Promessi sposi primo capitolo PDF

Title Promessi sposi primo capitolo
Course Letteratura Italiana
Institution Università degli Studi di Messina
Pages 12
File Size 543 KB
File Type PDF
Total Downloads 9
Total Views 153

Summary

riassunto luoghi e personaggi...


Description

Veduta del Resegone, sul lago di Como

Il lago di Como ha due rami e quello che si volge verso sud si stringe fra due catene montuose, acquistando per un breve tratto il corso di un fiume, specie nel punto dove le due rive sono unite dal ponte di Lecco. Poco più a valle il lago torna ad allargarsi e la riva si distende tra il monte di S. Martino e il Resegone, con un profilo rotto in collinette e piccole valli, mentre tutt'intorno vi sono vigne e campi coltivati. Lecco è la città principale di questa regione ed è sede, al tempo della vicenda narrata, di un castello che ospita una guarnigione di soldati spagnoli, spesso intenti a molestare le donne del luogo e a maltrattare i contadini, quando non depredano i raccolti della vendemmia. Tra le alture e la riva del lago, così come tra le varie colline, si snodano strade che talvolta scendono fra due muri infossati nel suolo e in altri casi si alzano su terrapieni, consentendo a chi vi cammina di vedere un ampio tratto di paesaggio: i luoghi da cui si ammira questo spettacolo sono da ammirare a loro volta, in quanto mostrano il profilo variabile delle cime dei monti che tempera e raddolcisce il carattere in parte selvaggio della natura.

Don Abbondio incontra i bravi

F. Gonin, I bravi

Per una delle stradine descritte, la sera del 7 novembre 1628, torna a casa dalla passeggiata don Abbondio, curato di un paesino di quelle terre il cui nome non è citato dall'anonimo, così come non è specificato il casato del personaggio. Il curato cammina lentamente e con fare svogliato, recitando le preghiere e tenendo in mano il breviario, mentre alza di quando in quando lo sguardo e osserva il paesaggio, oppure prende a calci i ciottoli sulla strada. Oltrepassata una curva, percorre la strada sino a un bivio alla cui confluenza è posto un tabernacolo, che contiene immagini dipinte di anime del purgatorio: qui, con sua grande sorpresa, vede due uomini che sembrano aspettare qualcuno, il primo seduto a cavalcioni sul muretto e l'altro in piedi, appoggiato al muro opposto della strada. Entrambi indossano una reticella verde che raccoglie i capelli e hanno un enorme ciuffo che cade loro sul volto; portano lunghi baffi arricciati all'insù e due pistole attaccate a una cintura di cuoio; hanno un corno per la polvere da sparo appeso al collo e un pugnale che emerge dalla tasca dei pantaloni, con una grossa spada dall'elsa d'ottone e lavorata. Don Abbondio li riconosce immediatamente come individui appartenenti alla specie dei bravi.

I bravi, le gride, la giustizia

Stemma del gov. don Gonzalo

Ma chi erano in effetti i bravi? L'autore cita una grida dell'8 aprile 1583, emanata dal governatore dello Stato di Milano che minacciava pene severissime contro tutti quei malviventi che si mettevano al servizio di qualche signorotto locale per esercitare soprusi e violenze, intimando a costoro di lasciare la città entro sei giorni. Tuttavia il 12 aprile 1584 lo stesso funzionario emanò un'altra grida in cui si minacciavano pene ancor più severe contro tutti quelli che avevano anche solo la fama di essere bravi, e il 5 giugno 1593 un altro governatore fu costretto a emanarne ancora un'altra con reiterate minacce, seguita da un'altra datata 23 maggio 1598 in cui si ribadivano pene severissime contro i bravi che commettevano omicidi, ruberie e vari altri delitti. La serie interminabile di gride prosegue con un provvedimento datato 5 dicembre 1600 ed emanato da un nuovo governatore di Milano, che minacciava nuovi tremendi castighi contro i bravi (anche se, osserva ironicamente l'autore, quel funzionario era forse più abile a ordire trame politiche e a spingere il duca di Savoia a muover guerra contro la Francia). A quella grida se ne aggiunsero altre prodotte da altri governatori nel 1612, 1618 e 1627, quest'ultima a firma di don Gonzalo Fernandez de Cordova poco più di anno prima dei fatti narrati; ciò basta all'autore a concludere che, ai tempi di don Abbondio, c'erano ancora molti bravi in Lombardia.

I bravi minacciano don Abbondio

F. Gonin, Don Abbondio e i bravi

Tornando a don Abbondio, il curato capisce subito che i due bravi stanno aspettando lui, dal momento che al vederlo essi si scambiano un cenno d'intesa e gli si fanno incontro. Il curato si guarda intorno, nella speranza di scorgere qualcuno, ma la strada è deserta; pensa se abbia mancato di rispetto a qualche potente, escludendo di avere conti in sospeso di questo genere; non potendo fuggire, decide di affrettare il passo e affrontare i due figuri, atteggiando il volto a un sorriso rassicurante. Uno dei bravi lo apostrofa subito chiedendogli se lui ha intenzione di celebrare l'indomani il matrimonio tra Renzo Tramaglino e Lucia Mondella, al che il curato si giustifica balbettando che i due promessi hanno combinato tutto da sé e si sono rivolti a lui come un funzionario comunale. Il bravo ribatte che il matrimonio non dovrà esser celebrato né l'indomani né mai e don Abbondio tenta di accampare delle scuse poco convincenti, finché l'altro figuro interviene con parole ingiuriose e minacciose. Il compagno

riprende la parola e si dice convinto che il curato eseguirà l'ordine, facendo poi il nome di don Rodrigo, che riempie don Abbondio di terrore: il curato fa un inchino e chiede suggerimenti, ma il bravo ribadisce l'ordine impartito e intima al religioso di mantenere il segreto, lasciando intendere che in caso contrario ci saranno rappresaglie. Don Abbondio pronuncia alcune parole di deferenza e rispetto verso don Rodrigo, quindi i due bravi se ne vanno cantando una canzone volgare, mentre il curato vorrebbe proseguire il colloquio entrando in improbabili trattative. Rimasto solo, dopo qualche attimo di sconcerto don Abbondio prende la strada che conduce alla sua abitazione.

Ritratto di don Abbondio

F. Gonin, Don Abbondio e don Rodrigo

Il curato, evidentemente, non è un uomo molto coraggioso e questa è una misera condizione in tempi come quelli in cui gli tocca vivere, in cui la legge e la giustizia non offrono alcuna protezione contro i soprusi. Le leggi non mancano e sono anzi sovrabbondanti, ma non vengono praticamente mai applicate e l'impunità è profondamente radicata nella società: i malfattori trovano asilo nei conventi, sono protetti dai loro padroni e dai privilegi nobiliari, cosicché le gride minacciano pene che non trovano esecuzione e i delitti si moltiplicano. Gli uomini chiamati a far rispettare le leggi sono impotenti, pavidi o spesso conniventi con i criminali che dovrebbero contrastare, per cui accade non di rado che siano gli uomini onesti e tranquilli ad essere perseguitati dalla giustizia. Alcuni si riuniscono in leghe, associazioni e corporazioni, per scopi leciti o illeciti, ma queste non hanno sempre un grande potere e, specie nelle campagne, un signorotto circondato da una masnada di bravi senza scrupoli può esercitare un dominio quasi tirannico sul paese. Don Abbondio non è ricco, né nobile, né coraggioso, quindi ha accettato volentieri in gioventù di diventare prete come volevano i suoi genitori, non per sincera vocazione ma per entrare in una classe agiata e dotata di alcuni privilegi. Non prende mai parte alle contese e, se costretto a prendere posizione, si schiera sempre col più forte; deve ingoiare molti bocconi amari e a volte sfoga il suo malanimo contro gli individui più deboli da cui non ha nulla da temere, criticando sempre aspramente quei religiosi che si battono contro le ingiustizie e le vessazioni. L'incontro coi bravi lo ha sconvolto e ora, mentre torna a casa, pensa come uscire d'impiccio: dovrà dare spiegazioni a Renzo, che sa essere una testa calda, e tra sé inveisce contro lui e Lucia che, a suo dire, hanno il torto di volersi sposare e di metterlo nei pasticci. È irritato anche contro don Rodrigo, che conosce solo di vista e che ha spesso difeso e definito un nobile cavaliere, ma contro il quale ora in cuor suo emette giudizi assai meno lusinghieri. Mentre è immerso nei suoi pensieri, il curato giunge alla sua casa in fondo al paese ed entra richiudendo subito la porta.

Don Abbondio e i "pareri" di Perpetua

F. Gonin, Don Abbondio e Perpetua

Il curato chiama la sua domestica, Perpetua, che da anni lo accudisce essendo rimasta zitella e sopportando i brontolii dei suo padrone, il quale a sua volta subisce i suoi. Don Abbondio va a sedersi sulla sua sedia in salotto e Perpetua capisce subito che è sconvolto: gli chiede spiegazioni, ma il curato rifiuta di parlare e chiede del vino, che la serva gli dà non senza qualche resistenza. La donna rinnova più volte le sue richieste, così alla fine il curato si decide a rivelare tutto in quanto desidera confidarsi con qualcuno; Perpetua inveisce contro la prepotenza di don Rodrigo, quindi suggerisce al padrone di informare di tutto con una lettera il cardinale Borromeo, che è noto per la sua onestà e la propensione a difendere i religiosi contro i soprusi dei potenti. Don Abbondio rifiuta l'idea adducendo il timore di ricevere una schioppettata nella schiena, benché Perpetua gli ricordi che i bravi spesso minacciano a vuoto e rimproverando il curato di non mostrarsi abbastanza deciso, attirando su di sé le soperchierie di ribaldi e malfattori. Don Abbondio non vuol sentire ragioni, quindi decide di andare a dormire senza neppure cenare: prende il lume e sale le scale, poi, prima di entrare nella sua stanza, si volta verso Perpetua e le rinnova la preghiera di non farsi sfuggire parola dell'accaduto.

Temi principali e collegamenti 

Il capitolo si apre con un'ampia descrizione paesaggistica, che è tra le pagine più famose del romanzo e delinea un quadro dei luoghi della vicenda che utilizza la tecnica cinematografica dello "zoom" (l'autore parte con uno sguardo dall'alto, che abbraccia il lago di Como nel suo complesso, per poi stringere via via l'inquadratura sino a descrivere le "stradicciole" su una delle quali compare don Abbondio). È stato osservato che Manzoni tratteggia qui il quadro di una natura quasi incontaminata, una dimensione contadina che contrasta con quella caotica e malsana della città: ciò vale soprattutto per Milano, che sarà descritta in termini assai più negativi. Un altro celebre passo simile è quello noto come "Addio, monti...", che chiude il cap. VIII, e in entrambi è evidente la perfetta conoscenza da parte dell'autore dei luoghi, oltre che la carica affettiva che pone nella descrizione di essi.



Nel testo sono presenti due ampie digressioni, la prima dedicata alle gride e all'inefficienza della giustizia nella Lombardia del XVII secolo (che spiega chi erano i bravi e quanto fossero pericolosi), la seconda che amplia lo stesso concetto descrivendo l'impotenza e la corruzione dell'apparato giudiziario. Il quadro che emerge è quello di uno Stato, il Ducato di Milano sotto gli Spagnoli, in cui le leggi sono del tutto inefficaci in quanto troppo numerose, inapplicate e piene di minacce che non sortiscono alcun effetto e, anzi, paradossalmente moltiplicano i delitti e i soprusi. Il segno più evidente di questa inefficienza giudiziaria è proprio la serie infinita di provvedimenti che ampliano via via le pene comminate, di cui Manzoni propone varie citazioni autentiche mettendone in risalto con ironia il linguaggio pomposo e altisonante (lo stesso dell'immaginario "scartafaccio" dell' Introduzione), nonché la sfilza di titoli senza valore dei governatori di Milano che quei provvedimenti emanavano. È anche una critica contro il malgoverno e la corruzione dei funzionari spagnoli di quel periodo, nonché all'inefficacia dei sistemi giudiziari in cui le leggi sono troppo numerose e mancano di concreta applicazione.



Come si evince dal dialogo tra don Abbondio e Perpetua, quest'ultima dà al curato del "lei" in segno di rispetto verso una persona di più alto rango sociale, mentre il sacerdote le dà del "voi": la stessa cosa avverrà anche con Renzo nel cap. II e ciò rispetta l'uso dell'epoca, in gran parte vigente ancora al tempo dell'autore. Anche i due promessi sposi si danno del "voi" e lo stesso fa Lucia nei confronti della madre Agnese.



È rimasta giustamente famosa ed è quasi passata in proverbio la frase pronunciata da uno dei bravi nel minacciare don Abbondio, "questo matrimonio non s'ha da fare, né domani, né mai".



I "pareri di Perpetua", ovvero il consiglio che la domestica dà al curato di informare con una lettera il cardinal Borromeo, si riveleranno in seguito molto saggi: sarà lo stesso cardinale nel cap. XXVI a rimproverare don Abbondio di non aver fatto ciò, durante il colloquio in cui il prelato rimprovera duramente il curato per non aver adempiuto ai suoi doveri (per approfondire: L. Pirandello, L'umorismo in don Abbondio; A. Spranzi, L'immoralità di don Abbondio.

Le gride e la giustizia nel Seicento

F. Gonin, Renzo e l'Azzecca-garbugli

Le "gride" erano i provvedimenti di legge che il governo del Ducato di Milano emanava nel XVII secolo e venivano chiamate così per l'uso da parte dei banditori di gridarle, appunto, sulla pubblica piazza (gran parte della popolazione era infatti analfabeta, anche se una copia di queste leggi veniva affissa nelle strade ed esibita all'occorrenza). L'autore sottolinea nel cap. I l'assoluta inutilità di questi provvedimenti, che "diluviavano" (erano cioè numerosissimi) e minacciavano pene e castighi assai severi, che naturalmente non venivano mai applicati a causa dell'inefficienza e della corruzione del sistema giudiziario: ne è una prova la sfilza interminabile delle gride che Manzoni cita nel cap. iniziale del romanzo, per dimostrare che i bravi prosperavano ed erano impuniti, nonostante fossero minacciati di essere incarcerati, posti alla tortura o peggio ad arbitrio del giudice (addirittura si proibiva a chiunque di portare il "ciuffo" come segno distintivo dell'essere un bravo e si minacciavano pene ai barbieri che tagliassero i capelli in quel modo, come citato dall'autore nel cap. III ). Fu proprio la lettura di una grida, quella datata 15 ottobre 1627 in cui si contemplava il reato di minacce a un curato per non celebrare un matrimonio, che diede a Manzoni l'idea per la trama del romanzo: questa legge compare nell'episodio di Renzo allo studio del dottor Azzecca-garbugli (cap. III), in cui l'avvocato scambia il giovane per un bravo e gli mostra la grida per fargli paura, per fargli credere che è in un brutto guaio e gli servirà il suo aiuto per uscirne. Il dottore dice che la grida è "fresca", cioè recente, e quindi di "quelle che fanno più paura", in quanto il gran numero delle leggi toglieva a queste l'efficacia; spiega a Renzo che lui saprà imbrogliare le carte e farlo assolvere dall'accusa, invocando la protezione di personaggi potenti e minacciando le persone coinvolte, in quanto "a saper ben maneggiare le gride, nessuno è reo, nessuno è innocente" (dunque la giustizia non è certo assicurata da questi provvedimenti che, oltre ad essere inefficaci, sono passibili di controverse interpretazioni). Di un'altra grida si parla anche nel cap. XIV, quando Renzo e il poliziotto travestito sono all'osteria della Luna Piena, a Milano: l' oste, che ha riconosciuto il poliziotto, vuole mostrarsi ligio alla legge e mostra al giovane la grida che gli impone di registrare nome e cognome di chi viene ospitato nella locanda, suscitando le rimostranze di Renzo che si rammenta di quanto poco aiuto gli avesse offerto la grida mostratagli dall'avvocato. Il giovane fa osservazioni ironiche sullo stemma di don Gonzalo de Cordova (il governatoredi Milano) che campeggia sul documento e conclude con amaro sarcasmo che "comanda chi può, e ubbidisce chi vuole", mentre poco dopo anche gli altri avventori dell'osteria si uniscono a lui nel dire che le leggi "son tutte angherie, trappole, impicci". L'idea di Renzo è che la parola scritta, specie per chi come lui è semi-analfabeta e non in grado di leggere facilmente, diventa un strumento nelle mani dei potenti per esercitare soprusi e angherie sui più deboli, mentre a lui povero contadino la giustizia non è stata minimamente assicurata dall'apparato legislativo. L'inutilità delle gride verrà ulteriormente ribadita dall'autore nel cap. XXVIII, quando viene descritta la situazione a Milano seguente alla rivolta per il pane del giorno di S. Martino: il prezzo del pane è nuovamente calato in seguito a un provvedimento di legge, cosa di cui approfittano i milanesi per acquistarne in gran quantità, situazione che ovviamente non può durare a lungo a causa della penuria di

grano. Il 15 novembre viene dunque emanata una grida, a firma del gran cancelliere Antonio Ferrer, che proibisce di comprare pane in eccesso sotto minaccia di severissime pene e impone nondimeno ai fornai di continuare a produrne, il che suscita l'ironia dell'autore secondo il quale "Chi sa immaginarsi una tale grida eseguita, deve avere una bella immaginazione; e certo, se tutte quelle che si pubblicavano in quel tempo erano eseguite, il ducato di Milano doveva avere almeno tanta gente in mare, quanta ne possa avere ora la Gran Bretagna" (l'allusione è alla pena della galera, ovvero l'arruolamento dei condannati come forzati sulle navi da guerra). In seguito viene deciso di aggiungere il riso nel composto del pane e se ne fissa con una nuova grida un prezzo ridicolmente basso, il che spinge anche gli abitanti del contado a venire a comprarlo in città; per arginare il fenomeno, viene emanata l'ennesima grida che proibisce di portare il pane fuori dalla città, per cui l'autore osserva che "La moltitudine aveva voluto far nascere l'abbondanza col saccheggio e con l'incendio; il governo voleva mantenerla con la galera e con la corda". Il risultato di tutto ciò è che il grano ben presto si esaurisce e si scatena una terribile carestia, che sarà poi una delle concause del diffondersi della peste nel 1630 (Manzoni riferisce di non aver trovato traccia delle gride che ponevano fine alle tariffe calmierate del pane). È interessante infine ricordare che l'espressione "gride manzoniane" è passata in proverbio a indicare provvedimenti di legge inefficaci, che minacciano pene roboanti senza trovare poi una concreta applicazione da parte dello Stato o della giustizia.

Clicca qui per ascoltare (voce narrante di Silvia Cecchini).

l'audio del

capitolo

dal

sito www.liberliber.it

Capitolo I Quel ramo del lago di Como, che volge a mezzogiorno, tra due catene [1] non interrotte di monti, tutto a seconda dello sporgere e del rientrare di quelli, vien, quasi a un tratto, a ristringersi, e a prender corso e figura promontorio a destra, e un’ampia costiera dall’altra parte; e il ponte [2], che ivi congiunge le due rive, par che sensibile all’occhio questa trasformazione, e segni il punto in cui il lago cessa, e l’Adda rincomincia, per ripig lago dove le rive, allontanandosi di nuovo, lascian l’acqua distendersi e rallentarsi in nuovi golfi e in nuovi s formata dal deposito di tre grossi torrenti [3], scende appoggiata a due monti contigui, l’uno detto di san Mar voce lombarda, il Resegone, dai molti suoi cocuzzoli in fila, che in vero lo fanno somigliare a una sega: talc primo vederlo, purché sia di fronte, come per esempio di su le mura di Milano che guardano a settentrione, tosto, a un tal contrassegno, in quella lunga e vasta giogaia, dagli altri monti di nome più oscuro e di forma p un buon pezzo, la costa sale con un pendìo lento e continuo; poi si rompe in poggi e in valloncelli, in ert secondo l’ossatura de’ due monti, e il lavoro dell’acque. Il lembo estremo, tagliato dalle foci de’ torrenti, è qua ciottoloni; il resto, campi e vigne, sparse di terre, di ville, di casali; in qualche parte boschi, che si prolu montagna. Lecco, la principale di quelle terre, e che dà nome al territorio, giace poco discosto dal ponte, al anzi viene in parte a trovarsi nel lago stesso, quando questo ingrossa: un gran borgo al giorno d’oggi, e che diventar città. Ai tempi in cui accaddero i fatti che prendiamo a raccontare, quel borgo, già considerabil castello, e aveva perciò l’onore [4] d’alloggiare un comandante, e il vantaggio di possede...


Similar Free PDFs