Psicologia del male PDF

Title Psicologia del male
Author marti 96
Course Psicologia sociale
Institution Università degli Studi di Verona
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Summary

Riassunto completo e chiaro del libro "Psicologia del male" di Bocchiaro
Corso: Psicologia sociale...


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PSICOLOGIA DEL MALE CAPITOLO PRIMO. IL MALE E IL POTERE DELLA SITUAZIONE Un uomo per terra, lievemente ferito, prova ad attirare l’attenzione di un passante. Blocchiamo l’immagine; che farà il ragazzo? Si fermerà a soccorrere o passerà altrove? Difficile dirlo, tuttavia, se si vuole giungere a previsioni accurate, bisogna prendere in esame più dettagli che definiscono il contesto in cui l’azione ha luogo piuttosto che avere informazioni sulla sua personalità. Due ricercatori dell’Università di Princeston studiarono proprio la condotta dei passanti dianzi ad una persona in difficoltà. I soggetti dei loro esperimenti erano studenti di teologia convinti di partecipare ad una ricerca su temi religiosi. La procedura prevedeva che ad un certo punto i partecipanti si spostassero in un altro edificio del campus per registrare un sermone sul buon samaritano; poco prima di lasciare il laboratorio, metà di loro venne informata di essere in anticipo mentre all’altra metà venne detto di essere in ritardo per l’appuntamento con l’assistente. Durante il tragitto, si imbatterono in uno sconosciuto a terra nel corridoio che chiedeva aiuto. I risultati della ricerca dimostrarono che, tra quelli convinti di essere in ritardo, il 10% soccorse la vittima. Chi, invece, pensava di essere in anticipo si fermò nel 63% dei casi. Questo esperimento ci fa comprendere come una variabile situazionale come quella del tempo possa agire come FATTORE CANALE, cioè da facilitatore per un modello di azione specifico come il soccorrere una vittima. ZIMBARDO, psicologo statunitense, a questo proposito ha affermato che le situazioni sociali possono esercitare un’influenza cosi potente su di noi da indurci a comportarci in modi che non avremmo potuto mai prevedere. LIBERO ARBITRIO e CONDOTTA RAZIONALE diventano allora illusioni quando la persona opera in contesti sociali insoliti anche se ciò però può sembrare difficile da accettare. Detto questo, sembra allora che la malvagità non sia appannaggio esclusivo di individui devianti o pazzi, ma che chiunque possa infierire contro un altro essere umano. La psicologia sociale, in questo, ha avuto un ruolo essenziale nel ritenere ciascuno capace, potenzialmente, di essere carnefice. Sono davvero poche le persone che, in quanto “cattive”, compiono il male in maniera deliberata perché amano farlo, ma per la stragrande maggioranza dei casi, la violenza estrema deriva da normali processi psicologici ed è attivata da individui comuni in circostanze straordinarie.

NOI, LIBERI DAL MALE.

La quasi totalità delle persone, oltre a ritenersi immune dalla possibilità di compiere azioni crudeli, ritiene di essere al di sopra della media rispetto a molte qualità, come onestà, simpatia, generosità, e così via. Mettendo, conseguentemente, in atto attività in cui hanno maggiori probabilità di riuscita, confrontandosi con chi è in condizioni peggiori. Tutto ciò contribuisce ad una sopravvalutazione di sé. La tendenza a pensarsi al di sopra della media, però, viene associato generalmente al sentirsi meno esposti degli altri agli eventi spiacevoli della vita. Questo OTTIMISMO ILLUSORIO produce, però, l’inevitabile effetto di esporre maggiormente a ciò che si ritiene di poter controllare e quindi è vitale lottare contro gli automatismi perché, oltre che un dovere, è un atto di umiltà da parte di chi considera l’uomo un impasto di potenzialità pronte adessere trasformate in condotte benevole o malvagie a seconda delle circostanze.

IL MALE OSSERVATO E QUELLO AGITO: DIFFERENZE INTERPRETATIVE La tendenza a giudicare il male compiuto da altri come un comportamento sadico, cattivo e malvagio, dagli psicologi viene chiamato ERRORE FONDAMENTALE DI ATTRIBUZIONE. L’essere umano, infatti, sembra incapace di riconoscere il potere dei fattori situazionali, persino quando il comportamento osservato è palesemente riconducibile ad essi. Ma quali meccanismi ci inducono a commettere l’errore fondamentale di attribuzione? La risposta va ricercata nella salienza percettiva e nelle differenze culturali; la prima si riferisce al fatto di attribuire la causa della condotta osservata a ciò che principalmente colpisce la nostra attenzione, ciò che notiamo. La seconda, invece, compare invece quando la società occidentale veicola l’idea di un essere umano indipendente, libero di scegliere il comportamento più in linea con le proprie preferenze e caratteristiche di personalità. Così si tende a cercare dentro di lui le spiegazioni a quanto accaduto e le si troverà nel pensarlo prepotente, sgarbato maschilista, a seconda dei gusti. Questa ingenuità ci conduce dritti ad un giudizio affrettato e spietato nel confronti di chi ha compiuto azioni violente. Ma che succede quando bisogna compiere delle attribuzioni su se stessi? In questo caso la salienza percettiva orienta l’attenzione sulla situazione, su persone ed eventi esterni, cercando di preservare un’immagine coerente di se stesso. Anche gli stili linguistici condizionano notevolmente le differenze attore-osservatore nel processo attribuzionale. Numerosi studi hanno infatti dimostrato che tendiamo a servirci di un linguaggio concreto quando parliamo di noi e ad utilizzare un linguaggio distratto quando ci riferiamo agli altri. Nel primo caso facciamo uso abbondante di verbi per il richiamo alla situazione, mentre nel secondo caso utilizziamo maggiormente aggettivi, per il richiamo alla persona. La differenza attribuzionale tra chi osserva e chi agisce è allora il risultato di

normali processi psicologici e culturali che dovremmo imparare a conoscere e a gestire.

DUE QUESTIONI: GENERALIZZAZIONE DELLA RICERCA

DEI

RISULTATI

ED

ETICA

La ricerca si dice dotata di VALIDITA’ ESTERNA quando le conclusioni raggiunte possono essere estese a luoghi, individui, e tempi diversi da quelli considerati dallo studioso. Garantire questa validità esterna è difficile poiché richiede una SELEZIONE CASUALE dei partecipanti, in modo che tutti i membri della popolazione di riferimento abbiano la stessa probabilità di essere scelti, sia una CORRISPONDENZA tra le condizioni della ricerca e la realtà a cui si riferisce. Questi requisiti, però, in maniera specifica devono essere rispettati se si vogliono generalizzare i dettagli dei risultati; questo non è però lo scopo della psicologia sociale, il cui interesse riguarda principalmente la generalizzazione di una conclusione più ampia relativa al fenomeno oggetto di studio e quindi ciò che interessa è capire se gli stessi processi psicologici si attivino in chiunque venga a trovarsi in una situazione analoga in qualunque punto del mondo. Un’altra domanda che ci possiamo porre è quella di capire se sia o meno opportuno condurre delle ricerche in cui i partecipanti sono destinati a sperimentare elevati livelli di stress o angoscia utile alla scienza psicosociale, ma è necessario che lo faccia tutelando il benessere psicofisico di chi viene studiato. Una questione altrettanto spinosa per lo scienziato riguarda il ricorso all’inganno, pratica abbastanza diffusa in psicologia sociale vista la particolarità dei temi indagati perché, al contrario, svelare ai partecipanti dettagli della sperimentazione, potrebbe indurre molte persone a rifiutare di prendere parte ad indagini su questioni delicate. O in maniera opposta laddove accettassero, ci sarebbe il rischio che agiscano in modo da confermare aspettative del ricercatore o che si comportino in accordo con ciò che ritengono sia giusto in quella situazione, andando ad invalidare la ricerca. Quindi, al fine di raccogliere dati validi è opportuno in psicologia sociale nascondere l’esatto scopo dello studio anche se comunque vengono date sufficienti informazioni affinchè l’eventuale decisore sia totalmente consapevole. Successivamente, alla fine della ricerca, si giunge ad un resoconto sperimentale denominato DEBIEFRING, in cui il ricercatore fornirà a ciascun partecipante la descrizione completa della ricerca e delle finalità e tratterà eventuali effetti negativi in modo che nessuno lasci il laboratori in uno stato d’animo deluso o ansioso. NOTE SUL GIUSTIFICAZIONISMO;

Spiegare non è giustificare, la precisazione è necessaria quando, indagando sul male, si rivolge lo sguardo più alla situazione che alla persona poiché il fatto di disapprovare una condotta non deve impedire di spiegare la genesi usando tutta la correttezza di cui si è capaci.

PSICOLOGIA DEL MALE, CAPITOLO SECONDO “QUANDO L’OBBEDIENZA è DISTRUTTIVA: IL CASO EICHMANN” Adolf Eichmann fu un ufficiale delle SS il cui nome emerse per la prima volta durante il processo di Norimberga, diventando subito sinonimo di orrore: Eichmann era, infatti, il responsabile delle operazioni d’identificazione e trasporto degli ebrei verso i campi di concentramento. L’uomo fu arrestato nel1960 a Buenos Aires con la pesante accusa di essere stato uno dei principali artefici della Shoa. Egli si giustificò dicendo di aver solo obbedito a degli ordini, cosa che non convinse né giudici né le persone. Per tutti, infatti, si trattava di un individuo perverso e pericoloso. Milgram, psicologo sociale americano, non fu però d’accordo con questa idea, sostenendo invece che bisogna innanzitutto analizzare il contesto. Egli così facendo si orientò da subito verso una spiegazione che riportasse la condotta di Eichmann ad un’obbedienza cieca anziché ad un’aberrazione disposizionale. Per verificare tale ipotesi, però, lo psicologo americano ideò un paradigma sperimentale in cui gente comune riceveva l’ordine di infliggere gravi sofferenze fisiche ad uno sconosciuto. In questo modo si contrapponeva una norma sociale del tipo “obbedisci all’autorità” ad un precetto morale del tipo “non fare del male agli altri”, dando la possibilità a Milgram di conoscere di più sui meccanismi dell’obbedienza e forse su Eichmann.

L’ESPERIMENTO DI MILGRAM. I partecipanti alla ricerca furono reclutati tramite un annuncio su un giornale locale e il campione risultò composto da quaranta protagonisti fra i venti ed i cinquant’anni, tutti uomini di varia estrazione sociale. Fu loro comunicato che avrebbero collaborato, sotto ricompensa, a un esperimento sulla memoria e sugli effetti dell’apprendimento perché, come già detto, è prassi nascondere il vero obiettivo per evitare di condizionare il comportamento. Nella fase iniziale della prova, lo sperimentatore, assume un collaboratore suo complice. Poi, il soggetto ignaro veniva sorteggiato sempre come insegnante e il complice sempre come suo allievo. I due soggetti venivano poi condotti nella stanza predisposta per l’esperimento. L’insegnante era posto di fronte al quadro di controllo di un generatore di corrente elettrica, composto da 30 interruttori a leva posti in fila orizzontale, sotto ognuno dei quali era scritta la tensione che andava dai 15 volt del primo ai 450 volt dell’ultimo. Sotto ogni gruppo di 4interruttori apparivano le seguenti scritte: (1–4) scossa leggera, (5–8) scossa media, (9–12) scossa forte, (13–16) scossa molto forte, (17–20) scossa intensa,

(21–24) scossa molto intensa, (25–28) attenzione: scossa molto pericolosa, (29–30) XXX. All'insegnante era fatta percepire la scossa relativa alla terza leva (45 V) in modo che si rendesse personalmente conto che non vi erano finzioni e gli venivano precisati i suoi compiti come segue: Leggere all'allievo coppie di parole, per esempio: "scatola azzurra", "giornata serena" ripetere la seconda parola di ogni coppia accompagnata da quattro associazioni alternative, per esempio: "azzurra – auto, acqua, scatola, lampada"decidere se la risposta fornita dall'allievo era corretta in caso fosse sbagliata, infliggere una punizione, aumentando l'intensità della scossa a ogni errore dell'allievo Quest’ultimo veniva legato ad una specie di sedia elettrica e gli era applicato un elettrodo al polso, collegato al generatore di corrente posto nella stanza accanto. Doveva rispondere alle domande, e fingere una reazione con implorazioni e grida al progredire dell'intensità delle scosse(che in realtà non percepiva: ricordiamo che colui che sempre fungeva da alunno era un collaboratore dello sperimentatore), fino a che, raggiunti i330 V, non emetteva più alcun lamento, simulando di essere svenuto per le scosse precedenti Lo sperimentatore aveva il compito, durante la prova, di esortare in modo pressante l'insegnante: "l'esperimento richiede che lei continui", "è assolutamente indispensabile che lei continui", "non ha altra scelta, deve proseguire". Il grado di obbedienza fu misurato in base al numero dell'ultimo interruttore premuto da ogni soggetto prima che quest'ultimo interrompesse autonomamente la prova oppure, nel caso il soggetto avesse deciso di continuare fino alla fine, al trentesimo interruttore. Soltanto al termine dell'esperimento i soggetti vennero informati che la vittima non aveva subito alcun tipo di scossa Alcune settimane prima di iniziare lo studio, Milgram aveva descritto il progetto ad alcuni studenti di psicologia che gli risposero all’unanimità che solo una minoranza sarebbe andata avanti fino alla fine e pareri simili giunsero da un gruppo di psichiatri. In realtà, non fu affatto così perché tutti inflissero le scosse elettriche alla vittima, tutti proseguirono fino alla scossa numero 20, da 300 volte il 65% andò avanti fino alla fine. Milgram cercò differenti spiegazioni a quanto accaduto in laboratorio, ipotizzando che forse o si aveva a che fare con personalità già predisposte ad avere una avversione nei confronti dei più deboli o i partecipanti, avendo scoperto il trucco, dessero la scossa convinti della loro inoffensività. Entrambe le ipotesi però vennero poi smentite e quindi si dedusse che per capire cosa spinse gli uomini normali a comportarsi con tale cattiveria bisognava guardare altrove, ossia ai particolari modelli di interazione sociale e a determinate caratteristiche della situazione in cui l’individuo agisce

RITORNIAMO AD EICHMANN. Adolf eichmann, fu l’ex ufficiale nazista chiamato a difendersi da ben 15 capi d’accusa per crimini contro l’umanità e contro il popolo ebreo. Al processo apparì come un uomo di 55 anni esile e stanco in viso. Ciò che in particolare rapì l’attenzione di molti fu che, da un punto di vista psichiatrico, venne ritenuto totalmente sano, come una persona comune, né violenta né cinica, anzi venne addirittura definito un esempio di “psicologia ideale”. Perfino il prete che lo visitò in carcere si espresse favorevolmente. Ed è proprio per questo che la domanda lecita che ci poniamo è “com’è possibile che un uomo così normale sia riuscito a compiere delle azioni malvagie?” che siano allora le caratteristiche della situazione ad avvicinare al male? A QUESTIONE DELLA DISTANZA DALLA VITTIMA L’elevato livello di obbedienza riscontrato da Milgram fu determinato dalla distanza allievo-insegnante: quando i due furono posti nello stesso ambiente, il numero di obbedienti risultò dimezzato. Non è ovviamente la distanza di per sé a produrre obbedienza ma i meccanismi psicologici che essa scatena, poiché la distanza rende astratto il dolore altrui, riduce l’imbarazzo e il senso di colpa nei confronti della vittima, ma anche la capacità di cogliere il nesso tra il proprio agire e le sue conseguenze. Cos’ accadde ad Eichmann. Egli, infatti, dietro la sua scrivania firmava ordini per la deportazione di esseri umani a lui sconosciuti; egli non segnava la fine di una vita ma il semplice passaggio della pratica ad altre mani. Eichmann, infatti, non aveva un contatto diretto con la sofferenza degli ebrei. SEQUENZIALITA’ DELL’AZIONE L’0bbedienza riscontrata in laboratorio è dovuta anche alla procedura sequenziale spiegata da Milgram: c’era una sorta di meccanismo perverso che rendeva l’insegnante incapace di disobbedire poiché la decisione di arrestare il processo avrebbe comportato una negazione di quanto fatto fino a quel momento, nonché la necessità di trovare una giustificazione logica per il ritiro dalla prova. Anche Eichmann fu vittima, molto probabilmente, di un simile meccanismo sempre più atroce. Il coinvolgimento fu graduale e fermarsi avrebbe rappresentato un’ammissione dei propri errori e quindi avrebbe inevitabilmente causato un faccia a faccia con la propria morale.

AUTORITA’ DI CHI IMPARTISCE GLI ORDINI Adolf Eichmann aveva un superiore presso l’ufficio centrale per la sicurezza del Reich a cui dover obbedire. Un comportamento così spietato fu, però, anche sostenuto dall’ideologia nazista che propagandava di eliminare le “razze parassite” sulla base di una presunta esigenza morale di rinnovamento che che ben presto trovò il consenso da gran parte del popolo tedesco. Il massacro fu perpetuato con l’aiuto di un’efficacissima strategia difensiva: la colpevolizzazione della vittima.

Infatti, le vittime venivano spesso ritenute responsabili della loro condizione, il che legittimava la violenza nei loro confronti. Il ricorso alla colpevolizzazione dell’altro si verificò anche nel laboratorio di Milgram, dove molti obbedienti dichiararono a fine esperimento che l’allievo meritava le scosse, considerata la scarsa intelligenza e la mancanza di carattere dimostrata. Questo è ciò che fecero anche i nazisti. Eichmann, come ciascuno dei partecipanti all’esperimento di Milgram, si muoveva in un contesto impregnato dalla norma dell’obbedienza che però metteva in scena la contrapposizione tra adesione all’autorità e precetto morale, contrapposizione che stritola emotivamente la persona obbligandola a trovare una soluzione che consiste, in sostanza, nell’accogliere acriticamente le direttive dell’autorità, considerandosi non più responsabili per il dolore arrecato alla vittima ma semplici esecutori di una volontà altrui. Questa condizione è denominata STATO D’AGENTE, opposta allo STATO D’AUTONOMIA in cui invece si agisce di propria iniziativa. Nello stato d’agente diventa prioritaria l’esecuzione scrupolosa degli ordini.

che stritola emotivamente la persona obbligandola a trovare una soluzione che consiste, in sostanza, nell’accogliere acriticamente le direttive dell’autorità, considerandosi non più responsabili per il dolore arrecato alla vittima ma semplici esecutori di una volontà altrui. Questa condizione è denominata STATO D’AGENTE, opposta allo STATO D’AUTONOMIA in cui invece si agisce di propria iniziativa. Nello stato d’agente diventa prioritaria l’esecuzione scrupolosa degli ordini.

LA DISOBBEDIENZA COME VALORE Come abbiamo potuto capire grazie all’esperimento di Milgram e allo studio di Eichmann, l’uomo è capace di tradire la propria coscienza per disobbedire a un sistema sociale che punta ad assicurarsi l’ordine e il funzionamento delle strutture gerarchiche. Chi volesse riscattare la propria dignità dovrebbe rinunciare ai benefici della sottomissione ed essere in grado di scegliere la condotta più opportuna per ogni circostanza. A tutto ciò bisogna poi unire in profondo senso di giustizia e una passione per se stessi. Possiamo, in conclusione affermare che, il patrimonio emotivo-cognitivo di ciascuno orienta il comportamento ma su di esso incidono in maniera pesante e indeterminabile numerose variabili situazionali.

CAPITOLO TRE PSICOLOGIA DEL MALE, “INERTI DI FRONTE AL DRAMMA: ILDELITTO GENOVESE ”Il 13 Marzo 1964 a New York, una donna, Kitty Genovese, di ritorno dal lavoro viene accoltellata da un uomo, nonostante le sue urla per chiedere aiuto. Purtroppo, nessuno la soccorse. Le indagini rivelarono che 38 persone

ebbero modo di sentire e 6 anche di vedere momenti diversi dell’aggressione, un dato sul quale per molto tempo i giornali si soffermarono, sottolineando l’insensibilità dei newyorkesi. Due psicologi sociali, John Darley e Bibb Latané alcuni mesi dopo decisero di avviare uno studio sperimentale per capire il meccanismo psicologico messo in atto da queste persone durante la tragedia, studio che diventò un classico della psicologia. L’idea dei ricercatori era quella di riprodurre, in ambiente controllato, una situazione d’emergenza alla quale avrebbero assistito un gruppo variabile di persone; secondo le loro ipotesi, la reazione di ciascuno sarebbe stata influenzata dal numero di astanti ( ovvero coloro che assistono alla scena e sono presenti in quel luogo) anziché dalle proprie caratteristiche...


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