La critica dell\'uso delle droghe, Charles Baudelaire PDF

Title La critica dell\'uso delle droghe, Charles Baudelaire
Author Andrea Locci
Course Letteratura francese
Institution Università degli Studi di Napoli Federico II
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analisi dell'opera di charles Baudelaire sui paradisi artificiali con analisi della canzone Cantico dei drogati di de Andrè Fabrizio...


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Locci Andrea V Liceo Scientifico - Istituto “M. C. Brando” 27 Ottobre 2020 La critica dell’uso delle droghe Riflessione «Ho licenziato Dio gettato via un amore! per costruirmi il vuoto nell'anima e nel cuore […] Chi mi riparlerà di domani luminosi,! dove i muti canteranno e taceranno i noiosi? Quando riascolterò il vento tra le foglie! sussurrare i silenzi che la sera raccoglie?! Io che non vedo più che folletti di vetro! che mi spiano davanti che mi ridono dietro. Come potrò dire a mia madre che ho paura? […] Quando scadrà l'affitto di questo corpo idiota! allora avrò il mio premio come una buona nota.»

Scegliere quali versi citare di una canzone di De Andrè non è mai un’impresa semplice: ogni parola sottratta provoca stridore, un dolore simile a quello causato da una punta di diamante mentre incide sull’anima un perenne segno che non si estinguerà col passare del tempo. Tuttavia i limiti entro i quali ci muoviamo per elaborare questa riflessione impongono per forze maggiori un restringimento del campo interpretativo del testo, tratto dall’album Tutti morimmo a stento del 1968 (anno, come sappiano, particolare nella recente storia italiana e che tornerà più tardi in questa riflessione). Già l’altra volta, in riferimento al confronto tra Baudelaire e il cantautore genovese, abbiamo sottolineato come entrambi gli artisti «sempre cercato di dar voce, nel corso della loro carriera poetica agli ultimi, agli emarginati: entrambi rifiutavano l’idea secondo cui la bellezza fosse rintracciabile non solo in ciò che i canoni comuni di pensiero identificano come “bello”, ma che nella vegetazione “malata”, mostruosa, velenosa, perversa, emblematica del male, e nelle realtà più corrotte si potesse trovare la vera chiave di lettura del mondo moderno, il quale aveva bisogno di essere espiato. Ed è proprio “dal letame che nascono i fiori”»; ancora una volta, quindi, all’interno del “Cantico dei drogati” - che inizialmente avrebbe dovuto intitolarsi “Cantico dei folletti di vetro” Faber dà voce a chi non ne ha, o almeno crede di non averla, da un’angolazione che mira all’espressione di un annichilamento insieme materiale e spirituale all’interno della quale non manca tuttavia un barlume di speranza. In una delle sue più famose interviste, De Andrè sostiene che “il Cantico dei Drogati, per me, che ero totalmente dipendente dall'alcool, ebbe un valore liberatorio, catartico. Però il testo non mi spaventava, anzi, ne ero compiaciuto. È una reazione frequente tra i drogati quella di compiacersi del fatto di drogarsi. Io mi compiacevo di bere, anche perché grazie all'alcool la fantasia viaggiava sbrigliatissima.” Il suo obiettivo principale è infatti rappresentare la realtà esperita attraverso lo stato della tossicodipendenza, che viene concepita - e qui l’atemporalità del messaggio del cantautore genovese, che trova una sua giustificazione sia nell’Ottocento quanto ai giorni nostri - come una ribellione metafisica o esistenziale nei confronti di una realtà che appare ostile e 1

nemica agli occhi dei consumatori di tali sostanze, generando così in essi il desiderio di fuggire da una vita che appare al di là delle proprie misure e capacità. Ecco quindi spiegata la causa prima di quel “sordo lamento” che compare nei primi versi del testo preso come riferimento: un lamento che, ci spiega De Andrè, germoglia in quel vuoto nell'anima e nel cuore, vale a dire quella carenza di affetto che tutti sperimentano almeno una volta nel corso della propria vita e che - appurata la vacuità della dimensione interiore - porta l’essere umano a riversare verso l’esterno questa continua ricerca inappagata di completamento; ma mentre l’interiorità è l’unica strada che permette all’uomo di operare su se stesso tramite se stesso, indirizzando il proprio spirito al miglioramento, nella dimensione esteriore l’uomo si scopre privato di quegli strumenti che naturalmente possiede e che quindi vengono sostituiti con delle sostanze che alterano il proprio stato psichico, nutrendo in lui l’illusione effimera di aver trovato una propria compiuta realizzazione nel mondo. Da ciò scaturisce quell’interrogativo che a più battute ritorna all’interno del testo di De Andrè, “come potrò dire a mia madre che ho paura?”, paura di quei folletti di vetro che spiano davanti e ridono dietro e che costringono il tossicodipendente all’isolamento. Dalle parole della canzone traspare soprattutto la desolazione dei tossicodipendenti, la loro continua ricerca di felicità, che inevitabilmente scivola nell’esperire la morte prematuramente, giorno dopo giorno (“chi mi ha messo al mondo dove vivo la mia morte con anticipo tremendo). La valutazione negativa con cui viene presentata l’esistenzialista umana viene però confutata con l’ultimo periodo della canzone, con il quale Faber ammette la possibilità di edificare un rapporto costruttivo e positivo nei confronti della vita umana. Lo spirito filantropico e simpatetico del drogato protagonista del testo trova nella supplica finale - “Tu che m'ascolti insegnami un alfabeto che sia differente da quello della mia vigliaccheria.” - in cui è possibile scorgere il De Andrè polemico, disgustato dalla società in cui è costretto a vivere. L’ipocrisia dei tempi correnti, il proibizionismo che si contrappone alla volontà di comprendere le esigenze altrui portano infatti l’autore - che rappresenta idealmente il protagonista del brano - a considerarsi colpevole nei confronti dei propri simili, ma al contempo fortemente deluso dall’incapacità degli stessi di aiutare i più bisognosi, di chi lancia un grido di aiuto nella notte e chi sceglie consapevolmente di evadere dai propri sentimenti che altro non sono se non fonte di dolore e - conseguentemente - di dipendenza. Implicito è quindi il messaggio di fondo che si vuole trasmettere: riprendendo kantianamente il valore che l’uomo possedeva nella rivoluzione operata dal filosofo di Königsberg sia in ambito gnoseologico che etico, Faber afferma la necessità di riconoscere ad ogni uomo, nella sua finitezza e unicità, una dignità intellettuale che lo guidi nell’azione pratica, ab-soluta da qualsiasi inclinazione sensibile e condizionamento esterno: così come sostengono molte interpretazioni critica dei testi di De Andrè, “per una società che ha esaltato la furbizia e il mito del successo a qualunque costo, si tratta di un cambio epocale”, concetto già esposto analiticamente nell’Ottocento dal Baudelaire saggista de “I paradisi artificiali”. Come giustamente sottolinea Giunta all’interno del suo manuale, e come riflettevamo anche nella precedente analisi, Baudelaire fu uno dei più grandi poeti della Francia della seconda metà del XIX secolo. La Parigi in cui il poeta si muove è però la matrice dalla quale nascono quegli intellettuali passati alla storia come “maledetti” - affini, tra le altre cose, agli scapigliati italiani -, vale a dire personalità emarginate dalla società che conducevano una vita dissoluta, fatta di “paradisi artificiali”, realtà parallele rispetto a quella nella quale vivevano. Ecco quindi che il poeta nel suo saggio tratta dell’uso - che si andava diffondendo a quell’epoca - di droghe come l’oppio e l’hascish, assumendo una posizione del tutto inaspettata. È difatti diffuso il mito secondo cui Baudelaire scrivesse sotto l’effetto delle droghe (non si dimentichi che era uno dei 2

più assidui frequentatore del club dei mangiatori di hascish, insieme a Balzac, Dumas padre e Delacroix): ma è, appunto un mito privo di fondamento, una leggenda legata all’immagine del poeta bohémien che «calpesta le convenzioni della società». Ne I paradisi artificiali Baudelaire criticava anzi l’uso delle droghe, non perché le droghe siano qualcosa di cattivo o immorale, ma perché sono finalizzate al miglioramento dell’uomo: essi annientano la volontà di potenza (quella che costituirà il perno fondamentale della riflessione filosofica di Schopenauer), diminuiscono la coscienza, assopiscono l’intelligenza. «Come il vino, che inebria per un momento ma non modifica in niente il nostro essere e ci lascia, passata la sbornia, di fronte a noi stessi e agli stessi problemi che avevamo prima, anche la droga è una soluzione effimera». Riportiamo di seguito alcuni estratti dell’opera per poi commentarli dettagliatamente. «Anzitutto, come ho lungamente spiegato, l’hascish non rivela all’individuo nient’altro che l’individuo stesso. È vero che questo individuo viene per così dire elevato a una potenza cubica e spinto all’estremo; e poiché è ugualmente certo che il ricordo delle impressioni sopravvive all’orgia, la speranza di questi utilitaristi non pare, a prima vista, del tutto priva di ragione. Ma li pregherò di osservare che i pensieri da cui contano trarre un vantaggio così grande non sono belli come sembrano nel loro travestimento momentaneo, coperti di orpelli magici. […] questa speranza è un circolo vizioso: ammettiamo per un istante che l’hascisc dia, o almeno accresca il genio; ma essi dimenticano che è nella natura dell’hascisc indebolire la volontà e che pertanto esso concede da una parte ciò che toglie dall’altra: in altre parole, dà immaginazione senza la facoltà di trarne profitto. Infine, pur supponendo un uomo abbastanza accorto e vigoroso per sottrarsi a questa alternativa, bisogna pensare a un altro fatale, terribile pericolo, che è quello di tutte le assuefazioni. […] Immaginate la sorte spaventosa di un uomo la cui immaginazione paralizzata non sa più funzionare senza l’aiuto dell’hascisc o dell’oppio?».

L’aspra critica che l’autore muove alle sostanze che alternano le capacità psichedeliche umane sembra essere abbastanza esplicita in questo estratto - come d’altronde in tutta l’opera, che non manca di presentare delle epistole personali che Baudelaire inviava a dei suoi conoscenti e che decise di inserire nel testo come testimonianza diretta della natura ingannevole delle sostanze stupefacenti. Analogamente a ciò che dicevamo prima, anche il poeta e saggio parigino era persuaso della convinzione che l’uomo, mosso dalla continua ricerca del “gusto dell’infinito” e consapevole dell’inadeguatezza dei messi a sua disposizione, cerchi delle vie secondarie per arrivare più velocemente all’obiettivo finale. L’interrogativo che il poeta si pone riguarda però l’efficacia di queste scorciatoie: “orrenda è la sorte dell’uomo la cui immaginazione, paralizzata, non sia più in grado di funzionare senza il soccorso dell’hashish o dell’oppio”, sostiene alla fine dell’estratto riportato. Difatti, dopo aver trovato una fuga effimera all’interno di questi “paradisi artificiali”, l’uomo cade in una disperazione ancora più profonda, un inferno terrestre imputatoselo con l’uso consapevole di tali sostanze. Ma possono le droghe favorire il processo di genesi e creazione artistica? Riprendendo un vecchio detto, il genio è per dieci per cento ispirazione e per novanta per cento traspirazione, cioè fatica, applicazione, studio. Nel brano Baudelaire dice qualcosa di simile: per creare, per fare arte, bisogna anzitutto lavorare e pensare («la magia li inganna e accende per loro una falsa felicità e una falsa luce; noi invece, poeti e filosofi, abbiamo rigenerato la nostra anima con il lavoro ininterrotto e la contemplazione; con l’assiduo esercizio della volontà e la nobiltà permanente dell’intenzione abbiamo creato per nostro uso un giardino di vera bellezza. Confidando nella parola secondo cui la fede trasporta le montagne, abbiamo compiuto il solo miracolo di cui Dio ci abbia concesso la licenza!»): è questo l’unico umanissimo “miracolo” nel quale è lecito avere fede. Le strade alternative - come quella della droga, dello stato di ebbrezza provocato dall’hascisc e dell’oppio, del quale troviamo una testimonianza anche in un romanzo autobiografico dello scrittore 3

inglese Thomas De Quincey, Confessioni di un mangiatore di oppio -, non portano a nulla. In questo senso Baudelaire è figlio dei classici: crede nell’ispirazione, ma crede soprattutto nello studio (e infatti è nel mito greco che trova le sue metafore: l’Olimpo, le Muse; ed è tra i grandi pittori del Rinascimento italiano - Mantegna, Raffaello - che trova i suoi modelli). D’altro canto lo stesso autore sostiene che l’uomo «non è così derelitto, così privo di mezzi per conquistare il cielo da essere obbligato a invocare la farmaceutica e la stregoneria; non ha bisogno di vendere l’anima per pagare le carezze inebrianti e l’amicizia delle vergini del paradiso. Che cos’è un paradiso comperato a prezzo della salvezza eterna? […] Il poeta, rattristato, dice a se stesso: “Questi sventurati, che non hanno né digiunato né pregato e che hanno rifiutato la redenzione attraverso il lavoro, chiedono alla nera magia i mezzi per innalzarsi di colpo all’esistenza sovrannaturale”». Nel corso della storia della letteratura e dell’arte intesa nel suo senso più ampio, tuttavia, non tutti gli intellettuali hanno concordato - almeno nella pratica - con la riflessione elaborata da Baudelaire e sopra analizzata. Basti semplicemente pensare a quanti artisti - da Rimbaud a Verlaine, Modigliani, Picasso, Lautrec e ancora Shelley, Poe, Hemingway in letteratura, Parker, Fellini per quanto riguarda l’ambito musicale e cinematografico - scelsero nella loro vita di godere delle possibilità che la vita bohémien offriva loro, convinti che la dipendenza da sostanze potesse aprire loro le strade per raggiungere l’Assoluto, il Mistero dell’esistenza. Sicuramente però il caso più eclatante e rappresentativo di questa tendenza artistica, nonché quello a cui sono più emotivamente e sentimentalmente legato come segno di un’Amore ormai violato da tempo, è quello riguardante la figura dello scrittore americano Bukowski, il quale affermava senza troppe difficoltà che «quando sei felice bevi per festeggiare. Quando sei triste bevi per dimenticare, quando non hai nulla per essere triste o essere felice, bevi per fare accadere qualcosa». D’altronde la vita di Buk - tra i suoi due fallimentari tentativi di lavorare come impiegato, le sue dimissioni a cinquant’anni suonati, “per non uscire di senno del tutto”, e vari divorzi - incarna la più alta espressione di una personalità insoddisfatta della propria quotidianità, incapace e impossibilitata a trovare il giusto posto nel mondo e che ricerca quindi un’evasione dalla realtà con i soli mezzi che la realtà stessa, attraverso quegli “artifici naturali” amati da Baudelaire, offriva. I suoi testi, che culminano con la stesura di “Storie di ordinaria follia”, si identificano infatti come l’itinerario di un’anima pronta a scontare la sua pena qui sulla Terra, uno scrittore sofferente tra anarchia e società in cui dilaga il perbenismo e che cerca di anticipare - riprendendo i versi del Cantico dei drogati - la morte; non a caso i personaggi che Bukowski crea possono essere considerati dei suoi alter ero, delle icone lussuriose, relitti di un’epoca e di una realtà ormai corrotta nel profondo: uomini e donne che non hanno scrupoli nel seguire un «modus vivendi all’insegna del sesso, droga e rock’n’roll, moderni baccanali che allo scrittore non dispiacevano», uomini e donne che cercano di andare oltre i propri limili e possibilità, mossi da uno spirito dionisiaco che porta noi lettori attuali a paragonarli ad un’alterata interpretazione dell’oltreuomo nietzchiano. L’«ultimo dei poeti maledetti», costantemente oscillante tra una sigaretta e dell’alcol, rappresenta in maniera cruda e “sporca” il malcontento nutrito da più di una generazione, un malcontento che assumeva i caratteri di insofferenza verso un mondo avvertito come troppo stretto. A tal proposito non bisogna dimenticare che la storia del secolo precedente si distingue dalle precedenti e da quella immediatamente successiva per la portata innovativa e rivoluzionaria di cui si fa portavoce: nel giro di meno di un secolo assistiamo infatti al passaggio da una società restaurata alle lotte studentesche dei sessantottini, dalla corsa agli armamenti per le prime vere guerre mondiali ai primordi di emancipazione per il gentil sesso che 4

finalmente - attraverso la lotta delle suffragette ricordato anche dalla Cantarella all’interno del suo titolo “Il vaso di Pandora: le origini della discriminazione di genere nell’antica Grecia” - riusciva ad ottenere quella libertà tanto agognata; eventi, questi, che inevitabilmente in una prospettiva platonizzante della vita creano disorientamento negli individui più fragili i quali vanno quindi alla ricerca di nuovi punti di riferimento. Tuttavia se un tempo la droga era l’estremo rifugio dei disperati - emarginati, falliti, coloro che non erano riusciti a riprendersi chi da un lutto, chi da un rovescio finanziario, chi da un altro evento drammatico -, in seguito usare stupefacenti è diventato di moda tra la gente dello spettacolo, cantanti, attori, calciatori: figure quelle appena citare che considerano la droga non come una vergogna, ma qualcosa da esibire, pubblicizzare addirittura, come esempio di trasgressione e sfida alla regole. Il loro esempio è diventato, tuttavia, disastroso nel corso degli anni: milioni di giovani, in ogni parte del mondo, hanno voluto imitarli, non per un reale bisogno di “fuga” o di sollievo da condizioni disperate, ma per moda, per ricalcare le orme dei loro idoli. Così la droga è penetrata in ogni strato sociale, dai benestanti ai poveri, dagli uomini alle donne, dai trentenni agli adolescenti. Il continuo invito ad avere una vita spericolata ha portato, quindi, a considerare gli stupefacenti come necessari per divertirsi, per “esagerare”, per essere all’altezza dei ritmi frenetici della discoteca, delle sfide in auto, delle iniziative più folli. Come sottolinea anche il sociologo Galimberti, che sulla questione delle droghe ha dedicato buona parte della sua riflessione, «l’uso ormai così diffuso della droga non dipende tanto da un disagio “esistenziale” quanto “culturale”, in una società ormai pervasa da un’irrefrenabile voluttà nichilista», la stessa voluttà nichilista che caratterizza la visione oggettiva e protocollare che il protagonista delle anime morte, Cicikov aveva del mondo circostante. È risaputo, infatti, che il piacere è negativo e il desiderio è insaziabile: proprio per questi motivi spesso i tossicodipendenti non vengo visti come irrazionali che regrediscono comportandosi in maniera infantile, ma come un adulto in grado di discernere e riconoscere il disagio in cui versa per prescriversi autonomamente il rimedio specifico da utilizzare. Alla luce dei recenti fatti di cronaca, tuttavia, la situazione sembra essere diametralmente opposta: è recente la notizia del ragazzo che regala alla ragazza dell’eroina per il suo diciottesimo compleanno, giustificando la morte della stessa con un “me l’aveva chiesta per regalo”; o ancora la tragedia consumata a Terni la scorsa estate che ha visto come protagonisti due ragazzi di quindici e sedici anni, trovati senza vita una mattina sotto le coperte dopo aver ingerito, la sera precedente, un mix di sostanze stupefacenti; o ancora l’aumento esponenziali delle morti per overdose e depressione in America, causati dalla surreale realtà generata dalla pandemia mondiale - ormai e purtroppo familiare. Eppure le notizie di cronaca sembrano riservare per una tematica così delicata quale la tossicodipendenza sempre meno spazio rispetto al passato, cercando di ovviare il problema o addirittura giustificarlo. Tralasciando la tossicità del giornalismo moderno, sempre pronto alla deresponsabilizzazione, all’empatizzazione con chi “non c’entra nulla”, allo spostamento di focus sull’atteggiamento delle vittime - alla base di quello che viene tecnicamente definito “victim blaming”, è impossibile negare l’attualità di questo fenomeno, ormai tornato alla ribalta. È possibile tuttavia arginarlo una volta e per sempre? O resterà una piaga sociale che dalla notte dei tempi affligge l’essere umano? Sicuramente non si può procedere in maniera univoca quando si ragiona in termini di collettività, ma l’unica certezza che si può avere - e che spesso assume i caratteri di una speranza - riguarda la necessità di una maggiore sensibilizzazione sul problema. Si sa, i giovani di oggi sono lontani da quelli di un tempo: se un Guccini o un Gaber adolescenti furono 5

in grado si esprimete in musica il loro malcontento nei confronti della società a loro coeva, oggi si preferisce giocare sottobanco, eliminando idealmente un problema che persiste nella sua natura. C’è quindi bi...


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