LA Simbologia Bibuca DEL BERE E DEL Mangiare PDF

Title LA Simbologia Bibuca DEL BERE E DEL Mangiare
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Course Storia dell'italia contemporanea
Institution Università degli Studi Roma Tre
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LA SIMBOLOGIA BIBLICA DEL MANGIARE E DEL BERE: GIOIA E SAPIENZA ANTONIO BONORA, in Il cibo e la Bibbia. Atti del convegno organizzato da Biblia e dall’Accademia Italiana della Cucina (Prato, 2-3 maggio 1992), ed. fuori commercio, Roma 1992, pp. 7687.

Gustavo Doré “Un angelo nutre Elia nel deserto”. Incisione.

Mangiare e bere, nella Bibbia, sono una cifra simbolica del vivere umano. Non sono soltanto il soddisfacimento di un bisogno biologico, di un piacere sensibile, ma un atto simbolico. Nel mangiare e bere è impegnata la libertà umana che umanizza un gesto che da solo conserva una radicale ambiguità e che solo la decisione libera di amare può riscattare e far valere come azione positiva, mezzo di comunicazione. La simbolicità globale è chiaramente attestata in 1Re 4,20: "Giuda e Israele erano numerosi come la sabbia del mare, mangiavano e bevevano ed erano felici". Banchettare è simbolo di benessere e di tranquillità sociopolitica sotto il regno di Salomone, quindi condizione di felicità. Nell'oracolo contro loiakim, figlio del pio Giosia, Geremia ricorre alla simbolica del banchetto: "Forse tu agisci da re perché ostenti passione per il cedro? Forse tuo padre non mangiava e beveva? Ma egli praticava il diritto e la giustizia e tutto andava bene" (Ger 22,15). Significativa è la connessione tra mangiare/bere e diritto/giustizia; cibo e giustizia sono gli elementi costitutivi di una società prospera e ordinata. Un mangiare e bere disgiunti dall'attuazione etica della libertà, cioè dalla giustizia, possono diventare espressione del cedimento dell'uomo al suo piacere e al suo avere oppure di una stanca maniera di sopravvivere ai livelli inferiori dell'esistenza o di una forma di fagocitazione febbrile e distruttiva, consumatrice. In tutte le culture le crisi dissolutrici della società sono state, infatti, descritte mediante l'immagine di banchetti trasformati in orge disumane. Nostro scopo è di mettere in luce alcuni aspetti della simbolica biblica connessa con il mangiare e il bere. Mangiare e bere come doni di Dio. Nel progetto di Dio creatore, il cibo è un dono di Dio "Dio disse: Ecco, io vi do ogni erba che produce seme e che è su tutta la terra e ogni albero in cui è il frutto, che produce seme: saranno il vostro cibo" (Gen 1,29; cfr. 9,3). Il salmista canta il dono di Dio che si concretizza nel cibo e nella bevanda: "Fai crescere il fieno per gli armenti e l'erba al servizio dell'uomo, perché tragga alimento dalla terra: il vino che allieta il cuore dell'uomo, l'oblio che fa brillare il suo volto e il pane che sostiene il suo vigore" (Sal 104,14-15). Qohelet riconosce filosoficamente che "non c'è di meglio per l'uomo che mangiare e bere e godersela nelle sue fatiche; ma mi sono accorto che anche questo viene dalle mani di Dio. Difatti, chi può mangiare e godere senza di lui?" (Qo 2,24-25; cfr. 3,13; 5,17). Il mangiare e bere diventa cifra della condizione umana, dalla accettazione della vita come dono di Dio e umanizzazione del desiderio illimitato mediante una regolazione che consenta la felicità: "Approvo l'allegria, perché l'uomo non ha altra felicità, sotto il sole, che mangiare e bere e stare allegro" (Qo 8,15).

Di qui l'invito di Qohelet: "Va, mangia con gioia il tuo pane, bevi il tuo vino con cuore lieto, perché Dio ha giù gradito le tutte opere" (9,7). In tutti questi passi e in molti altri risulta evidente che nel banchetto l'uomo esperimenta che egli non fonda da sé il proprio essere, ma che piuttosto vive nel ricevere. Egli sperimenta se stesso come donato, vivente del dono di Dio. E il dono gli si presenta simbolizzato dal mangiare e bere. Per questo il banchetto diventa simbolo fondamentale dei rapporti tra Dio e l'uomo. Ma la ripetizione necessaria dei gesti di mangiare e bere mostra anche la contingenza e la creaturalità dell'uomo che non vive se non accogliendo sempre di nuovo i doni che sostengono la sua esistenza. La dieta vegetariana Secondo Gen 1, Dio creatore stabilì per l'uomo un regime vegetariano e solo dopo il diluvio e il moltiplicarsi della violenza concesse di nutrirsi anche della carne di animali: "Quanto si muove e ha vita vi servirà di cibo: vi do tutto questo, come già le verdi erbe" {Gen 9,3). Né l'uomo né gli animali si sono attenuti alla prescrizione vegetariana iniziale voluta dal Creatore: gli animali cominciarono a divorarsi a vicenda, gli uomini cominciarono a uccidere gli animali e a mangiare carne. Tutto questo sconvolse l'ordine originario della creazione e Dio stabilì un nuovo ordine, una specie di 'compromesso' reso necessario dalla diffusione della violenza. Dopo l'ingresso e la diffusione della violenza nel mondo non si ha più l'uomo come dominatore pacifico del mondo animale, ma come avversario degli animali. L'animale diventa 'preda' e cibo per l'uomo, sicché prova timore e terrore dell'uomo (Gen 9,2). Dio però proibisce di mangiare il sangue delle bestie uccise; "Soltanto non mangerete la carne con la sua vita, cioè il suo sangue" (Gen 9,2). Questa prescrizione è alla base delle principali leggi alimentari. L'uomo è dunque creato come guardiano e pastore degli animali, ma egli invece ricorre alla violenza contro gli animali, li uccide e li mangia. L'animale non è né violento né crudele, l'uomo è all'origine della violenza. La violenza e la crudeltà infatti sono realtà dello 'spirito'; l'uomo proietta poi la sua violenza nell'animale e considera gli animali non più come compagni, ma come nemici e sua preda. L'affermazione di Gen 9,3 serve a legittimare l'uso corrente di mangiare carne animale. Ma sarebbe impertinente trarre la conclusione che, per il suo cibo, l'uomo possa trattare in qualsiasi modo il mondo animale, anche con uno sfruttamento indiscriminato e capriccioso. Secondo il piano di Dio creatore, la vita animale gode, proprio in quanto vita, di una speciale santità tutelata da Dio e non può, quindi, essere considerata senz'altro disponibile a qualsiasi uso. Pane di lacrime e sudore Per l'uomo peccatore l'esistenza è segnata dalla sorte di mangiare un cibo frutto di fatica e di dolore (Gen 3,19: "Con il sudore del tuo volto mangerai il pane"). Il salmista si lamenta: "Le lacrime sono il mio pane giorno e notte" (Sal 42,4). Le lacrime accompagnano dunque il decorso del giorno e anche della notte con una costante assiduità, come il cibo scandisce le ore della giornata a distanze regolari; e come ogni giorno non passa senza cibo, così non ne trascorre per l'orante nemmeno uno senza lacrime. Sebbene costi lacrime e sudore, il pane è necessario non solo per sopravvivere, ma per vivere da uomini, poiché l'indigenza può compromettere tutta la vita umana. Per questo la bella preghiera di Proverbi chiede il pane quotidiano: "Io ti domando due cose, non negarmele prima che io muoia: tieni lontano da me falsità e menzogna, non darmi né povertà né ricchezza; ma fammi avere il cibo necessario perché una volta sazio, io non ti rinneghi e dica 'Chi è il Signore?" oppure, ridotto all'indigenza, non rubi e profani il nome del mio Dio" (Prov 30,7-9). È evidente che, in questo passo, il pane ha una valenza simbolica intensa, associato com'è alla condotta verso il prossimo e verso Dio. Solo all'interno della relazione con Dio che crea e dona la vita e con il prossimo con cui si vive, il cibo acquista un autentico significato umano. La fatica, lo sfruttamento e il dolore spesso sono dunque mescolati con la gioia di mangiare e bere. Non può

allora esserci un mangiare e bere in letizia umana piena senza l'impegno serio e responsabile di eliminare le cause e le condizioni di lacrime e sudore. Mangiare e bere "sacrificali" Mangiare e bere hanno spesso un carattere cultuale, sono legati con i sacrifici e ne fanno parte. Una formula caratteristica del Deuteronomio per indicare la celebrazione della festa è quella che la designa come un "mangiare davanti al Signore e gioire" (Dt 12,7 e passim). Il pasto cultuale vero e proprio era il tratto caratteristico dei cosiddetti sacrifici di comunione, ossia di ringraziamento e di lode per i doni ricevuti. Nel contesto degli eventi del Sinai, si racconta che Mose, Aronne, Nadab, Abio e i settanta anziani di Israele "videro Dio e tuttavia mangiarono e bevvero” Es 24,11). È discusso, fra gli esegeti, se questo passo sia da interpretare come allusione a un banchetto di alleanza oppure come racconto di una teofania conclusiva del rito della alleanza dei vv. 3-8, cosicché il senso sarebbe: "videro Dio e tuttavia restarono in vita". In questo secondo caso, mangiare e bere significherebbe semplicemente "vivere": il gruppo che è sul Sinai ha la visione di Dio, è accolto da Dio alla sua presenza, senza essere oppresso o distrutto dal mistero divino. Il grano (o pane) e il vino sono costitutivi del sacrificio del cibo e della bevanda, cioè del tipo di sacrifici caratterizzati dall'offerta del pane e del vino. In Lev 7,11-14 il rituale enumera i tre dolci azimi, di farina e olio finissimi, che venivano offerti insieme a un pane fermentato. Ogni sacrificio - olocausto o di comunione che fosse - era accompagnato da un'offerta di cibo e di bevanda (Num 15,1-12). In tutti i casi menzionati, l'offerta del cibo in sacrificio significa che la vita di cui il cibo è forza indispensabile - è dono e perciò diventa ringraziamento, riconoscimento e adorazione. Il sacrificio ha dunque il senso di un "restituirsi" riconoscente a Dio col quale si cerca una comunione personale di vita. Ospitalità e comunione Mangiare e bere sono anche segno di comunione, di ospitalità, di amicizia. Si accorda e si riceve ospitalità mediante un invito a partecipare ai piatti e ai calici comuni. Ai tre uomini misteriosi che gli appaiono presso le Querce di Mamre, Abramo così offre ospitalità: "Si vada a prendere un po' d'acqua, lavatevi i piedi e accomodatevi sotto l'albero. Permettete che vada a prendere un boccone di pane e rinfrancatevi il cuore... Prese latte acido e latte fresco insieme con il vitello, che aveva preparato e li porse loro" (Gen 18,4-8). All'ospite viene offerta tutela, diritti e doveri mediante le vivande e le bevande di cui fruisce. L'ospite che viene accolto recepisce, per così dire, un diritto sui beni della famiglia che lo ospita, ne diventa quasi un congiunto. Espressione di questo apparentamento è il pasto consumato in comune che è all'origine di un legame e di una solidarietà tra i commensali. I Proverbi illuminano con l'abituale concisione e acutezza il legame di amicizia e la partecipazione alla stessa mensa: "Un piatto di verdura con amore è meglio di un bue grasso con l'odio" (Prov 15,17); "Se il tuo nemico ha fame, dagli pane da mangiare, se ha sete, dagli acqua da bere: perché così ammasserai carboni ardenti sul suo capo e il Signore ti ricompenserà" (Prov 25,21-22). Nei Proverbi, porgere cibo e bevande è espressione di comunione tra chi ha bisogno di aiuto e chi glielo presta; così anche il nemico soccorso cessa di essere tale. Simbolismo erotico Nel Cantico "mangiare e bere" sono simboli dell'esperienza erotica. La radice ebraica akal, nel Cantico, ricorre 3 volte. La donna dice: "Venga il mio diletto nel suo giardino e ne mangi i frutti squisiti" (4,16); l'uomo risponde: "Sono venuto nel mio giardino, sorella mia, sposa, e raccolgo la mia mirra e il mio balsamo; mangio il mio favo e il mio miele, bevo il mio vino e il mio latte. / Mangiate, amici, bevete; inebriatevi, o cari" (5,1).

Poiché il giardino è simbolo della sessualità femminile, mangiare e bere sono simbolo dell'attività sessuale maschile. Il simbolismo erotico del mangiare e bere è richiamato anche dalla frequente allusione al vino, al miele, al latte, ai frutti squisiti, alle melagrane (simbolo della fertilità). Tutte le immagini collegate con quella del 'giardino' (frutti, alberi, acque, aromi, ecc.) sono da mettere in relazione con il tema dell'amore. La donna amata è un "giardino di noci e un vigneto con melagrani" (6,11), è una palma con grappoli di datteri (7,9), il suo palato è come vino squisito (7,10) ecc. Il mangiare e bere possono significare 'consumare', ‘distruggere’, ma possono anche significare il desiderio di incontro e di comunione. Questo desiderio trova la sua espressione simbolica più alta nel rapporto d'amore uomo-donna. Ma come il simbolismo del mangiare-bere così anche il rapporto uomo-donna è minacciato dal pericolo di trasformarsi in conflittualità distruttiva a causa della violenza. Il banchetto nuziale invece è simbolo dell'incontro d'amore, celebrazione festosa dell'amore tra uomo e donna, metafora del 'patto' o impegno reciproco di fronte alla comunità. Così, nel caso del matrimonio della figlia con Tobia, il padre Raguele invita lo sposo a "mangiare e bere" in letizia (cfr. Tobia 8,20). Il banchetto della sapienza Nel capitolo 9 di Proverbi è presentato un dittico in cui compaiono due 'signore' che invitano ciascuna al proprio banchetto. Il primo pannello rappresenta la sapienza come una padrona di casa intraprendente e coraggiosa: ha costruito la sua casa, ne ha tagliati i sette pilastri, ha preparalo un banchetto al quale invita chiunque desidera acquistare conoscenza e prudenza. Ecco la traduzione: "Sapienza ha costruito la sua casa, ella ha tagliato i suoi sette pilastri; ha abbattuto le sue bestie, ha attinto il suo vino, ha anche invitato le sue serve, ha invitato sulle alte rocche della città: "Chi è come un giovinetto? Passi di qui". A chi manca di giudizio ella dichiara: "Andate, mangiate il mio pane, bevete il vino che io ho attinto. Lasciate la stoltezza e vivrete! Camminate nella strada dell'intelligenza!" (Prov 9,1-6). Il menù di questo banchetto è piuttosto generico: carne (v. 2), pane (v. 5) e vino (vv. 2.5). Cibi e bevande comunicano vita e intelligenza; mangiare e bere designano l'acquisizione della sapienza. La sapienza prende l'iniziativa, invita e insegna; si rivolge alla libertà degli uomini, ma non li "seduce". Ella interpella e chiama. Mangiare il pane della sapienza e bere il suo vino simbolizzano la ricerca e l'accoglienza di un senso e di una verità che sono donati e non prodotti dall'uomo. Nel secondo pannello è presentata la Follia come una donnina loquace, ingenua, un po' oca, che condisce la sua pietanza con gli ingredienti della furtività e del nascondimento, approfitta della inesperienza dei suoi clienti per suggestionare con l'inganno e portare alla disfatta finale. Ecco la traduzione: "Donna Follia è loquace, ingenua, non capisce nulla, sta seduta sulla soglia di casa, su un seggio che domina la città, per gridare a chi passa, a chi va dritto per la sua strada: "Gli inesperti vengano qua, voglio parlare a chi non ha giudizio: L'acqua rubata è più dolce, il pane clandestino più saporito". E quegli non sa che nella sua casa ci sono i defunti, i suoi invitati nel profondo dell'Abisso" (9,13-18). Donna Follia non manda ancelle, non gira per la città, ma aspetta che i suoi clienti passino davanti a lei. Ella trova sempre clienti, senza aver bisogno di andare a cercarli. Il menù è diverso da quello della Sapienza: quella offriva carne e vino, questa non ha che pane e acqua. Pane e acqua è il nutrimento dei più poveri o dei prigionieri (cfr. 2Re 6,22; Gb 22,7; Ez 12,18-19). Gli stolti le vanno incontro e, come i malvagi di Prov 4,17, "mangiano la malvagità come pane e bevono la violenza come vino". Sia la signora Sapienza sia donna Follia proclamano: "Voglio parlare a chi non ha giudizio" (vv. 4 e 16). Sia l'una che l'altra invitano ad accogliere la 'parola' che pronunciano: essa è il cibo e la bevanda preparati. Si diventa infatti sapienti o stolti a seconda della parola che si ascolta. Cibo e bevanda offerti dai profeti

Come la sapienza, anche il profeta invita al banchetto della parola di Dio che egli proclama. Il testo più vicino a Prov 9,1-6 si legge in Is 55,1-3a: "O voi tutti che avete sete, venite verso le acque, anche colui che non ha denaro, venite! Comprate e mangiate! Venite, comprate senza denaro e senza pagamento vino e latte! Perché spendete denaro per ciò che non sazia? Ascoltatemi dunque e mangiate ciò che è buono e vi delizierete con vivande gustose! Tendete l'orecchio e venite a me, ascoltate e vivrete!". "Mangiare" è qui sinonimo di "ascoltare", il pane è la parola di Dio. Le ragioni del vivere, che la parola di Dio offre a chi l'ascolta, sono il cibo che fa vivere veramente. Il profeta Amos presenta anch'egli la propria proclamazione profetica come un vero nutrimento per l'uomo: "Ecco venire dei giorni - oracolo del Signore - nei quali io farò venire la fame nel paese, non una fame di pane, non una sete di acqua, ma di sentire la parola del Signore" (Am 8,11). E Geremia confessa: "Quando le tue parole si presentavano, io le divoravo: la tua parola era il mio incanto e l'allegrezza del mio cuore". (Ger 15,l6). La tesi soggiacente ai libri biblici è che la parola e la verità di Dio non può essere saputa se non mangiandola e bevendola, ossia accogliendola con una decisione della propria libertà. La legge, il digiuno e l'astinenza Poiché l'AT professa che il mondo è creato da Dio ed è molto buono (Gen 1,31), rifiuta ogni dualismo che implichi il disprezzo o la fuga dal mondo. Ogni tendenza ascetica di tipo encratista è estranea all'AT. Il mangiare e il bere, l'assaporare i piaceri, insomma ogni godimento o arricchimento materiale dell'esistenza erano beni che si accoglievano con schietta gratitudine dalle mani del Signore. All'uomo e alla donna sono dati in cibo tutti i frutti della terra, ma il comandamento divino (Gen 2,16-17) fa comprendere che mangiare di tutto ci rende semplicemente mortali, ci espone al pericolo di illuderci che mangiare e bere garantiscano da soli la vita e salvino dalla morte. Il mangiare, simbolo del desiderio, non è la misura ultima di tutte le cose. 'Vivere in pienezza significa accettare di misurare il proprio desiderio sulla legge o comandamento di Dio, perciò sulla sua promessa. Il comandamento di Dio non censura, non mortifica e non spegne il desiderio (mangiare e bere), ma insegna (è torà: insegnamento) che solo Dio provvede al nostro desiderio di vivere e che il nostro agire non è misurato dal nostro bisogno ma dal suo comandamento- promessa. Dio è colui che dona e la legge fa ricordare di aver ricevuto un dono; chi riceve la vita (il pane e l'acqua) si trova in debito verso chi gliela dà. La legge viene data nel deserto, dove non c'è da mangiare e da bere, cioè dove la terra non corrisponde immediatamente al desiderio dell'uomo e questi sperimenta la distanza tra la fame e il cibo, tra la sete e l'acqua, tra il proprio desiderio e il bene. Il deserto è il tempo della prova, della libertà che è chiamata a scegliere se soddisfare ad ogni costo il proprio desiderio/bisogno, oppure se credere nella promessa di Dio e quindi obbedire al suo comandamento quale espressione della sua promessa. La legge dunque si oppone alla pretesa dell'uomo di lasciarsi guidare, nel cammino della vita, dal desiderio vago: dal desiderio cioè che non conosce mai ciò che può dare definitiva saturazione; dal desiderio che mette sempre da capo in dubbio quello che pure per un attimo era apparso convincente; dal desiderio che induce a mettere sempre da capo alla prova gli uomini e Dio stesso. È dunque in questo orizzonte che diventa più chiaro il senso del digiuno e dell'astinenza del mangiare e bere. Si pensi, ad es., ai Recabiti che non bevevano vino, non seminavano sementi e non abitavano in case ma nelle tende (cfr. Ger 35,6-14). Il profeta Geremia li presenta come esempio di fedeltà. La rinuncia al mangiare e bere può avere carattere cultuale (cfr., ad es., Es 33,65; 2Sam 11,11; 12,17. 20. 23), quale forma di umiliazione e di penitenza, a volte unita al pianto e alla preghiera (cfr. Gioele 1) o alla astensione da rapporti sessuali (cfr. 1Sam 21,4-5). Ma un digiuno che sia fine

a se stesso è combattuto dai profeti (cfr. Is 58,3-7). L'astensione da determinati cibi o bevande entra anche a far parte delle prescrizioni legislative sugli alimenti (cfr. Lev 11; Dt 14,3-21). Senza una regolazione sui cibi non ci può essere vera libertà interiore, sia per gli altri che soffrono la fame sia per l'incontro con Dio. Digiuno e astinenza hanno quindi lo scopo di umanizzare il mangiare e il bere, sottraendoli all'indeterminatezza e illimitazione del desiderio-bisogno. L'inesauribilità del desiderio svuota l'anima e non sazia la bocca, anzi fa lacrimare e rende inquieta tutta la vita. Un desiderio ...


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