Secondo Trattato sul Governo - John Locke PDF

Title Secondo Trattato sul Governo - John Locke
Author Morovsky Gaming
Course Storia delle dottrine politiche
Institution Università di Bologna
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Summary

Riassunto integrale del Secondo Trattato sul Governo di John Locke. Pur essendo molto sintetico, questo riassunto comprende tutte le riflessioni ed informazioni necessaria per poter conoscere il testo in maniera completa ed eccellente...


Description

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Secondo Trattato sul Governo John Locke Riassunto da Konstantin P. Konstantinov

Cap. I: Del Governo Civile. Riprendendo il Primo Trattato, Adamo non ebbe autorità e dominio sul mondo, ma anche se ne avesse avuti non gli avrebbe trasmessi agli eredi. Quest’ultimi non l’avrebbero trasmesso, perché non vi è un plausibile e ben definito diritto di successione. Anche se vi fosse stato, la conoscenza della linea dei primogeniti di Adamo oggi non è disponibile. Presi in considerazione questi elementi, gli attuali Governi del mondo non possono derivare la propria autorità da antenati biblici. Coloro che non vogliono vedere i sistemi di potere odierni come prodotti della realtà materiale e storica, devono scoprire altre fonti del potere politico e modi di configurarne il possesso e l’estensione. Il potere politico è di natura diversa rispetto a quello personale. Questo è il far leggi (con penalità di morte o inferiore) per il regolamento e la conservazione della proprietà e di impiegare la forza della comunità nella loro esecuzione, nella resistenza a potenze straniere e nel perseguimento del pubblico bene. Il pubblico bene è la promozione e conservazione dei beni civili: vita, libertà, integrità e benessere del corpo, possesso dei beni esteriori (terre, denaro, suppellettili, etc.). Il magistrato (colui che adopera le leggi) deve assicurare l’osservanza universalmente ingiunta di queste delle leggi che assicurano il possesso legittimo di tutte le cose pertinenti a questa vita. I trasgressori vanno spogliati,

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integralmente o parzialmente, del possesso di tali beni. Siccome non vi è nessuno pronto a rinunciare volontariamente ai suoi beni, il magistrato deve adoperare la forza, ossia la potenza riunita di tutti i suoi sudditi. Cap. 2: Dello Stato di Natura. Gli uomini si trovano naturalmente in uno stato di perfetta liberta, ossia la possibilità di disporre pienamente dei propri possessi e della propria persona. Questo è uno stato di eguaglianza, poiché ogni potere è reciproco e nessuno ne possiede più di un altro: sono tutti della stessa natura, dello stesso grado, e in possesso delle medesime facoltà. In Politica Ecclesiastica, Richard Hooker fa di tale fondamentale uguaglianza la base del mutuo amore fra essere umani sul quale si basano i doveri che abbiamo gli uni verso gli altri. Quest’ultimi generano i grandi principi della giustizia e della carità. Sebbene questo sia uno stato di libertà, non è uno stato di licenza. Gli uomini non hanno la possibilità di distruggere se stessi o gli altri, né i rispettivi possessi, poiché tutti gli uomini sono proprietà di colui di cui sono fattura (Dio) ed esistono fin tanto che lo desideri Egli. Diversamente dalle creature inferiori, gli uomini non possono essere subordinati ad altri uomini, poiché tutti condividono la stessa natura, dunque le stesse facoltà. Gli uomini sono, inoltre, tenuti a conservarsi, ma anche a promuovere la conservazione altrui. Poiché in tale stato di perfetta uguaglianza ciò che può fare uno lo deve poter fare ciascuno, la punizione delle trasgressioni è nelle mani di ciascuno: come ogni legge, sarebbe inutile in assenza di un esecutore. La pena, configurata secondo ragione e conoscenza, è pari alla

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trasgressione. Il reo trasgredendo mostra di vivere seconde leggi altre dalla ragione e di essere pericoloso, in quanto infrange il vincolo che scuda gli uomini dall’incombente minaccia di offesa e violenza. Questo è un danno all’intera umanità e, poiché ciascuno ha il diritto di reprimere o distruggere ciò che gli è nocivo, ciascuno può recare al trasgressore un male tale da indurlo a pentirsi e, quindi, distoglierlo, assieme agli altri potenziali rei, dal compiere il medesimo torto. Questa dottrina sembra strana, ma riflettendo sui rapporti fra Stati, si comprende che un magistrato non è investito istituzionalmente del potere di punire lo straniero, poiché costui non è vincolato alla sua autorità. Il torto dello straniero va punito in base alla facoltà che ciascun uomo ha di punire ciascun reo secondo la legge di natura. Il delitto, in sé deviante rispetto alla retta norma della ragione, è spesso accompagnato da un danno recato ad un’altra persona. Dunque, al diritto di punire il reo è connesso il diritto di esigere riparazione. Colui che ha sofferto il danno ha il diritto di esigere soddisfazione in proprio nome, e lui solo può condonarla. La persona offesa ha il diritto di impossessarsi dei beni o servizi del reo, mentre ognuno ha il diritto di punirlo in base all’offesa che ha recato all’intera umanità. Può essere distrutto come quelle bestie feroci con le quali l’uomo non può avere società o garanzia. Ciò è esemplificato dal desiderio di punizione che risiedette nel cuore di Caino. La legge di natura è tanto evidente quanto quella positiva. Anzi, quest’ultima spesso cela interessi particolari. Le leggi civili sono giuste quando vicine a quelle naturali.

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A questa dottrina si può obiettare che, per amor amore di sé o dei propri cari, gli offesi eccederebbero nella punizione, ragion per cui Dio ha creato il governo. Ma il governo del monarca agisce arbitrariamente, secondo gli errori e passioni di un solo individuo. È molto meglio lo stato di natura in cui colui che eccede nella punizione diventa reo a sua volta. Lo stato di natura non un luogo e tempo storico. Infatti, nelle misura in cui i rapporti internazionali non sono regolati da leggi positive adoperate da magistrati, ma solo da instabili patti, le relazioni fra i loro protagonisti sono difatti nello stato di natura. Le promesse o i patti conclusi fra uomini sono legami orizzontali, capaci di costruire comunità politiche, ma non compromettono i legami verticali delle leggi naturali. Con riferimento a Hooker, le leggi di natura obbligano gli uomini in quanto tali, anche al di fuori della società civile. La società politica è generata dall’incapacità individuale di procurarsi tutti i beni necessari per vivere comodamente. Cap. III. Dello Stato di Guerra. Lo Stato di guerra è dato da ostilità e distruzione. Colui che annuncia intenti ai danni di un altro si pone in uno stato di guerra con quest’ultimo. Ha, quindi, esposto la propria vita al potere dell’altro. Distruggere l’aggressore è lecito in virtù della legge naturale di autoconservazione, ma anche in virtù del fatto che costui agisce contro la legge di natura, dunque contro l’umanità nel suo insieme. Tentar di porre un altro sotto il proprio potere deve intendersi come una dichiarazione di aggressione, poiché il tiranno può disporre dell’oppresso a suo piacimento, includendo il potere di distruggerlo. Il dominio sugli altri è

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la costrizione con forza a ciò che è contro il diritto naturale alla libertà e risulta nella schiavitù. La libertà naturale è il fondamento di tutto il resto. È lecito per un uomo uccidere un ladro, perché, sebbene questi non rechi danno immediato alla sua vita, poiché l’uso della forza necessario per porlo sotto il proprio potere o sottrargli i beni può risultare, una volta sottratta la sua libertà, nella sottrazione di ogni altra cosa. Il ladro, così, si pone in uno stato di guerra. La differenza fra lo stato di natura e lo stato di guerra è evidente. Il primo consiste nel vivere insieme senza un superiore comune terreno. Ma la mancanza di tale autorità è la ragione per cui all’aggressione corrisponde lo stato di guerra. Similmente, l’aggressione del ladro non permette materialmente l’appello ad un’autorità comune, né la riparazione del danno nel caso questo sia irreparabile, e genera stato di guerra. Nello stato civile è possibile il rimedio per l’offesa recata e la prevenzione per il futuro, essendoci un’autorità comune designata. Nello stato di natura, lo stato di guerra perdura fin quando l’aggressore non cede offrendo riparazioni e garanzie per il futuro. Inoltre, se gli esecutori delle leggi civili mostrino corruzione o parzialità, si ripiomba nello stato di natura e, dunque, nello stato di guerra, nel quale gli oppressi fanno appello all’autorità divina. Quest’ultima distingue fra aggressori e vittime quando le parti stesse sono incapaci. La necessità di evitare questo stato di guerra è il motivo per il quale gli uomini si uniscono nella società civile, abbandonando lo stato di natura, stabilendo autorità

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legittime per la risoluzione dei conflitti e, dunque, per l’impedimento dello stato di guerra. Cap. IV. Della Schiavitù. La libertà naturale è libertà da ogni potere terreno ed autorità legislativa e nel avere per legge solo quella della natura. D’altro canto, la libertà in società è libertà da ogni potere legislativo esterno a quello formato dalla propria comunità politica. La libertà non è faro ciò che si desidera ma è avere norme comuni create da un potere costituito e legittimo. La libertà dal potere assoluto discrezionale è necessaria e l’uomo non può separarsene senza privarsi di ciò che gli garantisce la conservazione. L’uomo non possiede il potere di sopprimere la propria vita e, dunque, non può conferire ad altri il potere di disporvi, non può essere schiavo volontariamente. Resistendo al padrone si può rinunciare alla conservazione solo qualora il dolore della schiavitù sia stimato come maggiore rispetto al valore della vita. La schiavitù è lo stato di guerra perpetuato fra un conquistatore illegittimo e un prigioniero. Qualora stipulato un contratto che renda tale situazione legittima, lo stato di guerra cessa, ma solo in virtù del fatto che il padrone non dispone realmente pienamente della vita di uno schiavo e non può recargli danno ingiusto, come sancito biblicamente. Cap. V. Della Proprietà. Sia in natura sia nei testi biblici è evidente che la proprietà di tutta la natura è in comune. Come si ha, dunque, proprietà di qualcosa? Così come è difficile dimostrare che Dio abbia dato il mondo a tutti indistintamente, è altrettanto difficile sostenere che l’abbia dato a monarchi eredi di Adamo.

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Si può avere proprietà di cose, anche senza un contratto. Dio ha dato agli uomini la ragione e la terra per garantirsi l’esistenza e il conforto. Avendo proprietà di se, l’uomo ha proprietà del proprio corpo. Egli congiunge il proprio corpo, per mezzo del lavoro, alle cose spontaneamente generate dalla natura, sottraendole allo stato naturale e rendendole proprie nella misure in cui sono depositarie del suo operato. Tale appropriazione è lecita solo qualora rimangano, comunque, cose sufficienti ed altrettanto buone. Persino le legislazioni contemporanee, nella loro immensa complessità, confermano questa tesi, come si vede nel caso della pesca o della caccia. I limiti di appropriazione, stabiliti dalla ragione, sono quelli dell’uso e della necessità. Se rispettati, vi è sufficiente offerta naturale per tutti, poiché le scorte sono alte e i consumatori pochi. Nella medesima maniera si entra in proprietà della terra stessa. L’insufficienza della condizione umana, così come data da Dio, esige che l’uomo lavori, coltivando la terra a beneficio della vita e aggiungendovi, nel processo, il proprio lavoro. Come nel caso dei frutti della natura, la terra è ampia e sufficiente per tutti, così anche coloro che ne coltivano tanta non recano offesa a quelli che ne lavorano poca. Nessuno ha così ne motivo ne interesse nell’appropriarsi alla proprietà altrui. La notevole crescita demografica, verificatasi nell’arco di tempo dalla creazione di Adamo ad oggi, non minerebbe in ogni caso la possibilità di usufruire della natura in tale maniera, nella misura in cui le capacità umane di lavoro e consumo sono scarse.

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Persino odiernamente, nell’età dello scambio per mezzo di denaro, qualora non fosse stato dominante il vizio di possedere più di quel che si necessita e qualora il possesso venisse posto nelle mani di coloro che lavorano la natura, una vita basata sulla proprietà sul prodotto e i mezzi di produzione sarebbe perfettamente possibile. Storicamente, la coltivazione personale primordiale si trasformò presto in attività di famiglia; le famiglie si incorporarono formando le prime città. Nacque, dunque, la necessità di accordarsi sui limiti dei loro territori, ponendo formalmente fine alla comunanza iniziale. Osservando le differenze fra una frazione di terra selvatica ed una coltivata, si può facilmente costatare che il valore aggiunto dal lavoro costituisce la parte maggiore del valore totale. Infatti, pur avendo enormi ricchezze naturali, le popolazioni native dell’America vivono miseramente, perché non apportano valore-lavoro a tali beni. I beni sfruttabili allo stato naturale (pelli, ghiande, acqua) sono meno costose di quelle prodotte dall’industria umana, perché quest’ultime sono investite di valore-lavoro. L’incremento della popolazione è preferibile all’espansione dei domini; l’incremento e utilizzo giusto delle terre è l’arte del governo: al principe spetta la tutela della libertà e protezione e incoraggiamento del lavoro. Il valore apportato ad un bene non è solo quello del lavoratore, ma di tutto un sistema di lavoro e programmazione retrostanti all’attivata di questi: es. la fatica dell’aratore si somma a quella del domatore di bestiame, del fabbro, del falegname, del costruttore del mulino, del fornaio, etc.; è, inoltre, da considerare anche il

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sistema di commercio, senza il quale alcuni bene non sarebbero pensabili. L’uomo ha, quindi, sempre posseduto all’interno del suo essere l’elemento nucleare della proprietà. Sebbene, per ciò che riguarda le ricchezze e terre naturali, si sia largamente rinunciato alla proprietà originaria comune e la realtà storica abbia complicato notevolmente i sistemi di possesso personale, vi è tutt’ora enorme quantità di terra in comune, nella misura in cui è difatti incolta. Le cose principali utili al mantenimento della vita sono di breve durata e rapido deterioramento (es. cibo). I beni preziosi (es. oro, pietre, etc.) sono cose che acquisiscono valore per mezzo di accordi fra umani e non in virtù delle loro proprietà. Considerata, quindi, la natura dei primi beni, impossessarsi di più di ciò di cui si ha bisogno è inutile e nocivo nei confronti degli altri, anche se scambiare le proprie eccedenze per beni personalmente utili è lecito. Accumulare cose che non vanno in rovina è ragionevole, poiché non è violato il principio del consumo prima del degrado. Si giunge così alla moneta: qualcosa di duraturo che non deteriora nel tempo e può essere ragionevolmente usato per acquisire beni, utili al mantenimento o conforto della vita, ma non duraturi. Storicamente, gradi differenti d’industria conferivano agli uomini possessi in quantità diverse; la moneta permise a costoro aventi di più ad estendergli.

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Lì dove non vi è qualcosa di contemporaneamente durevole e raro, così da essere adatto a divenire materiale di scambio, non nasce la tendenza dell’accumulo, come ad esempio in America. Non appena vi fu la moneta, l’uomo iniziò ad estendere i propri possessi. Il tacito accordo che conferisce alla moneta la capacità di essere scambiata per bene abilita il possessore a scambiare il surplus di ciò che acquisisce per mezzo del lavoro ed accumulare moneta, la quale non si rovina e non degrada col tempo.

Cap. VI. Del Potere Paterno. La potestà sulla prole è chiaramente pari fra i sessi, così come chiaro consultando la ragione e la Bibbia. L’uso dei termini “potere paterno” è dato da un desiderio, storicamente dato, di promuovere la potestà maschile sia all’interno del nucleo familiare sia nel sistema politico (la monarchia). Benché gli uomini siano per natura uguali, le realizzazione concreta della capacità umana porta a delle differenze: alcuni sono più abili, più saggi, più virtuosi, etc. L’eguaglianza è, dunque, il disporre della propria libertà naturale, senza essere oggetti alla volontà o all’autorità di un altro. I figli sono inizialmente privi di questa libertà naturale, ma con l’età e la ragione sono liberati. Benché i primi umani non furono mai bambini, la loro prole fu generata nella medesima forma imperfetta che conosciamo odiernamente. Sin dall’inizio i genitori sottostettero all’obbligo di allevare i figlio, pur non

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disponendo di essi nel senso materiale, in quanto, come tutti gli umani, questi sono di fattura divina. La legge è la guida di un agente libero ed intelligente nel suo proprio interesse, avente come ultimo traguardo quello del benessere collettivo e la promozione della libertà. Non disponendo della ragione, i bambini non possono sottostare alla legge della ragione. I genitori (o chi per loro) devono, per investitura divina, coltivare la mente dei bambini e governarne l’attività, ancora afflitta dall’ignoranza fanciullesca, nell’attesa che questi siano in grado di conoscere le leggi nell’ambito delle quali devono esercitare le proprie libertà. Successivamente, il dominio genitoriale cessa e l’individuo sottostà alle leggi positive e alla legge di natura. In casi anomali rispetto al decorso naturale del processo di maturazione, come nel caso dei pazzi o degli idioti, l’individuo non perviene allo stato della libertà naturale, ma continua a sottostare alla volontà genitoriale. Inoltre, il medesimo processo di maturazione è necessario per il monarca fanciullo, il quale è capace di esercitare il proprio potere, solo in un momento coincidente con quello dell’acquisizione della propria libertà personale, della propria ragione. Questi meccanismi sono evidenti all’interno delle società politiche, le quali gli riconoscono anche giuridicamente. Liberare un essere umano prima che questi sia pervenuto allo stadio della ragione è degradarlo ad un livello ancora inferiore. Il potere genitoriale non è discrezionale ed arbitrario, ma è ragionevole ed esercitato nei limiti dell’utilità ai fini dello

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sviluppo psicofisico. Infatti, la cura e l’educazione sono il suo, non la mera generazione (quindi, riguarda anche i figli adottivi): cessata la cura, cessa anche la potestà. Dio ha incorporato nella natura umana sentimenti di tenerezza ed amore nei confronti della prole per moderare le pene educative. Il potere genitoriale non è come quello del magistrato. Non perdura per tutta la vita e non disciplina materie non affini allo sviluppo ed il benessere del bambino. Giunto allo stadio della libertà, per legge di natura e Dio, il figlio ha l’obbligo di rispettare ed assistere i genitori, pur non essendo sotto il loro comando, proporzionatamente alla cure che ha ricevuto durante la crescita. Sebbene l’obbligazione al rispetto sia più forte per i figli adulti, questa è comunque meno potente rispetto alla potestà genitoriale precedente, perché l’ignoranza infantile necessità coercizione per essere guidata. I potere materiale paterno, ciò la capacità di cedere o lasciare i propri averi ad uno dei figli, determina vincoli reali per la prole anche dopo la minorità. La condizione dei figli è, tuttavia, di sottomissione volontaria e prevede l’acquisizione dei beni paterni in cambio. Quest’ultimo meccanismo non corrisponde ad un diritto del padre. Nelle prime età del mondo, essendo le comunità spesso molto piccolo, il potere paterno era spesso coincidente con quello politico, ma questa è una condizione storica non necessaria e, spesso, da attribuire alla volontà dei figli stessi. Queste primordiali forme di governo patriarcale posero le fondamenta dei regni ereditari. Cap. VII. Della Società Politica o Civile. Dio ingegnerò l’uomo tale da non poter, per bisogno di comodità,

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sopravvivenza e piacere, vivere da solo e gli donò i mezzi, quali intelligenza e linguaggio, per poter godere della compagnia altrui. Le prime società erano quelle coniugali, seguite da quelle genitoriali, di servitù e padronanza e familiari. Non è sufficiente unirle per costituire la società politica, come noteremo esaminandone le caratteristiche. Le società coniugali sono generate volontariamente da un contratto che prevede l’usufrutto reciproco dei corpi, al fine della procreazione, ma il quale include anche cure reciproche fra coniugi e prole. Il fine della famiglia non è procreativo, ma di continuazione della specie, cosa che presuppone prendersi cura ed educare i bambini. Anche negli animali tale meccanismo è presente: quando...


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