Letteratura Latina - Heroides VII e X PDF

Title Letteratura Latina - Heroides VII e X
Author Giulia Fumagalli
Course Letteratura latina
Institution Università degli Studi di Milano
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Appunti sbobinati del modulo D sulle Heroides VII e X (Didone e Arianna) di Ovidio, tenuto dalla prof.ssa Canetta, del corso di Letteratura Latina triennale (professor Gioseffi). Traduzione, commento e introduzione....


Description

Modulo D Lezione 1 – 28 marzo 2017

Publio Ovidio Nasone Publio Ovidio Nasone asce a Sulmona nel 43 a.C e muore a Tomi, sul Mar Nero, nel 17 d.C. Racconta la sua vita, della quale sappiamo poco, in una delle sue ultime opere, l’ Epistula II.X, scritta durante il periodo trascorso a Tomi. Egli è il primo poeta antico che ci fornisce notizie sul suo conto (di “prima mano”), si tratta dunque del primo caso di autobiografia del mondo classico. Proviene, come Cicerone, da una ricca famiglia equestre. Arriva a Roma da giovane – come tutti i ragazzi di buona famiglia – insieme al fratello più grande di un anno (che morirà abbastanza giovane) per studiare retorica per poi intraprendere la carriera forense e diventare magari un uomo politico. Ovidio si rende conto di non essere portato a questa carriera, in quanto il suo interesse principale era la poesia; ma siccome gli studi degli antichi romani prevedevano per completezza un viaggio in Grecia e nell’Asia ellenizzata, egli effettua anche questo viaggio. Successivamente egli ritorna a Roma – una città ormai pacificata, in una situazione assai diversa da quella Catullo, che vive in una Roma ancora repubblicana, assolutamente in preda ad una sorta di pre guerra civile, ma diversa anche dall’urbs di Orazio, che vive la guerra civile e combatte per Pompeo, e differente anche dalla città dello stesso Virgilio, di cui abbiamo delle notizie dai commenti di Servio alle Bucoliche, in cui ci dice che Virgilio visse una situazione politica sostanzialmente di tensione. Ovidio invece vive nella pax augustea già avvenuta, anche se sceglierà di entrare non nel circolo di Mecenate, ma in quello di Messalla Corvino. Augusto, detentore del potere assoluto, permetteva che ci fossero dei circoli poetici e politici che non lo sostenevano ed avevano idee diverse dalle sue (chiaramente stare dalla sua parte comportava dei vantaggi); Tibullo e lo stesso Ovidio sono esponenti di circoli differenti. Tornando alla biografia, Ovidio torna a Roma e per mantenersi inizia a svolgere lavori legati alla carriera forense, ma poi decide di dedicarsi completamente alla poesia. Il suo primo libro pubblicato sono i tre libri degli Amores, una raccolta in di elegie amorose. Il passaggio dalla Didone virgiliana a quella ovidiana implica un discorso sull’elegia, perché Ovidio fa di Didone un personaggio elegiaco. Lla prima produzione ovidiana è di tipo erotico ed amoroso, in cui continua l’idea di Catullo di totale disinteresse politico, non ben vista all’epoca; infatti a Roma continuava ad essere presente anche dopo Cicerone l’idea del cives romano, il quale deve avere come interesse primario il bene della res publica. Ovidio preferisce il totale disimpegno politico e si dedica a versi amorosi in distici elegiaci: in essi egli parla dei suoi vari amori. Nell’ ars amatoria insegna agli uomini come sedurre le donne e viceversa. La prima produzione ovidiana è dunque formata da una serie di opere ritenute spregiudicate soprattutto per il periodo augusteo, perché Augusto – fra i vari cambiamenti che apporta – riporta al centro l’austerità, la gravitas antica del mos maiorum, pertanto la famiglia e il rispetto dei valori familiari dovevano essere al centro della vita del cittadino romano. Ad un certo punto Ovidio viene mandato in esilio sul Mar Nero; non conosciamo il motivo di tale esilio, nonostante nelle sue ultime opere egli parli molto di se stesso. Possiamo ipotizzare due ragioni: 1. Si pensa ad un suo coinvolgimento in uno scandalo amoroso di Giulia, nipote di Augusto; 2. Si pensa che le sue amore fossero considerate spregiudicate ed amorali da Augusto (soprattutto l’Ars amatoria). Ovidio non ne parla mai perché la cosa lo addolora molto e perché, afferma, era una cosa nota a tutti.

Dopo questo primo gruppo di opere di tipo elegiaco ed amoroso, Ovidio decide di compiere il salto qualità, arrivando al poema epico (ciò che lui considerava tale): scrive le Metamorfosi e poi cerca di riavvicinarsi all’ideologia augustea e all’esaltazione della romanità con i Fasti, opera di tipo epico in 12 libri, che seguiva i mesi del calendario. Non la scrive per intero, ma si ferma prima della fine del sesto libro perché giunge appunto la condotta da parte dell’imperatore (8 a.C.) e Ovidio è costretto all’esilio. Egli racconta il viaggio lunghissimo mentre viene mandato in esilio sul Mar Nero; nonostante quell’ambiente fosse civilizzato egli è disperato perché la sua vita era a Roma, dove era ancora un uomo di successo e trascorreva una vita mondana come quella di Catullo, ed è costretto ad abbandonarla contro il suo volere. Non tornerà più a Roma, nonostante le continue insistenze degli amici; le sue opere continueranno ad essere lette anche durante e dopo l’esilio (a Tomi scriverà i Tristia, le Epistulae ex Ponto e i distici elegiaci che raccontano dei suoi ultimi anni). Muore a Tomi nel 17 d.C. L’elegia romana Il termine elegia è piuttosto vago in quanto designa semplicemente dei componimenti in distici elegiaci. Per gli antichi scrivere in un certo metro significava appartenere ad un certo genere letterario (per esempio la scrittura in esametri designava un genere alto, perché apparentato al poema epico; il giambo designava invece l’invettiva, mentre il distico elegiaco caratterizzava appunto l’elegia). Le elegie sono sempre state scritte, anche in Grecia arcaica, ed erano di argomento vario: potevano essere elegie politiche, di esortazione al combattimento, amorose, sulle origini di questo stesso termine; c’è chi dice che derivino invece dai lamenti funebri sulle lapidi; in ambito greco però presenta caratteristiche completamente diverse da quella romana. Come sia avvenuto il passaggio dell’elegia greca – ampia e generica – a quella romana, di carattere esclusivamente amoroso (almeno per quanto riguarda Properzio e Tibullo), è qualcosa di molto difficile da spiegare. È probabile che Catullo (che fa parte dei poeti neoterici) sia stato responsabile di questo passaggio che nessuno si spiega: Catullo è dunque lo spartiacque tra due modi diversi di fare poesia. Chiaramente egli è una grande influenza: • È il primo che decide di dedicarsi interamente alla poesia e di rifiutare qualsiasi tipo di impegno politico: uno dei centri della sua poesia è l’amore per Lesbia e il conseguente abbandono, • È un punto di svolta per l’elegia romana anche la forte soggettività della sua poesia: a parte alcuni dei Carmina Docta, il resto del Liber catulliano è fortemente incentrato sul suo punto di vista (i suoi affetti e conoscenze, etc). Un altro esponente elegiaco di cui assolutamente non abbiamo testimonianza, ma che influisce sul passaggio all’elegia romana è Cornelio Gallo. Grande amico di Virgilio, il quale ne fa il poeta per eccellenza, visto che lo mette come protagonista di ben due egloghe, poste in posizione importante (ricordiamoci che la disposizione non era casuale, ma posizioni come l’inizio, la fine, la terza posizione o il centro dell’opera sottolineavano episodi o concetti importanti per il poeta): la sesta egloga è dedicata a Cornelio, ed è quella che inizia la seconda parte del libro. È un’egloga complicata nella quale viene presentata la figura di Cornelio Gallo, di cui sappiamo pochissimo perché cade in disgrazia sotto Augusto: era un condottiero, uomo politico e dell’esercito che cade in disgrazia, viene condannato a damnatio memoriae diversamente da Ovidio, infatti non abbiamo assolutamente nulla di Cornelio, a parte un verso geografico. Sono stati poi trovati dei papiri latini in Egitto, molto corrotto, con sette versi difficilmente comprensibili ma probabilmente di tema amoroso, che alcuni filologi attribuiscono a Cornelio Gallo, in quanto egli con il proprio esercito si era recato in Egitto. Di Cornelio Gallo, esaltato come poeta nella sesta egloga (e quindi riteniamo fosse poeta di spicco in epoca augustea), sappiamo dai commenti a Virgilio che scrisse un’opera in quattro libri intitolata Amores che parlavano del suo amore per Licoide; dello stesso dolore per l’abbandono di Licoide parla Virgilio nella decima egloga, l’ultima, e dunque importante. Dunque l’altro tassello, oltre a Catullo e ai Neoteroi, che porta all’elegia è Cornelio Gallo, di cui purtroppo però sappiamo poco o nulla.

Dunque l’elegia è un genere di tipo amoroso: l’unico argomento è l’amore, espresso attraverso la figura di un poeta innamorato di una donna (ricordiamo che queste unioni non sono legittime: la Cinzia amata da Properzio, per esempio, era una prostituta). L’amore narrato non è istituzionalizzato; il punto di vista è quello del poeta che decide di dedicarsi esclusivamente al suo amore per la donna, che si compiace della vita dissoluta e del rifiuto di qualsiasi impegno politico e questo perché la vita ruota tutta intorno al rapporto amoroso, composto di momenti felici ma anche più spesso di litigi e momenti di infelicità in cui la donna preferisce qualcun altro a lui, perché il poeta è povero, non è un personaggio ricco o di spicco. Nonostante le critiche che gli amici rivolgono al poeta, essi si compiacciono della loro vita dissoluta anche quando l’amore non è felice e ci sono molti litigi. Un caso ripreso dal greco è quello del lamento davanti alla porta chiusa, nel quale il poeta vorrebbe entrare nella casa della donna amata, ma il “portinaio” gli vieta l’accesso. Questo espediente narrativo è accennato anche da Lucrezio nel libro IV del De rerum natura, tuttavia egli tratta l’amore dal punto di vista epicureo, considerato come una passione assolutamente devastante, dalla quale stare lontano perché è rovinosa. Lucrezio fa una specie di parodia di questo lamento, ironizzando sulla sorte dell’amante che resta fuori dalla porta della donna. Ricapitolando: è importante la prospettiva di soggettività dell’elegia, ovvero il fatto che in queste opere il punto di vista sia sempre e solo quello del poeta. Il rapporto finisce sempre: si giunge al discipium, la separazione finale dei due amanti dopo vari litigi e riavvicinamenti. Permangono quindi i principi fondanti che abbiamo ritrovato in Catullo e Lesbia, in Arianna e Teseo, in Didone ed Enea: sono tutti rapporti non istituzionalizzati basati sulla fides e sul febus. Il punto di vista nella poesia elegiaca – quella che ci è rimasta è di Properzio (che ama Cinzia e ci racconta dei momenti felici e del discipium finale) e Tibullo (che ama prima Delia e poi Nemesi, una sorta di vendetta rispetto a Delia) – resta quello dell’uomo amante. Quanto inizia con Catullo continua nei poeti elegiaci. Quanto sia vero e quanto sia letterario di queste loro storie d’amore è difficilissimo da stabilire; è chiaro che se per Catullo possiamo pensare che sia vero (è una poesia realistica, possiamo riconoscere ed identificare Lesbia con Clodia), forse in Tibullo e Properzio la parte letteraria ha il sopravvento. Ad essere del tutto sinceri, questi poeti non trattano solo di amore verso donne; Catullo per esempio in tre carmi narra del suo amore per un uomo, Giovenzio, e anche Tibullo dedica alcuni carmi ad un personaggio maschile, Marato. L’elegia romana vede dunque anche descrizioni di rapporti amorosi omosessuali. Per il discorso riguardante l’elegia, si rimanda ai materiali del professor Gioseffi, consultabili su Ariel nella cartella relativa al modulo D. Il passaggio dalla Didone virgiliana a quella ovidiana non è scontata: c’è di mezzo l’elegia. Ovidio inizia come poeta elegiaco, ma cambia le regole del gioco: gli Amores sono sì una raccolta elegiaca in cui si parla dell’amore e del punto di vista soggettivo, c’è una donna, di nome Corinna, che non è l’unica donna del poeta. Quella degli Amores è una poesia molto più esplicita e giocosa: l’amore è visto sempre come centro della vita, ma è considerato qualcosa di molto più divertente rispetto agli autori precedenti. Le relazioni non sono impegnative: fides e febus non esistono più. Si tratta maggiormente di giochi di seduzione: il dolore, la sofferenza, l’abbattimento che abbiamo visto in Catullo (in Arianna), nella Didone di Virgilio, in Tibullo e in Properzio in Ovidio non ci sono più. Egli è l’ultimo della sua generazione: dopo di lui la letteratura latina cambia completamente. Scrivere di rapporti amorosi basati sulla fides, scrivere di lamenti sarebbe stato una ripetizione del già detto: quindi egli punto sul gioco e sulla letterarietà pura. Con Ovidio non parliamo più di biografismo. Arriviamo alle Heroides, raccolta di epistole così divisa: 1. Le prime 15 epistole sono lettere di eroine del mito (Penelope, Medea, Didone, Arianna, Ipsipile, Fillide, Fedra) che scrivono una lettera all’uomo lontano o che le ha lasciate, o del quale non sanno più nulla. L’ultima lettera è di Saffo (anche se la sua attribuzione ad Ovidio

è oggetto di dibattiti): ovviamente ella non è figura del mito ma poetessa greca, ma di lei si raccontava che fosse brutta, ed innamorata di Faone, da lui venne rifiutata (vedi Ultimo canto di Saffo di Giacomo Leopardi). In questa parte abbiamo solo la lettera della donna. 2. Le ultime sei epistole, scritte successivamente (ricordiamo che è difficile datare le Heroides: alcuni sostengono che esse siano state scritte piuttosto presto nella carriera di Ovidio), presentano una differenza fondamentale: sono lettere a coppia; la donna scrive e l’uomo risponde. Assistiamo dunque ad un cambiamento di concezione: non abbiamo solo la soggettività della donna ed il suo punto di vista, ma anche la risposta dell’uomo. Alcuni sostengono che Ovidio l’abbia fatto perché dopo la pubblicazione della prima serie delle Heroides molti poeti si erano cimentati nella scrittura delle risposte a tali lettere, magari a suo nome. Per evitare ciò, Ovidio decise di scrivere le ultime a coppie. Chiamiamo quest’opera Heroides, nome che ricorda il Satyricon di Petronio (un termine non è propriamente greco né latino). Probabilmente il titolo originale era Epistulae heroidum, ovvero “lettere di eroine”. Ovidio era perfettamente consapevole della novità della sua opera, infatti non pare ci siano stati precedenti (approfondiremo poi il discorso). Al verso 346 dell’Ars amatoria Ovidio afferma ignotum hoc aliis ille novavit opus ovvero Ovidio “rinnovò questo tipo di opera ignota agli altri”. Con novavit Ovidio forse indica l’invenzione di un nuovo genere letterario ignoto agli altri. Le ipotesi degli studiosi sono principalmente due: alcuni sostengano che questa frase indichi la consapevolezza da parte di Ovidio di aver inventato un nuovo genere; altri invece sostengono che la sua intenzione fosse quella di esprimere il rinnovamento di qualcosa di già preesistente. Il motivo di tale contesa è proprio il verbo novavit, che può esprimere tanto l’azione di “creare qualcosa” quanto quella di “rinnovare”. Le Heroides sono quindi lettere di donne, scritte nello stesso periodo di composizione dell’ Ars Amatoria e degli Amores. Ovidio sceglie di dar voce esclusivamente ad una donna abbandonata, un po’ come un po’ come l’Arianna del Carme 64. La differenza è che Ovidio isola l’eroina e il suo lamento da ogni contesto narrativo e letterario: è chiaro che le Heroides sono rivolte a lettori colti, che conoscono il mito e le opere letterarie. È ovvio che la storia di queste eroine fosse nota (facciamo l’esempio di Penelope: è chiaro che si presupponesse la conoscenza dell’ Odissea da parte del lettore, come per Fedra si presupponeva la conoscenza di Euripide e per Medea quella di Apollonio Rodio). Ovidio fa l’interessante operazione di sradicare l’eroina da un contesto narrativo preciso e ne isola il lamento. Ad esempio nell’epistola di Didone non c’è alcun riferimento alla maledizione che lancia ad Enea, non c’è traccia del suo desiderio di vendetta, della sua ira e del suo auspicio alla guerra tra i loro discendenti, perché siamo in ambito elegiaco. Ad Ovidio interessano unicamente la soggettività della prospettiva femminile e l’idea di una vita incentrata sull’amore. Assistiamo ad una contraddizione: da una parte abbiamo solo la voce dell’eroina che parla, dall’altra parte però tale voce risulta incomprensibile se il lettore non la contestualizza all’interno di una cornice mitologica più ampia. Facciamo un esempio: Didone e il suo lamento ripreso nell’epistola li abbiamo letti estraendoli dal contesto più ampio ma legandoli ad esso tramite riferimenti, perché la storia di Didone ha un suo senso all’interno dell’ Eneide e dei suoi primi quattro libri. È un personaggio fondamentale nel confronto con Enea, nella loro situazione di fuga costretta e di nuova fondazione di una città; Didone si innamora ma prova un travaglio interiore; è sovrastata dal Fato e dalla missione più grande che Enea deve compiere. Ella in Virgilio ha quindi un significato preciso nell’Eneide e più ampio rispetto ad Ovidio; ci rende l’immagine di un personaggio complesso che ha un suo ruolo (di ostacolo) all’interno della storia di Enea. Tutto questo contesto viene tolto completamente da Ovidio, che si focalizza esclusivamente sulle sue parole, sul suo lamento finale. Per comprendere il personaggio di Didone non ci si può limitare a leggere Heroides VII, ma bisogna avere alle spalle la conoscenza di quanto accade nel quarto libro dell’Eneide; ciò che però interessa a Ovidio è esclusivamente il lamento della regina di Cartagine.

L’autore scrive queste lettere – quindici, molte – ma le sgancia completamente dal contesto. l’unica cosa che a lui interessa è la focalizzazione sul sentimento amoroso, sull’abbandono e sulla sofferenza: la storia è già data, la si conosce. → File caricato su Ariel: Ovidio e le sue fonti. Osserviamo i riferimenti di Ovidio all’ Eneide nelle sue varie opere. Sono riferimenti molto ironici, che puntano soprattutto su Didone. Il primo testo viene dal terzo libro dell’Ars amatoria: VIRGILIO T1 Ov. A.A. 3.39-42 Et famam pietatis1 habet, tamen hospes et ensem praebuit et causam mortis, Elissa, tuae. 40 Quid vos perdiderit, dicam? Nescistis amare: defuit ars vobis; arte perennat amor. Enea ha fama di pietas, tuttavia ospite ti offrì la spada e la causa della tua morte, Elissa. Ma cosa vi ha rovinate, dovrei dire? Non aver saputo amare: a voi mancò la tecnica; con la tecnica l’amore si rende eterno.

Ovidio si chiede come mai le eroine del mito abbiano perso l’amore, rintracciando come causa il fatto che esse non lo sapevano mantenere; egli si propone come precettore per fargli apprendere l’arte di amare. Ovidio riprende ironicamente la sofferenza di Didone. Il fulcro di Eneide IV per l’autore è la figura di Didone uccisa da quell’ospite che aveva accolto e aveva fama di pietas. Il secondo testo viene da Metamorfosi XIV (in esametri): T2 Ov. Met. 14.75-81 2

Hunc ubi Troianae remis avidamque Charybdin 75 evicere rates, cum iam prope litus adessent Ausonium, Libycas vento referuntur ad oras. Excipit Aenean illic animoque domoque non bene discidium3 Phrygii4 latura5 mariti Sidonis6; inque pyra sacri sub imagine facta 80 incubuit ferro deceptaque decipit omnes. E quando le navi troiane vinsero questo e la vorace Cariddi con i remi, quando ormai si stavano avvicinando all’Italia sono portate dal vento alle coste libiche. La Sidonia accolse Enea lì nell’animo e nella casa, [Sidonia] sul punto di non sopportare bene la separazione dal marito Frigio; sulla pira fatta sotto l’immagine di un sacrificio getta la spada e, ingannata, inganna tutti.

Questi versi ci indicano la lettura di tipo elegiaco della storia di Didone. Inizia già ad essere slegata dal contesto per avvicinarsi ad un contesto più elegiaco.

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Pietatis: ricordiamo che Didone definisce Enea “empio”. Hunc: si riferisce a ciò di cui ha appena parlato, cioè Scilla. Discidium: termine tecnico dell’elegia romana. Phrygii: Enea. Latura: parricipio futuro di fero (“che non sarà destinata a sopportare”). Sidonis: la “Sidonia” sarebbe Didone, nata nella città fenicia di Sidone.

Il terzo testo è tratto dal secondo libro dei Tristia, composti durante l’esilio, nel quale Ovidio si chiede come mai lui stia a Tomi in esilio, mentre Virgilio non subisce lo stesso trattamento, nonostante la storia di Didone ed Enea nell’Eneide non sia affatto legittima: T3 Ov. Trist. 2.533-536 Et tamen ille tuae felix7 Aeneidos auctor contulit in Tyrios arma uirumque toros8, nec legitur pars ulla magis de corpore toto, quam non legitimo foedere iunctus amor. E tuttavia quel fortunato autore del...


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