RIASSUNTO Bauman - La società individualizzata PDF

Title RIASSUNTO Bauman - La società individualizzata
Course Etica Sociale
Institution Università degli Studi di Padova
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Riassunto libro La società individualizzata, mancano gli ultimi capitoli perché non erano programma d'esame. ...


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La società individualizzata - Zygmunt Bauman ! Parte prima - Come siamo Capitolo 1 - Ascesa e caduta del lavoro Il primo uso registrato della parola inglese labour nel senso di «sforzo fisico volto al soddisfacimento dei bisogni materiali della comunità» risale al 1776. Un secolo più tardi la stessa parola passò a significare anche «il complesso dei lavoratori e operai che partecipano alla produzione» e, poco dopo, i sindacati e le altre organizzazioni che collegavano tra loro quei due significati, facendo infine di tale connessione una questione politica. L’uso inglese evidenza il nesso strettissimo tra il significato attribuito al lavoro, l’autocostituirsi come classe di coloro che lavorano e la politica fondata su tale autocostituzione. ! Nel 1870 il reddito pro capite dell’Europa industrializzata era undici volte superiore a quello dei paesi più poveri del mondo. Nel secolo successivo ci fu un’ulteriore quintuplicazione, per cui nel 1995 il rapporto era di cinquanta a uno. «La diseguaglianza economica fra le nazioni è dunque “recente”: è il frutto degli ultimi due secoli». Lo stesso può dirsi del concetto di lavoro come fonte di ricchezza e della politica nata e guidata da tale assunto. ! La nuova diseguaglianza globale, così come la nuova sicurezza e il nuovo senso di superiorità che ne seguirono erano sensazionali e senza precedenti: nuovi concetti, nuovi impianti cognitivi, forniti dalla nuova scienza economica. La ricchezza viene dal lavoro e che il lavoro è la prima, forse, l’unica fonte di ricchezza. ! Come Karl Polanyi avrebbe suggerito molti anni dopo, aggiornando l’intuizione marxiana, il punto di partenza della «grande trasformazione» che sancì l’atto di nascita del nuovo ordine industriale fu la separazione dei lavoratori dai loro mezzi di sussistenza. Quell’evento epocale andò a inserirsi in una più ampia divisione tra produzione e scambio, che cessarono di far parte di un modo di vita più generale e onnicomprensivo, per cui il lavoro potè essere considerato una semplice merce e trattato come tale. ! Senza quella separazione sarebbe stato difficile scindere mentalmente il lavoro dalla «totalità» alla quale «naturalmente» apparteneva per farne un oggetto autosufficiente. Nella visione preindustriale della ricchezza una di queste «totalità» era la terra, comprensiva di coloro che la contavano e ne raccoglievano i frutti. Il nuovo ordine industriale e il reticolo concettuale che permise di proclamare l’avvento di una società nuova, società industriale, nacquero in Gran Bretagna , paese che si distingueva dai suoi vicini europei per aver distrutto il proprio ceto contadino e con esso il legame «naturale» tra terra, fatica dell’uomo e ricchezza. I coltivatori dovevano essere ridotti all’inattività prima di poter essere considerati contenitori di una «forza lavoro» pronta all’uso, e prima che quella forza potesse essere ritenuta per sé una potenziale «fonte di ricchezza». ! I contemporanei percepirono in questa nuova inattività dei lavoratori manuali l’emancipazione del lavoro. Ben difficilmente infatti si potrebbe affermare che il lavoro «emancipato» fosse dotato di autodeterminazione, libero di fissare e seguire criteri propri. Una volta scoperto che il lavoro era la fonte della ricchezza, il compito della ragione era di scavare, consumare e sfruttare tale fonte con un’efficienza mai vista prima. ! Alcuni pensatori, tra cui ad esempio Karl Marx, videro il trapasso dal vecchio ordine essenzialmente come il risultato di un intento dinamitardo, come l’esplosione di una bomba piazzata dal capitale intenzionato a «dissolvere ciò che è solido e profanare ogni cosa sacra». Altri pensatori più scettici e meno entusiasti, tra cui Alexis de Tocqueville, videro in quella scomparsa più un’implosione che un’esplosione individuando le cause del crollo. Ben pochi contrasti c’erano però in merito alle prospettive del nuovo regime e alle intenzioni dei suoi padroni: il vecchio ordine ormai estinto doveva essere sostituito da un nuovo ordine meno vulnerabile e più vitale del suo predecessore. Le cose erano state «sradicate» dovevano, prima o poi, essere «ri-radicate». ! Quel nuovo ordine doveva essere imponente, solido e durevole. Il cantiere del nuovo ordine l’ordine industriale - era orgogliosamente cosparso di monumenti che celebravano quella potenza e quell’ambizione, colati in ferro o scolpiti nel cemento; monumenti non indistruttibili ma di certo costretti per apparire tali, come fabbriche gigantesche piene fino al tetto di macchinari voluminosi e formicolanti di addetti, o reti fitte ed estese di canali, ponti e binari ferroviari punteggiati da stazioni Simi agli antichi templi consacrati al culto dell’eterno. ! Il modello fordista di un ordine nuovo e razionale delfini l’orizzonte della tendenza universale del tenti e fu un ideale che tutti o la maggior parte degli imprenditori contemporanei si sforzarono, con risultati alterni, di realizzare. !

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La «modernità pesante» fu per l’appunto l’epica del confronto tra capitale e lavoro, rafforzato dalla reciproca dipendenza: la sussistenza dei lavoratori dipendeva dal lavoro per riprodursi e crescere, dal canto suo, il capitale doveva assumerli. Il luogo dove lavoro e capitale di incontravano era determinato; nessuno dei due poteva facilmente spostarsi altrove, e le massicce mura della fabbrica rinchiudevano entrambi i partner in una prigione comune. Capitale e lavoro erano uniti, diremmo, in ricchezza e in povertà, in salute e in malattia, finché morte non li avesse separati. La fabbrica era la dimora di entrambi. ! Per alcuni il welfare state era solo una misura temporanea, che avrebbe esaurito il suo compito non appena l’assicurazione collettiva contro le avversità avesse reso gli assicurati sufficientemente audaci e intraprendenti da sviluppare tutto il loro potenziale. Osservatori più scettici vedevano in esso un’operazione di pulizia e risanamento che la collettività avrebbe dovuto finanziare e condurre fin quando l’impresa capitalistica avesse continuato a produrre scorie sociali che non aveva né intenzione né le risorse sufficienti per riciclare per un tempo molto lungo. Si può ritenere che welfare state fosse uno strumento per risolvere le anomalie, impedire gli scostamenti dalla norma e scongiurare le conseguenze di eventuali infrazioni che dovessero comunque verificarsi. ! Gli orizzonti temporali della «modernità pesante» erano di lunga durata. Per i lavoratori quegli orizzonti erano tracciati dalla prospettiva di un lavoro a vita in un’azienda che forse non era immortale, ma la cui esistenza era nettamente più lunga della speranza di vita dei suoi operai. Per i capitalisti i «beni di famiglia», che dovevano durare più a lungo di ogni singolo membro della famiglia stessa, coincidevano con gli stabilimenti ereditati, costruiti o progetti per far parte dell’asse ereditario. ! I sindacati trasformarono l’impotenza dei singoli lavoratori in un potere contrattuale collettivo e si batterono perché le regolamentazioni restrittive si tramutassero in diritti dei lavoratori e in una limitazione della libertà di manovra dei datori di lavoro. ! Ora la situazione è cambiata, e l’ingrediente cruciale del cambiamento è la nuova mentalità «a breve termine» che si è sostituita a quella «a lungo termine». Secondo le ultime stime, un giovane americano con un libello di istruzione modero prevede di cambiare lavoro almeno undici volte durante la propria vita lavorativa. Lo slogan del momento è «flessibilità», che applicato al mercato del lavoro significa la fine del lavoro «come lo conosciamo», significa contratti a breve termine, contratti rinnovabili o lavori senza contratto, posizioni prive di sicurezza intrinseca ma regolate dalla clausola del «fino a nuovo avviso». Riportando i risultati di un’ampia ricerca olandese sul cambiamento del significato del lavoro, Geert van der Laan osserva che il lavoro è divenuto uno sport di «prima classe» o da «alte prestazioni». Come sappiamo bene, lo sport tende ormai a divenire sempre meno un passatempo popolare e sempre più un’attività elitaria altamente competitiva attorno alla quale ruotano grosse somme di denaro. «Quella piccola parte della popolazione che lavora, lavora sodo e con efficienza, mentre gli altri rimangono in disparte perché incapaci di reggere il ritmo forsennato della produzione». La vita lavorativa è satura di incertezze. ! L’incertezza odierna è un potente fattore di individualizzazione; essa divide anziché unire e, poiché non è possibile dire chi può risvegliarsi in questo o quello scompartimento, l’idea di «interessi comuni» diventa sempre più nebulosa e in definitiva incomprensibile. ! Il luogo di lavoro assomiglia più a un campeggio, in cui si piantano le tende per poche notti e che si può abbandonare in ogni momento qualora le comodità promesse risultino assenti o insoddisfacenti, che a un domicilio comune in cui ci si dovrebbe prendere il disturbo di elaborare norme d’interazione accettabili. ! La versione odierna della modernità, «liquefatta», «fluida», dispersa, sparpagliata e deregolamentata, non fa presagire un divorzio e una rottura definitiva dalle comunicazioni, quanto piuttosto un disimpegno tra capitale e lavoro. Ovvero si ha un passaggio dal matrimonio alla convivenza. Se unirsi e stare insieme erano frutto di una dipendenza reciproca, il disimpegno è invece unilaterale, con uno dei partner del rapporto che ha acquistato un’autonomia mai realmente prefigurata. Il capitale si è liberato della dipendenza dal lavoro attraverso una nuova libertà di movimento del tutto sconosciuta in passato; la sua risoluzione e la sua crescita sono ormai sostanzialmente indipendenti dalla durata di ogni particolare impegno locale con la forza lavoro. ! Il capitale tuttavia è oggi extraterritoriale, leggero, libero e sradicato, e il livello di mobilità spaziale da esso conseguito è già sufficiente a permettergli di estorcere con il ricatto, alle agenzie politiche territoriali, l’acquiescenza alle sue richieste. Il capitale viaggia leggero con null’altro che il bagaglio a mano: una ventiquattrore, un computer portatile e un telefono cellulare. Le borse azionarie e i consigli di amministrazione di tutto il mondo

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sono solleciti a premiare tutti i passi compiuti «nella giusta direzione» del disimpegno, come le «cure dimagranti», i ridimensionamenti, gli scorpori, mentre con la stessa prontezza puniscono ogni notizia di crescita del numero dei dipendenti e l’avvio di costosi e «onerosi» progetti a lungo termine. La velocità di movimento è divenuta oggi un fattore importante e forte preminente nella stratificazione sociale e nella gerarchia del potere. ! Sempre più spesso la fonte principale del profitto tende a essere costituita dalle idee più che dagli oggetti materiali. Un’idea viene prodotta solo una volta, e da quel momento continua a procurare ricchezza a seconda del numero di persone coinvolte nei ruoli di compratori/clienti/consumatori e non del numero di persone impiegate per produrre il prototipo. Quando si parla della redditività delle idee, l’oggetto della competizione sono i consumatori e non i produttori. Solo in questa sfera si può parlare propriamente di «reciproca dipendenza»: il capitale dipende dai consumatori per la sua competitività, efficacia e redditività, e i suoi percorsi sono guidati dalla presenza o dall’assenza dei consumatori o dalla possibilità di «produrre consumatori», ovvero di generare e stimolare la domanda delle idee in vendita. ! Robert Reich ha suggerito che le persone attualmente coinvolte nell’attività economica possono essere suddivise approssimativamente in quattro ampie categorie. ! I. La prima di queste categorie è composta dagli «analisti simbolici», persone che inventano le idee e i modi per renderle desiderabili e vendibili. ! II. Alla seconda appartengono coloro che si occupano della riproduzione della forma lavoro. ! III. La terza categoria comprende gli addetti ai «servizi interpersonali», che hanno per necessità contatti diretti con i beneficiari del servizio. ! IV. Esiste infine la quarta categoria alla quale appartengono le persone che negli ultimi centocinquant’anni hanno formato il «substrato sociale» del movimento dei lavoratori. Nella terminologia di Reich questi ultimi sono detti «lavoratori con mansioni ripetitive», legati alla catena di montaggio o, negli impianti più aggiornati come le casse dei supermercati. Tra i requisiti del loro lavoro non figurano particolari capacità né l’arte dell’interazione sociale con i clienti, ed essi sono dunque i più facili da rimpiazzare e dispongono, al più di una forza contrattuale residua e trascurabile. Sanno di essere sostituibili e conseguentemente non vedono ragione di sviluppare attaccamento o dedizione al lavoro né di intrecciare rapporti durevoli con i colleghi; tendono a diffidare di ogni lealtà verso il posto di lavoro e a non iscrivere i loro progetti di vita nel suo futuro programmato. ! Nel suo studio retrospettivo della nostra società moderna capitalistica, basata sullo «sviluppo compulsivo e ossessivo», Alla Peyrefitte giunge alla conclusione che la caratteristica più rilevante, e anzi costitutiva, di tale società era la fiducia: fiducia in se stessi, negli altri e nelle istituzioni. Tutte e tre le componenti di questa fiducia erano indispensabili, nel senso che si condizionavano l’un l’altra: togliendone una, le altre due implodevano e collassavano. ! Non c’è défiance senza confiance, non c’è conflitto senza fiducia. Se i dipendenti lottavano per i loro diritti era perché avevano fiducia nel «potere di contenimento» esercitato dal contesto in cui, come speravano e desideravano, i loro diritti si sarebbero collocati; si fidavano dell’impresa in quanto luogo sicuro in cui depositare i propri diritti affinché venissero adeguatamente preservati. Oggi non è più così, o quanto meno la situazione sta rapidamente mutando. Nessun essere razionale si aspetta di trascorrere l’intera vita lavorativa, o una sua gran parte, alle dipendenze di una sola azienda. ! Questi soggetti si trovano già in partenza in una condizione di inferiorità rispetto al capitale, che si muove liberamente da un posto all’altro. Il capitale è sempre più globale, mentre essi rimangono locali, e per questa ragione esposti, disarmati, ai capricci imperscrutabili di «investitori» e «azionisti» misteriosi e alle ancor più sconcertanti «forze di mercato», «ragioni di scambio» e «leggi della concorrenza». ! Il passaggio da una modernità «pesante» o «solida» a una «leggera» o «liquefatta» costituisce la cornice in cui è stata scritta la storia del movimento dei lavoratori e contribuisce in buona parte a dare un senso alle sue note tortuosità. ! Capitolo 2 - Ordini locali, caos globale Le cose sono ordinate se si comportano come ci si aspetterebbe, ossia se si può prescindere da esse nella pianificazione delle proprie azioni. La sicurezza che nasce dalla possibilità di predire senza errori o quasi, il risultato delle proprie azioni. Le cose sono ordinate se non ci si deve preoccupare dell’ordine delle cose, e se non si pensa, o non ci si sente obbligati a pensare, all’ordine come problema o addirittura come compito. E nel momento in cui si comincia a pensare all’ordine si scopre che quello che manca è una. Chiara e leggibili distribuzione delle probabilità. Ci sarebbe ordine se non tutto potesse accadere, o quanto meno se non tutto avesse la

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medesima probabilità di accadere; se alcuni avvenimenti fossero praticamente inevitabili, altri abbastanza probabili, altri ancora affatto improbabili e gli altri del tutto fuori questione. Laddove le cose non stanno così c’è invece il cinquanta per cento di possibilità che qualunque cosa possa accadere, si dice che c’è il caos. Se la possibilità di prevedere, e dunque controllare, il risultato delle tue azioni è il fascino primario dell’ordine, la mancanza apparente di nesso tra quello che fai e quello che ti capita, tra il «fare» e il «subire», è ciò che rende il caos odioso, ripugnante e spaventoso. ! Qualsiasi tentativo di «dare ordine alle cose» si riduce, alla fin fine, a una manipolazione delle probabilità degli eventi: è questo che ogni cultura fa, o almeno si suppone faccia. ! La manipolazione delle probabilità, e di conseguenza l’evocazione dell’ordine dal caos, è il miracolo che la cultura compie ogni giorno. Più esattamente: chiamiamo «cultura» il compimento ruotinario di questo miracolo. Parliamo di «crisi culturale» se la routine viene contestata e violata tanto spesso da non apparire più affidabile, per non dire scontata. ! La cultura manipola le probabilità degli eventi attraverso l’attività della differenziazione. Cultura è l’attività di distinguere, classificare, segregare, tracciare confini: assegnare, dunque, le persone a categorie unite interamente dalla somiglianza e separate esternamente dalla differenza, e assegnare gamme diverse di comportamento agli esseri umani collocati nelle diverse categorie. ! Gli sforzi culturali di differenziazione e segregazione poco avrebbero giovato al senso di sicurezza. ! Poiché è improbabile che i tentativi di racchiudere la complessità del mondo in suddivisioni nette ed esaustive abbiamo mai successo, e difficile che l’ambivalenza possa essere sconfitta e smetta di perseguitare chi è in cerca di sicurezza. Più intenso è il desiderio di ordine e più frenetici sono gli sforzi per instaurarlo, affiori sono i residui di ambiguità e più profonda l’ansia da essersi generata. ! A causa degli sgradevoli ma intimi legami con lo stato d’incertezza, l’«impurità» delle classificazioni, la vaghezza delle linee di demarcazione e la porosità dei confini sono fonti incessanti di timore e di aggressione, inseparabili dagli sforzi di costruzione e difesa dell’ordine. La strategia della lotta per il potere consiste nel fare di se stessi l’incognita dei calcoli altrui, impedendo nello stesso tempo agli altri di assumere un ruolo analogo nei propri calcoli. Ciò significa che il dominio si ottiene da un lato abolendo le regole che limitano la propria libertà di scelta e dall’altro imponendo il massimo possibile di regole restrittive alla condotta altrui. ! L’«ordine» emerge come un concetto agonistico ed «essenzialmente contestato». I concetti di ordine variano radicalmente nello stesso contesto sociale; ciò che è ordine per i potenti assomiglia stranamente al caos per i loro sudditi. ! Il concetto di «globalizzazione» è stato coniato per sostituire il precedente concetto di «universalizzazione» nel momento in cui è divenuto chiaro che l’affermarsi di collegamenti e reti globali non aveva alcunché della natura intenzionale e controllata implicita nel vecchio concetto. Il termine «globalizzazione» definisce la natura disordinata dei processi che hanno luogo al di sopra del territorio «coordinato primariamente» dai «massimi livelli» del potere istituzionalizzato, vale a dire dagli stati sovrani. ! Il «nuovo disordine mondiale» detto «globalizzazione» ha tuttavia un effetto autenticamente rivoluzionario: la svalutazione dell’ordine in quanto tale. Nel mondo che si va globalizzando l’ordine diventa l’indice dell’impotenza e della subordinazione. La nuova struttura del potere globale è governata dal contrasto tra mobilità e sedentarietà, contingenza e routine, rarità e densità di condizionamenti. La globalizzazione può essere definita in molti modi, ma il concetto di «vendetta dei nomadi» è altrettanto buono se non migliore di altri. ! La strategia della lotta di potere presumeva una relazione di reciproco impegno tra governanti e governati. L’imposizione di norme e l’esecuzione di regolazioni normative legavano i controllori a controllati e li rendevano inseparabili. Entrambi erano, per così dire, legati alla terra. La nuova gerarchia del potere è contrassegnata al vertice dalla capacita di muoversi rapidamente e con breve preavviso, e il basso dall’incapacità di ostacolare quelle mosse, e tanto meno di arrestarle, abbinata all’immobilità della propria posizione. ! Per garantire il dominio non è più necessaria la «regolazione normativa». La regolazione normativa era una tecnica farraginosa, caotica e costosa, primitiva ed economicamente irrazionale, disastrosa secondo gli standard contemporanei. Il suo superamento è considerato un’emancipazione, e per l’élite globale esprime l’imperio della ragione ed è sintomo di progresso.! Grazie alle nuove decine di disimpegno, elusione, evasione e fuga oggi a disposizione dell’élite, per tenere a bada, depotenziare e conseg...


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