismo radicale”. Il suo amore per Dio è un amore attivo, che la porta all’azione, all’amore verso il mondo e tutti gli uomini che lo abitano. Scrive prima della deportazione: “Ho spezzato il mio corpo come fosse pane e l’ho distribuito agli uomini”. È l’immagine dell’eucarestia, dell’atto supremo di condivisione di sé. Il suo è il doppio movimento mistico della fede, che abbandonato il punto di vista personale e parziale, vede l’orrore e la misera senza perdere la serenità. -

Cosa dice alla fine del diario? A chi lo porta? Alla fine del diario, Etty scrive “Si vorrebbe essere un balsamo per molte ferite”. Prima della sua partenza, affida gli otto quaderni che compongono il suo diario all’amica Maria, con la richiesta di consegnarli a guerra finita allo scrittore Klaas Smelik. Sperava d lasciare una traccia dietro di sé, nella speranza che il suo percorso fosse di aiuto ad altri, in altre circostanze. I diari non riscontrarono l’interesse degli editori fino al 1980, anno in cui venne pubblicata la prima edizione olandese (1981).

-

Comprendere; rapporto con il giornalista, mechanicus, mentre alla poesia è affidato il compito di dire la miseria, l’oggettività poetica, l’andare a fondo delle cose.

Hannah Arendt: - il comprendere; parla anche di Wuber Premesso che la riflessione di Arendt non può essere astoricizzata, prescindendo dai fatti storici cui sui riferisce e da cui scaturisce, è interessante nel contesto filosofico, della filosofia della storia, il concetto di “comprendere”. Arendt ribadisce a più riprese come questo si configuri come un dovere, sia in termini giuridici, per assicurare quanta più imparzialità al giudizio, sia in termini umani, per chi si accinge a effettuare un’analisi a posteriori. Il comprendere è un atto conoscitivo, che non può né deve essere banalizzato in un mero rapporto di causa effetto. In una prospettiva esistenzialistica, a fondamento di tale atto sta il modo d’essere dell’uomo come poter-essere. Da cui .. - “male banale” Con la definizione “male banale” Arendt fa emergere il rapporto tra il problema del male e la facoltà di pensiero: a discapito delle teorie filosofiche tradizionali secondo cui per fare il male è necessario voler-fare, dunque la volontà e consapevolezza dell’atto, dall’analisi dell’imputato Eichmann emerge tutt’altro ritratto: quello di un uomo incapace di pensare, di compiere autoanalisi, e allo stesso tempo privo di motivazioni ideologiche o personali a motivo delle sue azioni. Si ritrovano, nel tipo di società emergente negli anni dei totalitarismi, alcuni elementi per spiegare la nuova tipologia di male senza precedenti: l’apparato tecnico-burocratico, alla mercè di una politica corrotta, provoca nell’individuo una deresponsabilizzazione: la tecnica, finalizzata per definizione all’efficienza (come dice Galimberti) perde di vista lo scopo ed è perciò disumanizzante. Si può comprendere le affermazioni di Eichmann, nel non ritenersi colpevole dei crimini a lui imputati; afferma in difesa lui stesso di non aver mai ucciso un ebreo. La parcellizzazione del lavoro cui Eichmann si trova sottoposto gli fa dire di essersi “solo” occupato di trasporti. - il male è incapacità di pensare? No, c’è di mezzo la volontà (intellettualismo etico)

la visione di Arendt circa il male banale sta appunto nel suo ritenere che il male non possa essere radicale, che non abbia radici, ideologiche o di sorta, bensì che si propaghi come funghi, sfidando così il pensiero che ne cerca le cause. Le furono mosse più critiche circa tale definizione, una fra le quali vede la sua posizione vicina all’intellettualismo etico di matrice socratica: come giustificare la partecipazione dei grandi intellettuali al nazional-socialismo, non da ultimo lo stesso Heidegger? Inoltre, una simile posizione implicherebbe una capacità di fare il male insista nella natura dell’uomo stesso, avente come conseguenza l’annullamento di ogni libertà individuale di scelta. Come scrive Kierkegaard, in La malattia per la morte, la grecità postula un imperativo categorico morale, cui manca tuttavia una determinazione dialettica, ovvero il passaggio tra l’aver compreso il bene e l’attuarlo: la morale cristiana parte da questo difetto, cui risponde con la concezione della volontà e del peccato come vizio della volontà. Ciò è possibile grazie al passaggio di un dato tempo, un interim, da parte della volontà cosicchè la conoscenza del bene si faccia più ...


Similar Free PDFs