Riassunto voglia di comunità bauman PDF

Title Riassunto voglia di comunità bauman
Course Psicologia di comunità
Institution Università Cattolica del Sacro Cuore
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riassunto completo del testo di Bauman "voglia di comunità" utile per l'esame di psicologia dei gruppi e di comunità ...


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VOGLIA DI COMUNITA’ Z.Bauman CAP 1 L’autore, Zygmunt Bauman , è uno dei più importanti sociologi contemporanei, di origine polacca. La sua analisi si concentra essenzialmente nel postmoderno o tarda modernità. In voglia di comunità ad essere analizzata è appunto la comunità che ci manca,ci manca perché manca la sicurezza elemento fondamentale per una vita felice. L’insicurezza è palpabile e attanaglia tutti noi, soprattutto nell’oggi fatto di precarietà, di liberalizzazioni, di flessibilità ognuno di noi si ritrova da solo con le sue insicurezze e incertezze. Sappiamo che le nostre paure sono una certezza e si possono superare solo restando uniti, solo nella comunità. Siamo sempre indotti a cercare, come sostiene Beck, soluzioni personali a contraddizioni sistemiche cioè cerchiamo la salvezza individuale da problemi comuni. La nostra è un’incertezza esistenziale ma sovente non ne parliamo, piuttosto siamo portati a ricercare l’incertezza come la ricerca della sicurezza , da qui nasce la diffidenza verso tutto ciò che è estraneo, tutto ciò che è diverso da noi. Oggi in cui le aree urbane sono altamente eterogenee al punto che l’uomo si sente spersonalizzato da una propria individualità ,proprio oggi nell’era globale le paure sono maggiori e la paura inevitabilmente viene legata alla ricerca della sicurezza. Quasi infranto quel sogno comunitario che doveva portare ad una semplificazione eliminando le differenze, ma che al contrario il comunitarismo non ha affrontato adeguatamente. Da sempre il termine comunità ha ispirato in ogni individuo un senso di protezione, calore, affetto, un termine dal suono dolcissimo che evoca tutto ciò di cui abbiamo bisogno per sentirci fiduciosi, tranquilli e sicuri di noi. La comunità incarna il tipo di mondo che non possiamo avere ma nel quale desidereremmo tanto vivere e si vive nella speranza di poterlo conquistare un giorno. La comunità racchiude il senso della collettività proprio perché ogni individuo risulta interdipendente dall’altro, non si può agire da soli in una collettività. Ma nasconde anche una terribile differenza, la comunità sognata e la comunità reale che può essere ben diversa. In una comunità quindi si ricerca la libertà e la sicurezza ma averle entrambe non è possibile . Esempio di quanto detto è sicuramente la storia mitologica del supplizio di Tantalo il quale viveva una vita felice e beata in quanto aveva un eccellente rapporto con gli dei. Questi lo invitavano sempre durante le feste olimpiche a banchettare tutti insieme. Fin quando però Tantalo non si macchiò di un qualcosa che gli dei non gli perdonarono. Al riguardo molte sono le ipotesi del crimine commesso da Tantalo quella più accreditata è che forse tradì la fiducia degli dei rilevando misteri che dovevano restare segreti ai comuni mortali. In pratica Tantalo si rese colpevole per aver condiviso una conoscenza che né a lui né ad altri mortali era dato sapere. In effetti le storie mitologiche sono fatte per trarne insegnamenti e il messaggio nella leggenda di Tantalo è chiaro e palese, cioè se ti accontenti senza conoscere la reale natura delle cose, senza porti tanti interrogativi, vivrai beatamente e senza tribolazioni. Così come la storia della fatidica mela proibita raccolta dall’albero della conoscenza da Adamo ed Eva e quindi espulsi dal paradiso. Tonnies afferma che ciò che differenzia la gemeinshaft (comunità del passato) dalla geselleshaft, società nascente, non è altro che la comprensione reciproca di tutti i suoi membri. Comprensione che non vuol dire consenso, in quanto quest’ultimo nasce sostanzialmente da un accordo raggiunto da persone che la pensano in modo diverso e quindi non è altro che il prodotto di lunghe e snervanti trattative. La comprensione basa le

sue radici su una pragmatica della comunicazione che non va ricercata né conquistata perché esiste già, una comprensione che fa capire tutti i partecipanti al volo e non ha bisogno di metterli d’accordo. Una comprensione comune naturale, un sentimento reciprocamente vincolante grazie al quale gli abitanti della comunità rimangono uniti e coesi. Infatti dopo Tonnies anche l’acuto analista svedese Rosenberg definisce la comunità come un cerchio caldo, e già il termine può presagire cosa egli intendesse dire. Quella forte compattezza, coesione, intenti comuni, che si ritrovano solo nella comunità di un tempo, questi sentimenti oggi appaiono rinvenibili solo nei sogni. Nel cerchio caldo non bisogna dimostrare niente a nessuno, e qualsiasi cosa si faccia possiamo sempre attenderci aiuto e speranza. Una comunità quella di Tonnies e Rosenberg tacita e intuitiva, così come dovrebbe essere perché naturale, palese, chiara, certa. Una comunità che non esisterebbe più se conclamata, se diventa autocosciente. Una comunità di cui si parla è una contraddizione in termini. A tal proposito ricordiamo Redfield che definisce la comunità con tre aggettivi, i tre attributi non sono affatto casuali: Peculiare, che significa che è perfettamente chiaro chi è uno di noi e chi no cioè ,chi è della comunità e da chi non lo è; Piccola, che significa che la comunicazione tra i membri è densa e fluida in quanto i segnali provenienti dall’esterno sono in netto svantaggio per via della loro discontinuità, superficialità e meccanicità; Autosufficiente, in quanto l’isolamento dagli altri è totale , le possibilità di spezzarlo rare e remote. Questi tre elementi si coalizzano per proteggere quanto più efficacemente i membri di una comunità da qualsiasi minaccia alle loro consuetudini. E in effetti nel momento in cui questi tre elementi rimangono immutati non vi è spazio per la critica, la riflessione ,la comunità intesa da Redfield e da Tonnies sono entrambe fatte della stessa pasta cioè di omogeneità e identicità. Nel momento in cui la comunicazione si estende, si propaga all’esterno della comunità ecco che la comunità stessa comincia a vacillare ,comincia ad aprirsi, e con l’apertura ecco riaffiorare timori e paure, le cosiddette differenze tra noi e l’altro che non ci appartiene, le identicità e le omogeneità entrano in crisi. Nella nostra società è impossibile tracciare confini tra interno ed esterno, pensiamo a quanto velocemente viaggiano le informazioni grazie anche alle nuove tecnologie ,pensiamo in quanto poco tempo possiamo raggiungere territori ,paesi ,notiamo quanto facile sia la mobilità, per questo oggi non è possibile parlare di comunità naturale come quelle intese da Tonnies e Redfield. Non è possibile perché pur trovando un’intesa ed accordi comuni questi punti saranno sempre e comunque suscettibili di rinegoziazioni, di dibattiti interni, di discordie. Hobsbawm afferma che mai come oggi il termine comunità è stato usato nel modo più insensato e distorto del termine, oggi che tutti vorrebbero rifuggire da una società in eterno movimento ad un luogo eterno. Oggi si potrebbe parlare di identità come afferma Young, ma il termine non è altro che un surrogato della comunità, l’identità significa essere unici ed il termine non può che ulteriormente dividere e separare e in un mondo come quello di oggi, globale, individualista ,privatizzato ricercarla appare quanto mai impensabile, se non nel mondo dei nostri sogni. Non potendo ricreare tutto questo, poiché l’uomo ha sempre e comunque bisogno di certezze si rifugia nelle parole libertà e sicurezza per proteggersi da quel fantomatico nemico proveniente dall’esterno, per difendere il proprio orto da chissà quali attacchi. E quindi si ritroverà a spendere la maggior del tempo non in un posto naturale, in un cerchio caldo ma bensì in fortezze assediate per proteggersi dal fantomatico nemico, o mescolarsi in una folla sempre più grande per combattere la solitudine.

Paradossalmente gli stessi confini tracciati sono l’esempio di una discriminazione, di una differenza tra interno ed esterno. In conclusione aprirsi all’altro appare oggi davvero impresa ardua se non vana, un’Europa comunitaria che potrebbe esistere seppur difficilmente, abbattendo anche quelle tradizioni storico culturali, la storia dovrebbe insegnare a non tornare sulle colpe, sugli sbagli commessi, il tutto ci rende incapaci di reagire ad un progresso inteso in termini di futuro se non riusciamo a scrollarci di dosso contraddizioni e stereotipi, perché un passato non può far del nostro presente un futuro su queste basi.

CAP 2 Bauman analizza quel 19esimo secolo, periodo delle grandi trasformazioni, come il momento in cui la comunità viene a disgregarsi, frantumarsi, l’uomo perde il suo valore in quanto tale in nome di un progresso in cui le parole libertà e sicurezza sono praticamente bandite. Il lavoro che nelle epoche premoderne rappresentava efficienza, rapporto umano tra l’artigiano e l’apprendista, la voglia di migliorarsi , nella modernità è proprio il lavoro ad alienare l’uomo. Il sogno di fuggire da una comunità routinaria ben presto si scontra con la dura realtà , porta la massa contadina ad abbandonare le campagne e a trasferirsi in città, qui ritrovano una vita non più consuetudinaria ma bensì abitudinaria con una routine che schiaccia, che aliena come dice Marx, che imprigiona in una gabbia d’acciaio secondo Weber dove ogni attitudine viene eliminata e soppiantata dal vorticoso processo di produzione di fabbrica. Il tempo per l’uomo industriale è scandito non dagli orologi bensì dalle sirene della fabbrica, con il suono della sirena va a dormire e con il suono della sirena si risveglia. Il processo di produzione creato da Taylor secondo il principio del panopticon, controllo e sorveglianza annullava l’uomo alla macchina in una serie di gesti meccanici, allontanandolo da ciò che produceva, alienandolo nella vita di relazione, una sorta di alienazione tra governati e governanti se pensiamo agli uomini che per controllare e sorvegliare spendevano la loro vita nelle torrette di controllo. Il sistema taylorista era volto alla finta efficienza preoccupandosi solo della produttività, attraverso un’ingegnosa suddivisione di tutti i movimenti umani affinché non un solo minuto venisse sprecato per produrre. Di quel periodo anche la filmografia ci offre un’importante contributo e come non citare l’eloquente tempi moderni del grandioso regista e uomo quale Charlie Chaplin. Così la suddivisione del lavoro alienava l’uomo anche nella vita di relazione. Dov’era quell’efficienza cioè quell’arte artigiana che con mani abili ed esperte modellava il suo prodotto, lo assisteva in ogni fase della lavorazione un prodotto con un valore intrinseco perché creato, fatto dall’artigiano, che prendeva coscienza , capiva quanto grande era stato il suo lavoro perché seguiva di pari passo tutto il processo di produzione se così vogliamo chiamarlo fino al prodotto finito. Questo era il più grande incentivo. Il suo lavoro tramandato poi all’apprendista con amore, partecipazione. Il capitalista non si preoccupava minimante del lavoratore, in una sorta di potere gerarchico quasi l’operaio non esisteva, ed è stato questo uno dei grandi mali del capitalismo. Infatti Veblen nella sua teoria della classe agiata mette in evidenza proprio l’argomento sostenendo che la proprietà privata non risponde solo a necessità di sussistenza ma bensì va interpretata come un segno di distinzione e di prestigio, una classe, uno status. Anche Durkheim parlando di solidarietà dice che questa è possibile anche nelle società ad alta divisione del lavoro ma non senza conseguenze destabilizzanti e ci parla di divisione anomica e coercitiva, in quanto la diffusione dell’occupazione è avvenuta senza alcuna

regolamentazione giuridica che tuteli i lavoratori ai vari rischi del mercato. Insomma i pensatori del tempo avevano intuito i problemi conseguenti ai processi di modernizzazione, è un parallelismo azzardato ma in pratica è ciò che succede oggi, non aver previsto i rischi e le conseguenze di una globalizzazione nel volere un’Europa comunitaria. Negli anni trenta con Ford si capì che qualcosa bisognava cambiare certo non la produzione massificata ma il modo. Rendere l’operaio artefice del prodotto, e soprattutto renderlo umano. Si crearono dei villaggi per operai con scuole , ospedali, punti di evasione e se pensiamo si voleva ricostituire una comunità premoderna che ormai non poteva più esistere, in quanto il tutto era un ordine costruito dal raziocinio e la comunità veniva preservata solo grazie ad un quotidiano controllo e monitoraggio.

CAP 3 Bauman si sofferma sulla questione del potere. Nell’epoca moderna detenere il potere era quasi come una sorta di status e fu del tutto casuale l’iniziale detenzione in un’unica persona di proprietà e gestione. Infatti poco prima dello scoppio della seconda guerra mondiale avanzava e prendeva piede quella cosiddetta classe manageriale che deteneva il potere, il potere consisteva nel prendere decisioni. Dopo il conflitto, nel periodo post bellico ci fu una sorta di rivoluzione della classe manageriale, infatti i manager non videro l’ora di scrollarsi di dosso quegli onerosi e ingrati doveri dirigenziali demandandoli a chi sostava ad un gradino inferiore. L’era del coinvolgimento era finita, avanza l’era del disimpegno, dell’alta velocità, della delocalizzazione, del ridimensionamento. Liberalizzazione e deregolamentazione sono le parole usate per indicare ciò. La deregolamentazione o deregulation è quel processo per cui i governi eliminano le restrizioni degli affari al fine di incoraggiare le efficienti operazioni del mercato. La base razionale per la deregolamentazione è, generalmente, che un minor numero di regole porta a un maggior livello di concorrenza, conseguentemente a maggior produttività, maggior efficienza e, in generale, prezzi più bassi. La deregolamentazione è differente dalla liberalizzazione perché un mercato liberalizzato, permettendo un qualsiasi numero di concorrenti, può essere regolato al fine di proteggere i diritti dei consumatori, specialmente per prevenire la creazione di oligopoli, cioè una forma di mercato con pochi offerenti. Tuttavia i termini sono usati indifferentemente riferendosi alle attività liberalizzate o deregolamentate. Liberalizzazione e deregolamentazione sono parole d’ordine di un oggi in cui i potenti non hanno più interesse a regolamentare gli altri. Il mantenimento dell’ordine in ogni sua espressione è divenuto argomento scottante da passare a chi gerarchicamente inferiore, oggi in cui tutto cambia e si evolve repentinamente, dove vi è la sensazione di non essere padroni del presente, come osservato da Bordieu, in cui vi è l’incapacità di elaborare e attuare piani. La metafora comportamentalista del famoso esperimento condotto in laboratorio sui ratti, posti in un labirinto, con mura solide, con pochissimi corridoi giusti e tanti altri che non conducevano da nessuna parte, è una fedele rappresentazione della quotidiana condizione della vita dell’uomo. Un’altra metafora non meno eloquente e sicuramente rappresentativa è stata formulata da Jabes: la metafora di un deserto le cui strade, tante e senza segnaletica, sono segnate soltanto dai passi deboli e incerti di passanti che inevitabilmente il vento ben presto spazzerà via. La metafora definisce chiaramente l’incertezza che segna il XXI secolo, dove non esistono né labirinti né solide mura in cui rifugiarsi.

Stranamente ci ritorna in mente quel passato, quelle gabbie d’acciaio che rappresentavano si la routine e la monotonia di una vita alienata e alienante, ma paradossalmente quelle gabbie, quella routine offrivano certezze e sicurezze sia nel lavoro che negli affetti. Oggi assistiamo ad una spersonalizzazione dell’individualità che ci porta inevitabilmente ad un allontanamento da tutte quelle relazioni che rappresentano non altro che il motore di questa vita, il sale della nostra esistenza. La drogheria all’angolo dove la mattina ci si recava a comprare pane e latte e si discuteva con il commesso del tempo, degli eventi accaduti il giorno prima, oggi soppiantate dalla grande distribuzione. Il sindaco imprenditore non di se stesso ma della comunità. La banca locale con i colori delle cambiali simbolo dell’appartenenza, il direttore di banca, che dava del tu all’imprenditore, dal quale ci si recava per ottenere il finanziamento per la costruzione del fatidico capannone simbolo del “ce l’ho fatta!” oggi soppiantati dalle icone di un sito web, le user friendly senza volto e senza nome. Ed anche nel privato le cose non vanno meglio, l’incertezza e l’assenza di appartenenza sono sintomi di un ambiente sociale instabile data la mancanza di punti solidi di riferimento. Tutto questo oggi ci manca, ci manca il contatto, la coesione, la condivisione, i legami come dire sono utili ma non necessari, non indispensabili, qualsiasi tipo di relazione può essere facilmente sostituita con altro o con niente, inesorabile avanza il tempo della solitudine, del fine utilitaristico, il tempo in cui i sentimenti sono solo e soltanto un optional.

CAP 4 Ed in questo contesto che nasce e si sviluppa la secessione dell’uomo affermato, cioè la fuga dalla comunità dell’era globale. Bauman evidenzia i tanti studi condotti sia in America che nel resto del mondo proprio su questa nuova condizione dell’uomo affermato. Egli è come spersonalizzato, ricerca la solitudine perché teme i confronti, l’uomo che non ha radici ,che persegue solo i propri fini, come del resto chi detiene il potere politico non è realmente interessato a risolvere le questioni importanti, ma l’attenzione si cerca di spostarla su problemi futili per non affrontare il reale, si lascia scivolare il discorso o si resta chiusi in cinici silenzi. Dick Pountain e David Robins individuano nel comportamento dell’uomo distaccato il sintomo della secessione dell’uomo affermato. Distacco significa fuga dai sentimenti, dal caos dell’intimità vera, ci si rifugia sempre più verso quelle relazioni occasionali che valgono il tempo che trovano, per non sentirsi legati, vincolati. Soren Kierkegaard trova una sorta di affinità tra il genere di vita che fa l’uomo affermato e il tipo di vita del Don Giovanni, descritto nell’opera mozartiana, il quale era sempre alla ricerca di passioni, il suo piacere era conquistare le donne non per possederle ma per sedurle e nel momento stesso in cui quel suo impulso veniva soddisfatto, quella soddisfazione appagata, abbandonava la sua preda e ripartiva alla ricerca di nuove emozioni. Come un vortice continuo perché quel vortice gli consentiva di assaporare e di vivere la vita fatta di momenti, l’insieme di momenti rappresentavano il momento in se. Una contraddizione se vogliamo ,ma un esempio eloquente per capire che il non legame, il rigetto di qualsiasi coinvolgimento e impegno postula proprio l’assenza di comunità. In effetti l’uomo affermato, il potente si rifugia costantemente in questa comunità chiusa, deprivata di qualsiasi valore o sentimento, perché in questa sorta di gioco fra cacciatori e prede è spesso l’intruso a far paura, è il confronto con l’esterno che si teme. Il mondo in cui risiede la nuova elite oggi è un mondo indefinito e impersonale, extraterritoriale, fatto di recapiti mobili come e-mail o numeri di cellulare, residenze fittizie e non reali, le dimore

sono le tante capitali del mondo in cui la nostra elite trascorre un terzo della vita, aeroporti, hall di alberghi, ristoranti, tutti luoghi indefiniti e impersonali ,una folla anonima che si sente cittadina del mondo e a questo punto un dirigente della nike fu molto chiaro a proposito della sua extraterritorialità e del sentirsi cittadino del mondo, le uniche e sole persone che ci rinchiudono in confini nazionali sono solo i politici. Oggi si usa spesso il termine cosmopolita riferendosi proprio all’uomo globale, non soffermandoci minimamente sull’etimologia di tale termine. Il cosmopolitismo della nuova elite globale nasce per essere selettivo, non trasmette né impone cultura o stili di vita, i viaggi non sono viaggi alla scoperta di qualcosa, non tramandano, l’importante non è il dove ma l’esserci, essere qui è questo quello che conta. Come ogni comunità chiusa le regole per entrarvi sono rigide, severe e se fisicamente un esterno riesce a scavalcarle si viene comunque eliminati dal punto di vista culturale, si viene annientati resi invisibili. La bolla in cui la nuova elite cosmopolita culturale e politica trascorre la maggior parte del suo tempo è in quell’area priva di comunità, tutti accomunati d...


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