Lévi-Strauss face à la catastrophe PDF

Title Lévi-Strauss face à la catastrophe
Author Mario Rossi
Course Antropologia
Institution Università degli Studi di Palermo
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Salvatore D'Onofrio

Lévi-Strauss face à la catastrophe

1. IL RITORNO Vedo :

le devastazioni attuali,

la scomparsa spaventosa delle specie viventi, siano esse vegetali o animali; e il

fatto che a causa della sua densità attuale, la specie umana vive sotto una sorta di dieta interno

da avvelenamento

– per così dire -; e penso al presente e al mondo in cui sto terminando la mia esistenza.

Non è un mondo

che amo.

Queste parole pronunciate da Claude Lévi-Strauss il 28 ottobre 2004, durante un'apparizione sul canale televisivo France 2, trasmettono concetti che non rientrano nel campo dei sentimenti che possono indurre l'età avanzata. Attingono alle stesse motivazioni delle riflessioni che lo portarono a introdurre l'analisi strutturale in antropologia. In questo libro, vogliamo mostrare appunto che l'attenzione data da Lévi-Strauss durante tutta la sua vita ai problemi che attualmente angosciano gli umani e che hanno permesso di riunire, nel cuore delle scienze sociali, fenomeni molto eterogenei sotto la stessa nozione di catastrofe, non è estranea all'elaborazione dei principi dello strutturalismo. In particolare, esploreremo l'atteggiamento critico di Lévi-Strauss, da una parte verso le forme di vita sociale che hanno accompagnato la rivoluzione industriale e che egli situa in un arco temporale più ampio, tra la conquista dell'America e i genocidi del ventesimo secolo, dall'altra, verso la rigidità che mostrano le altre scienze umane, in particolare quei saperi critici (o della crisi) che sono la psicoanalisi e il marxismo. Con ciò speriamo di capire meglio come la soggettività creatrice dell'antropologo francese sia stata in grado di dispiegarsi rispetto alla catastrofe in modo totalmente coerente con il dispositivo metodologico che ha allestito nei suoi lavori. Prima di tutto menzionerò qui due dei suoi lavori: Tristes Tropiques (in particolare l'ultima parte intitolata ) e Saudades do Brasil, che prolungano le sue riflessioni sul tema della memoria sotto lo stesso segno di nostalgia e malinconia.

La complessità e l'importanza di Tristes Tropiques nel lavoro di Lévi-Strauss sono ben noti. Lui stesso considera questo lavoro come una sintesi di ciò che aveva scritto precedentemente, e anche di tutto ciò in cui credeva o a cui sognava. Quasi tutte le sue posizioni etico-politiche negli anni 1950 sono altrettante prefigurazioni di alcune delle calamità che colpiscono il mondo globale in cui viviamo. Parliamo dell'entrata in gioco della catastrofe, di cui diciamo fin da adesso che la sua identificazione con l'Olocausto (Shoah) è al centro del pensiero lévi-straussiano. Dopo il suo ritorno dal Brasile, dove aveva conquistato la sua esperienza sul campo in Amazzonia e insegnato all'Università di San Paolo, Lévi-Strauss sembra a prima vista non comprendere la gravità degli eventi che, sotto la collaborazione del governo di Vichy, l'obbligarono a riprendere da esiliato il suo viaggio verso l' America. Eppure, apparteneva alla cosiddetta generazione del 1914, la cui infanzia aveva conosciuto la prima guerra mondiale e che, secondo Claude Imbert, < non ignorava niente delle sue conseguenze né dell'avventatezza che ha spinto l'Europa da una guerra all'altra >. Aggiungiamo che Merleau-Ponty aveva, fin dal 1945, commentato il bilancio (e altri lo seguirono su questa strada) con il suo articolo , pubblicato nel primo numero di Tempi moderni. Resta il fatto che per gli intellettuali ebrei, alla fine della guerra e per molto tempo ancora, le risposte all'indicibile furono più difficili. Nelle loro opere i riferimenti sono numerosi e tuttavia quasi sempre segnati da un' aridità di stile: una riflessione aperta sul genocidio è assente. Il silenzio della prima generazione ( definita appunto "la generazione del silenzio") sembra mischiarsi alla minimizzazione che caratterizza spesso i racconti delle vittime di eventi traumatici, la Prima Guerra mondiale per esempio . In compenso, la problematica del "male assoluto" viene da allora in poi identificata, nell'immaginario occidentale, con l'Olocausto (Shoah), conformemente all'idea di certi intellettuali britannici o americani, per cui l'Olocausto è un evento unico non paragonabile a nessun altro. Da qui un processo di sacralizzazione (e tabuizzazione) che finisce inevitabilmente per condizionare la riflessione. Più correttamente, non potremmo parlare di una specificità dell'Olocausto (Shoah) – spaventosa messa in opera della morte di massa come un'industria pianificata - in un insieme di comportamenti e atti di genocidio che hanno gli stessi presupposti ideologici ? Detto questo, in Tristes Tropiques, le incursioni di Lévi-Strauss al cuore del problema, evocate anche a mezza voce, sono folgoranti. Prova ne è il racconto, per certi versi abbastanza divertente, della sua visita a Vichy - la mano del funzionario sollevata per apporre il timbro di espatrio mentre il suo collega non è d'accordo - e in particolare il riferimento ai campi di concentramento e sterminio. Nel momento in cui si imbarca per l'America, LéviStrauss dice di sentirsi già "preda" di questo desiderio di sterminio e immagina le condizioni in cui, in quei campi, la carestia può spingere gli uomini all'antropofagia . La prova ne è anche questa frase, collocata quasi arbitrariamente all'inizio del capitolo , che precede , ed esprime bene il rapporto tra sfinimento e creazione che caratterizza la catastrofe. La soggettività creatrice di Lévi-Strauss vi si identifica con l'antropologia, in quanto

sollecitata da eventi catastrofici diventando allo stesso tempo lo strumento più efficace per superarli. Entriamo nei meandri più profondi del suo pensiero con queste parole: Questa vista (cure a una mano a brandelli) aveva qualcosa di disgustoso e affascinante; si combinava nel mio pensiero con quello della foresta, pieno di forme e minacce. Cominciai a disegnare, prendendo la mia mano sinistra per

modello, paesaggi fatti di mani che emergevano da corpi contorti e aggrovigliati come

liane. Dopo una dozzina di bozzetti che sono quasi tutti scomparsi durante la guerra - in quale soffitta tedesca sono stati oggi dimenticati? - mi

sentii sollevato e

tornai all'osservazione di cose e persone.

Per comprendere meglio le sottigliezze di questo testo, ricordiamo innanzitutto le sfumature che differenziano i significati di disastro e catastrofe che abbiamo finito per unire sotto il termine ebreo di "Shoah". Cominciamo col precisare che nella Bibbia questa parola significa rovina, distruzione, devastazione, calamità o desolazione. "Disastro" e "catastrofe" sono spesso usati come sinonimi, ma, mentre le attività che seguono un evento disastroso implicano la possibilità di superare la cattiva sorte in seno ai sistemi che la producono (disastro viene dal latino dis-astrum, < cattiva stella >), i fenomeni catastrofici conducono a trasformazioni irreversibili - cosa che concorda sostanzialmente con l'interpretazione di Renè Thom, di cui si osserverà come non è privo di importanza che la sua teoria matematica della catastrofe sia stata elaborata negli anni 1960. La parola copre d'altronde oscillazioni semantiche assenti dal concetto originale che ci riporta alla tragedia. Benché Aristotele non usi mai il termine catastrofe (ma di pathos o peripezia), è lui che sviluppa, in Poetica, l'idea di ribaltamento di una situazione nel suo opposto (la parola catastrofe è composta in greco da -strophe, capovolgimento e kata-, verso il basso) Ma questo ribaltamento è assolutamente indispensabile nello svolgimento tragico, ma con un tratto specifico, poiché se richiede una "azione dolorosa o distruttiva", deve anche condurre, attraverso la partecipazione emotiva degli spettatori, alla catarsi ( Purificazione o In psicoanalisi, processo di liberazione da esperienze traumatizzanti o da situazioni conflittuali, ottenuto col far riaffiorare alla coscienza dell'individuo gli eventi responsabili, rimuovendoli dal subconscio) . In altre parole,

la tecnica della tragedia trascina gli eventi come sotto la forza di un destino, cosa che non avviene nella "Shoah". Questi slittamenti semantici, così come le connotazioni del termine "olocausto" (poiché l'idea del sacrificio espiatorio è anch'essa estranea alla distruzione degli ebrei d'Europa), devono essere ben impresse nella nostra mente se si vuole capire il significato più profondo del testo di Lévi-Strauss. Precisiamo innanzitutto che al momento della pubblicazione di Tristes Tropiques, nel 1955, la parola "shoah" non era ancora usata per indicare il genocidio degli ebrei - mentre la parola "olocausto" è usata già alla fine del XIX secolo dal giornalista dreyfusard Bernard Lazare e il termine "genocidio" coniato dal giurista Raphael Lemkin nel 1943. In Francia, iniziò a circolare, sostituendo gradualmente quello di olocausto, solo nel 1985, dopo il film Shoah di Claude Lanzmann. Ora, è vero che le sei occorrenze di "shoah" nella Bibbia riguardano solo l'idea di una punizione o di una disgrazia che si abbatte sugli individui in modo improvviso e inaspettato oppure, più vagamente, l'idea di un disastro naturale. Non si può negare, tuttavia, che l'uso ha rapidamente ri-semantizzato questo termine per indicare quasi esclusivamente - il tentativo di annientamento gli ebrei. Come sanno i linguisti e come

lo stesso Lanzmann ha capito meglio di ogni altro, la ragione del successo di questa parola (tradotta solitamente in francese con "catastrofe", e talvolta anche con "disastro") è paradossalmente da ricercare nella sua opacità. È la sua debole pregnanza semantica che ha permesso di esprimere l'inesprimibile, questa catastrofe unica e inaspettata che si può giudicare dal profondo dell'animo senza per questo essere obbligati a capirla. Come scrive Lanzmann :

Se avessi potuto non dare un titolo al mio film, lo avrei fatto. Come poteva esserci un nome per qualcosa che non era mai successa prima? La parola mi è sembrata sufficientemente opaca. Inoltre, è breve,

cosa

che

mi

piaceva.

Nel 1985, quando il distributore mi ha chiesto che cosa significasse , ho risposto che non lo sapevo, non comprendendo l'ebraico. Il distributore sbalordito

ha ribattuto che nessuno avrebbe capito...

Gli ho risposto che era quello che volevo, che nessuno capisse.

Infine, va sottolineato, a contrario, che la scelta di usare la parola "shoah" per indicare il genocidio degli ebrei è stata anche criticata per almeno tre ragioni: l'uso di un termine che si applica a un fenomeno naturale per designare una barbarie esclusivamente umana; la scelta di una parola ebraica per indicare un crimine che è il risultato di secoli di odio antisemita; il rischio che con questa parola la storia degli Ebrei finisse per identificarsi con il loro genocidio. Tuttavia, le ambiguità della parola che abbiamo appena menzionato non hanno impedito grandi intellettuali come Pierre Vidal-Naquet o Raul Hilberg di usarlo senza troppi problemi o a metterne in dubbio l'uso. Non conosciamo l'opinione di Lévi-Strauss su questi slittamenti semantici, ma, come vedremo, egli associa costantemente i catastrofi naturali causati dall'uomo agli stermini di cui gli uomini si sono resi responsabili e che possono riportarci indietro, in epoca moderna, fino alla conquista dell'America. Vedremo anche che i grandi cataclismi che hanno colpito l'umanità sono anch'essi serviti all'antropologo per esprimere le dimensioni impensabili dei genocidi. Se Lévi-Strauss non poteva allora conoscere la parola "shoah", nella frase di Tristes Tropiques che ho citato sopra riunisce, per la prima volta e in modo sui generis, i due significati che si possono d'ora in poi associare a questa parola: da una parte, quella biblica del disastro naturale e, dall'altra, quella contemporanea di catastrofe che deriva direttamente dall'azione degli uomini sugli uomini. È da questa prospettiva che Lévi-Strauss sembra avvicinare la rappresentazione deformata della foresta ai crimini nazisti. Tra i paesaggi sbalorditi della coscienza e il lavoro dell'etnologo il legame è immanente. In modo quasi aristotelico, è la presentazione che fornisce il sollievo desiderato e il ritorno alla normalità. Lévi-Strauss ritorna così alla professione di etnologo, in modo essenzialmente rousseauista < all'osservazione di cose e persone>, e ciò estende il valore simbolico della denuncia che la sua frase suggerisce: tranne quello che è in copertina, gli schizzi di una foresta di mani erano stati rubati durante la spoliazione di proprietà degli Ebrei da parte dei Tedeschi durante l'occupazione. Anche qui abbiamo un'eloquente testimonianza della capacità di Lévi-Strauss di esercitare il suo "spirito visionario" e di trascendere, attraverso la

figurazione e la scrittura, le catene dello spazio-tempo. Innanzitutto, riferendosi a ciò che gli era successo in Amazzonia negli anni 1930, egli anticipa i tragici eventi che si sarebbero prodotti nel cuore dell'Europa - I "paesaggi fatti di mani che emergono da corpi contorti e aggrovigliati come liane" - o prevede processi dalle conseguenze sociali incalcolabili come "l'islamizzazione della Francia e dell'Occidente". Questa riflessione, così come il "malessere" che ammette di aver "sentito in prossimità dell'Islam", sono costati a Lévi-Strauss l'accusa di razzismo anti-musulmano, quando invece egli critica le religioni del Libro in generale e rimprovera loro di essere sempre chiuse su se stesse o contaminate tra esse. Inoltre, non è semplicemente la riflessione sull'Islam - confine occidentale dell'Oriente e barriera invalicabile tra cristianesimo e buddismo - che è notevole in Tristes Tropiques. Da una parte, Lévi-Strauss trova tra i musulmani pakistani o indiani la stessa dell'Universo da cui proviene e che ha provocato così tanti disastri : < la stessa attitudine libresca, lo stesso spirito utopico, e quella convinzione ostinata di risolvere i problemi sulla carta per sbarazzarsene immediatamente>. D'altra parte, in questo contesto, è il silenzio sul giudaismo che sembra assordante, come se volesse implicitamente opporre alcuni dei suoi tratti distintivi, ad esempio l'assenza di proselitismo religioso, a quelli di cui I'Islam e il Cristianesimo sono portatori. Poiché, entrambi,rispettivamente molto aperti al dialogo e alla tolleranza, sono prigionieri della stessa ambiguità riguardo alle culture dei popoli che sottomettono o proteggono. L'Islam e il Cristianesimo, in effetti, esigono non solo che i loro principi siano riconosciuti, ma anche che gli altri abiurino la loro fede. Il cristianesimo, in particolare, ha dispensato la propria umanità agli Amerindi solo quando si sono mostrati ricettivi alla conversione, in caso contrario sono stati rimossi nel regno della natura e dell'animalità. Basta qui ricordare Bartolomeo de Las Casas, che fu tuttavia, in assoluto, il più risoluto difensore degli Indiani contro la rapacità dei Conquistadores. Il padre domenicano aprì le frontiere del suo umanesimo solo agli Indiani: dotati di un'anima, avrebbero potuto facilmente essere trasformati in buoni cristiani. Ma ciò, secondo Las Casas, non era il caso dei popoli africani poiché essi erano privi di questa premessa spirituale redentrice che è l'anima. Ma c'è un secondo punto che vogliamo sottolineare. Intervenendo sulla dimensione temporale, Lévi-Strauss adotta tecniche di narrazione molto vicine a un modello epico, quello dell'Odissea in particolare. Lo provano molti indizi testuali ed il modo in cui usa una risorsa come la memoria. Come dice Italo Calvino dell'Odissea, memoria e desiderio di tornare a casa propria si intrecciano al punto che si può parlare di ritorno - racconto , che .In effetti, si ha l'impressione che anche Lévi-Strauss abbia sempre pensato al ritorno per non correre il rischio di dimenticarlo prima di averlo realizzato. Così, la nona e ultima parte di Tristes Tropiques sembra dotare l'intero racconto di un movimento circolare capace di proiettarci, dopo l'ultimo gruppo di Indiani di cui parla, i Tupi-Kawahib, al suo punto di partenza: alle immagini del suo passato messe in riserva dalla memoria; nell'Apoteosi di Augusto , opera teatrale che egli concepirà in modo ; ai paradossi della civiltà che ritroverà in Oriente e che lo avevano spinto verso l'America facendo di lui un etnologo. Tristes Tropiques si presenta in effetti sin dall'inizio come un viaggio di ritorno che deve essere raccontato per poter definitivamente realizzarsi.

D'altronde, Lévi-Strauss doveva avere ben presente il rischio che, concretamente, questo ritorno non si sarebbe fatto mai più : il chimico francese Bertrand Goldschmidt, nel cortile di un albergo di Puerto Rico dove erano sbarcati insieme prima di continuare separatamente il loro viaggio per New York, una sera spiegò a Levi-Strauss e gli rivelò che . Metafora, come per Ulisse, della possibilità che il viaggio si compia, il ritorno sembra essere esteso qui al destino dell'intera umanità il cui viaggio sulla terra, come lo dimostra l'uso da parte dell'esercito americano della bomba atomica a Hiroshima e Nagasaki sembra poter essere per sempre fermato dalla guerra nucleare. Lévi-Strauss ha dunque sempre pensato al ritorno. D'altra parte, bisogna sottolineare che la capacità dell'etnografo di risalire alle origini è uno strumento concettuale tra i più sofisticati che la disciplina ha a sua disposizione per sopprimere il tempo. Ciò riporta il ritorno in una dimensione temporale di tipo circolare, un tempo, senza dualità - si potrebbe dire - che è stato centrale nella riflessione dell'antropologo francese. Quindi, più la decisione di partire o il desiderio di ritornare (il nostos), è la preferenza data al "movimento immobile" del pensiero che sembra definire la scelta di Lévi-Strauss di dedicarsi all'antropologia. Un "movimento immobile" che è pienamente espresso dalla sua singolare su Capitaine-Paul-Lemerle : . Lo stesso discorso vale per i miti, la cui morale è l'opposto della nostra che concepisce l' impurità e l'inferno . Le parole conclusive dell'ultimo capitolo delle Origini delle buone maniere a tavola (, precisamente) ci mostrano in modo esemplare i disastri prodotti dal limitato umanesimo che caratterizza le società dell'Occidente spingendoci a vedere l'inferno solo negli altri . Lévi-Strauss insiste in particolare sull'attività di distruzione alla quale l'uomo si è dedicato soprattutto nel secolo scorso e indica una possibile via d'uscita nella lezione che dobbiamo trarre da popoli e miti primitivi: Quando proclamano [...] che l'inferno, siamo noi stessi, i popoli selvaggi danno una lezione di modestia che,

vorremmo

credere,

siamo

capaci

di

capire.

In

questo

secolo

in

cui

l'uomo

si

accanisce

a

distruggere innumerevoli forme di vita, dopo tante società la cui ricchezza e diversità costituivano da tempo immemore il più caro del suo patrimonio, mai più, probabilmente, è stato

necessario dire, come

fanno i miti, che un umanesimo ben ordinato non inizia con se stesso, ma pone il mondo prima della vita, la vita prima dell'uomo, lo sguardo degli altri e sseri prima dell'amor proprio; e che anche un soggiorno di uno o due milioni di anni su questa terra, poiché in ogni caso conoscerà un termine, non

servirebbe come

scusa a qualsiasi specie, perfino la nostra, per appropriarsene come di una cosa e comporta rsi senza ritegno e discrezione.

Ridotta a qualcosa di cui appropriarsi a tutti i costi, la natura subisce un processo di desoggettivazione che si accompagna a un fenomeno uguale e contrario al livello del pensiero. La ricerca antropologica contemporanea - penso in particolare ai lavori di Descola mira proprio a proteggere dai rischi a cui siamo esposti, soprattutto attraverso questi processi - non controllati - di de-soggettivazione della natura.

Per essersi allontanato dalla natura, l'uomo vede ridurre, prima di tutto, le sue possibilità intellettive. È vero che il pensiero e il mondo...


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