11. continuo Docking Molecolare PDF

Title 11. continuo Docking Molecolare
Course Modeling di sistemi biologici
Institution Università Politecnica delle Marche
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Pag. 1 a 29 fede21/11/2018

Lezione 11 Continuo Molecular Docking Capire le basi molecolari dell’interazione farmaco-recettore, è il punto di partenza per conoscere la posologia del sito recettoriale, ma anche per comprendere la progettazione di nuovi farmaci. Quindi quello che possiamo fare è sicuramente avere la conoscenza 3D della macromolecola target e anche del ligando: risalire alla struttura tridimensionale del ligando è piuttosto semplice, mentre per avere informazioni su quella della molecola target bisogna fare affidamento o a dati cristallografici o al comparative molecular modeling (homology modeling). Bisogna quindi conosce con chi interagisce il ligando, che gruppi funzionali sono necessari per determinare il legame ecc.: sulla base di questi meccanismi è possibile progettare nuovi ligandi che abbiano una maggiore potenza d’azione.

Come è possibile fare questo? Chiaramente è importante visualizzare la struttura 3D, ma possiamo fare questo anche potenziando gli elementi riconosciuti come base d’interazione, sia aggiungendo delle catene laterali o gruppi funzionali; poi attraverso il docking molecolare posso verificare che ci sia un’effettiva interazione. Questa può essere la base anche per fare un’ipotesi di un plausibile meccanismo d’azione. Questo vale sia per agonisti/antagonisti di farmaci che agiscono come ligandi per i recettori di membrana, sia per quelli che agiscono a livello enzimatico. Facciamo un esempio di un farmaco che agisce a livello enzimatico: prendiamo alcuni enzimi di cui non si conosce bene la modalità con la quale intervengono i vari residui aminoacidici nel catalizzare quella determinata reazione. In questo modo, andando a mimare quello che è il complesso di Michaelis-Menten (enzima-substrato) andiamo a vedere quali residui sonp coinvolti nell’interazione, considerando che ci deve essere un intervento attivo dell’enzima nella reazione stessa (se è nota la reazione di degradazione possiamo andare a caratterizzare il meccanismo d’azione, partendo da quei residui che sono direttamente coinvolti nell’interazione). Se invece il target è il recettore, il farmaco che agisce in relazione con esso o va a mimare l’effetto del ligando naturale (quindi attiva il recettore), oppure al contrario lo inibisce. Come fa ad inibire un recettore di membrana? Bisogna conoscere la sua funzione: un esempio tipico nell’inibizione è quello di fare in modo che il farmaco si vada a legare su domini differenti dello stesso recettore, impedendo quella variazione conformazionale che già era alla base dell’attivazione del recettore. Quando invece il farmaco va ad attivare il recettore di membrana, va a toccare quei punto che vengono toccati anche dal ligando naturale, per favorire la variazione conformazionale. Se conosciamo il modo in cui interagisce il farmaco, possiamo fare un’ipotesi del suo meccanismo d’azione. Nel caso del recettore di membrana, la modalità d’azione potrebbe essere verificata anche attraverso studi di dinamica molecolare. A livello dell’enzima invece, bisogna intervenire e livello quantomeccanico, perché si tratta di una reazione chimica. Focalizziamo di più sul docking molecolare.

Pag. 2 a 29 Questo è un termine generico: il principio del docking lo possiamo applicare a complessi sovramolecolari di qualsiasi tipo (es. proteina-DNA, proteina-RNA, proteina-proteina, DNA-RNA): qualsiasi associazione macromolecolare o di basso peso molecolare, ovvero qualsiasi associazione intermolecolare si può studiare con le basi del docking. Chiaramente ci saranno dei programmi e degli algoritmi messi a punto per considerare il docking tra la piccola molecola e la macromolecola, ed altri che verranno fatti per mimare l’associazione proteina-proteina, ad esempio. In quest’ultimo caso le problematiche sono maggiori rispetto al docking tra un ligando-macromolecola: il ligando che ha un basso PM è più facile da inserire all’interno di una cavità, per via della complementarietà sterica; per le proteine è facile trovare almeno un punto di contatto in cui possono interagire, per cui scegliere l‘esatta stabilizzazione di un complesso sovramolecolare è più complicato, per via dei maggiori gradi di libertà presenti.

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Quando abbiamo soprattutto un’associazione proteina-proteina, il legame H è molto importante. Inoltre, quando abbiamo delle associazioni macromolecolari abbiamo sempre la formazione di legami H sulle superfici di contatto, ovvero si stabilisce sempre una certa specificità: si va a fare una comparazione tra i vari legami a H che si instaurano nell’interfaccia tra le due proteine, per vedere la stabilizzazione di una posa di associazione rispetto ad un’altra (sono necessarie proprio un certo numero di interazioni per stabilizzare questo complesso).

In laboratorio andremo a vedere più da vicino il recettore per gli estrogeni (recettore nucleare): vedremo che quando esso deve essere attivato ha bisogno oltre che del ligando attivatore, anche di quello coattivatore, in quanto grazie ad esso riesce a cambiare la conformazione iniziale per poter avere quella attiva; nel momento in cui prende contatto con il ligando inibitore invece, la conformazione viene cambiata in modo che nella parte sommitale si venga a creare una sorta di chiusura di tutta la struttura, così da impedirne il funzionamento.

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In questa figura vediamo che il recettore è aperto; quando invece è presente l’inibitore, l’elica nella parte più in alto si riavvolge su se stessa, determinando la chiusura di tutto il complesso. Nei recettori nucleari c’è una doppia attivazione: troviamo il substrato naturale e un co-peptide, che si lega in una tasca laterale (idrofobica). Una volta che il co-peptide si lega al suo sito attiva il dominio di interazione con il DNA → Prima è necessario che si leghi il ligando naturale (l’attivatore), poi c’è il co-attivatore che rinforza l’azione del primo. Il primo attivatore fa sì che la tasca di legame sia accessibile, mentre il secondo si lega. Quando c’è un antagonista, l’alfa-elica si chiude proprio sopra la tasca nella quale troviamo il co-peptide, cosicchè questo co-peptide non si può più legare e il recettore non si attiva. Questo è un principio base del funzionamento di tutti i recettori nucleari, non solo di quello appena mostrato: è stato capito sulla base strutturale, ovvero cristallizzando i vari complessi con antagonisti, agonisti e il complesso del ligand binding domain. Sono strutture che vengono cristallizzate solo in parte, perché la cristallografia a raggi X è limitata nell’isolare il campione: un complesso come quello appena visto è costituito da più domini e in genere si arrivano ad avere strutture cristalline di domini diversi, per cui a quel punto tutta la struttura deve essere ricostruita. Oggi ci sono tecniche di crio-microscopia elettronica che permettono di ricostruire tutta la struttura in maniera adeguata. Altri tipi di docking sono quelli che riguardano le β-lattamasi (vedremo questo esempio durante il laboratorio). Un’altra peculiarità che bisogna dire riguarda il fatto che il farmaco che stiamo studiando non sempre deve essere complementare a tutto il sito di binding per essere efficace: potrebbe avere una struttura più piccola dell’intera tasca.

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Questo significa che quando si va a progettare un farmaco, è possibile che esso si vada a legare solo in una parte dell’intera cavità recettoriale. Nel momento in cui c’è il legame tra il ligando e il recettore, quest’ultimo assume una conformazione chiusa e di conseguenza di chiude il sito attivo: nel caso dell’inibizione, questo concetto è importante in quanto non sempre l’inibizione avviene perché viene occupato tutto il sito attivo disponibile al ligando naturale; se infatti abbiamo un inibitore, anche se questo potrebbe essere di piccole dimensioni, la conseguenza che apporta è sempre la stessa, ovvero la chiusura di tutta la cavità.

Detto questo, possiamo fare la classificazione del docking sulla base della tipologia: come considero il

ligando e la proteina? Si tratta di un sistema rigido? Immaginiamo che il nostro ligando ha una certa possibilità conformazionale: io potrei scegliere di fare un docking su una proteina che rimane rigida, senza nessun grado di libertà rotazionale e un ligando congelato in un’associazione farmacoforica. Faccio un’associazione semplice tra i due, e questo processo prende il nome di Rigid Protein Docking . In realtà non funziona proprio così, perché abbiamo detto che il ligando si deve aggiustare all’interno della tasca di legame, non può rimanere in una conformazione totalmente rigida! Quindi per mimare questo user fit potrei variare la conformazione del ligando (es. se ho 10 conformazione del ligando, le provo tutte e 10 nei confronti della mia proteina); oppure, l’analisi conformazionale viene fatta dal programma stesso del docking, che va a generare tutte le possibili conformazioni e le va a provare all’interno della tasca del binding.

Pag. 6 a 29 Anche la proteina che si deve andare a legare al ligando può modificare la sua struttura, senza però stravolgere la conformazione del recettore; al contrario, invece, il ligando può cambiare totalmente la sua forma nel momento in cui si instaura il legame con la proteina. Quindi, problema: considero rigida la proteina, o le conferisco una certa flessibilità? Nei casi specifici è anche utile considerare la flessibilità dei residui presenti nel sito di legame, ma questo significa che bisogna conoscere qual è il sito di binding. Oppure semplicemente faccio il docking con una proteina rigida, senza stravolgere la sua struttura, e il processo di accomodamento lo simulo successivamente con la dinamica molecolare; dopo gli do la sua libertà di accomodarsi. Quindi, questi modelli di docking che vengono descritti nello schema qui sopra sono riferiti a se io vado a considerare sia il ligando che la proteina: conferisco loro flessibilità, o li mantengo rigidi? Nei modelli che affronteremo noi si avrà una parziale flessibilità del ligando e della proteina. Il docking con la proteina rigida va a mantenere la conformazione della proteina durante tutto il processo del docking ed è il modello più utilizzato. Questo è il modello più conveniente da utilizzare inizialmente, poi devo andare oltre. Oppure, all’inizio potrei dare alla mia proteina una flessibilità parziale: significa che viene conferita la flessibilità solo ai residui che si trovano in prossimità del sito di legame. Oppure ancora, gli do la flessibilità totale: questo non è assolutamente conveniente, perché le metodologie del docking sono approssimate e si rischia di ottenere strutture che non hanno alcun senso. I metodi di docking inoltre possono essere:

1. Metodi MANUALI 2. Metodi AUTOMATICI (più usato) Inizialmente, prima che si sviluppassero dei robusti algoritmi di docking automatico, veniva fatto anche il docking manuale: in quest’ultimo caso si presuppone che venga costruita la struttura 3D, sia della proteina che del ligando, e in qualche modo vada a posizionare il mio ligando all’interno della cavità presunta.

Pag. 7 a 29 Immaginiamo una struttura di questo tipo, nella quale la cavità di binding sia all’interno: posso roto-traslare la struttura, ma inizialmente c’erano dei programmi che andavano a costruire all’interno della cavità la proteina. Questo poteva essere fatto disegnano inizialmente delle piccole sfere, le quali venivano poi legate tra di loro, in modo da riprodurre la struttura 3D della proteina che si lega al recettore.

Metodo poco efficace! Successivamente, si decise di creare prima la struttura minima del ligando, la quale poi veniva roto-traslata all’interno del sito di legame.

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Anche se c’era complementarietà di superficie bisogna sempre ruotare nel modo giusto la proteina: non è così semplice roto-traslare il tutto. Questo potrebbe essere fatto quando io voglio studiare proprio come entra la proteina all’interno del mio ligando, per poter migliorare le proprietà farmaco-cinetiche (esempio di docking manuale). Questo concetto presuppone la conoscenza anche dei potenziali che intervengono in questo contesto, perché le interazioni elettrostatiche sono fondamentali! Detto questo, il protocollo per il docking manuale è il seguente: 1. Costruzione e analisi conformazionale del mio ligando, le quali devono essere fatte nella maniera più accurata possibile, per poter così studiare le interazioni da cui partire; 2. Partendo da una struttura 3D della mia molecola, viene simulata la dinamica. La metodologia del docking manuale è ormai superata, infatti anche noi in laboratorio ci approcceremo al docking automatico: il mio ruolo in questo caso è quello di impostare delle condizioni al contorno e di valutare al meglio i risultati, dai quali dovrò alla fine estrapolare delle informazioni. Se la tasca di binding è piccola, il docking è abbastanza lineare: bisognerebbe solo dire se il ligando si orienta a testa in su o a testa in giù. Quando invece la tasca è piuttosto grande, non la conosco per niente, o ci sono più siti di binding, il problema è grande. In queste situazioni mi immagino che il ligando si possa posizionare in diverse regioni, con energie piuttosto simili. Devo quindi predire il ∆G di legame, per discriminare tra una posizione rispetto all’altra. Grazie al ∆G del binding ottengo una funzione che è definita “score”: viene associato un punteggio a ciascuna posizione che la proteina assume in relazione alla tasca recettoriale, alla quale fa riferimento un certo valore di energia. Il problema grosso è avere una valutazione di questo punteggio che sia la più accurata possibile! Il vantaggio del docking automatico è quello di non richiedere la manualità dell’operatore: basta rispondere alla struttura 3D di un ligando e della macromolecola. Lo score che viene predetto cambia a seconda del programma che si sta utilizzando: bisogna però ricordare che maggiore è lo score e maggiore è l’interazione ligando-recettore! Se calcolo lo score con due programmi diversi, otterrò valori diversi che non possono essere paragonati: i valori dei punteggi li possono paragonare solo all’interno dello stesso programma!

Pag. 9 a 29 All’operatore resta il compito, non da poco, di valutare la bontà del docking e delle strutture che sono state generate.

Un programma di docking, per avere delle caratteristiche ideali, deve avere uno score accurato e deve essere molto rapido nel generare le varie conformazioni.

Programmi di Docking Molecolare Questi sono dei programmi maggiormente utilizzati di docking:

Pag. 10 a 29 (Tra parentesi viene riportato il nome di chi fornisce tale programma). Autodock (gratuito) è quello che useremo

noi durante il laboratorio.

In quest’altra tabella vediamo sempre i programmi per fare docking, ma in questo caso viene riportata anche la modalità di calcolo e la funzione di score. La flessibilità del ligando è considerata in maniera diversa nei vari programmi: per flessibilità del ligando intendiamo analisi conformazionale. La funzione di score viene calcolata mediante un campo di forza (es. AMBER). L’ Autodock utilizza un algoritmo stocastico, per mimare le conformazioni del ligando (stocastico in genere vuol dire che utilizza un algoritmo tipo quello Monte Carlo; in questo caso però viene usato un algoritmo generico e non Monte Carlo, che è un modo diverso per generare popolazioni iniziali di conformazioni. Ad ogni modo però si tratta di algoritmi statistici, che mi permettono di generare popolazioni di conformazioni).

Cos’è che rende buono un software rispetto ad un altro? Non la grafica di certo, ma il modo in cui tratta la funzione di score e come varia la flessibilità del ligando. Più accurati sono questi due processi e più accurato sarà il processo di doscking automatico. La flessibilità del ligando viene considerata durante il processo stesso del docking. Immaginiamo di avere un ligando: questo verrà prima provato sulla superficie che noi abbiamo stabilito come limite e poi verrà variata la sua conformazione e riprovata sulla superficie della proteina. Dovremmo fare una distinzione tra il docking “alla cieca” e quello mirato: quest’ultimo è più semplice, ma presuppone che l’operatore sappia esattamente dove si leghi. Questo va bene quando ho a che fare con un cristallo, con un inibitore e devo posizionarlo proprio lì, quindi vado a circoscrivere la zona nella quale dovrò fare il docking; se invece faccio un docking “alla cieca” estendo il problema, perché ho la variabilità del ligando, ma ho anche tutta la superficie della proteina che posso considerare, non solo una piccola parte.

Pag. 11 a 29 La flessibilità della proteina non è poi così importante, perché viene considerata mediante simulazioni successive di dinamica molecolare, che complementano sempre il docking molecolare.

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Grazie all’utilizzo dell’algoritmo Monte Carlo vengono generate delle variazioni casuali degli angoli torsionali; su questa base si va a calcolare l’energia che minimizza la struttura e mantiene solo quelle strutture che hanno un’energia confrontabile con quella minimizzata. Va a confrontare la differenza di energia tra due conformazioni e se questo valore generato dal computer è inferiore o superiore al valore che abbiamo ottenuto, va a mantenere la conformazione o a scartarla. La funzione di score è la parte più delicata ed è quella che deve tenere conto di vari fattori: quella più accurata è quella che considera il campo di forza AMBER. Generalmente nelle funzioni di score sono comprese: -

una parte che tiene conto della complementarietà sterica tra ligando e recettore (CS); un altro componente dà un contributo idrofobico (Ci), cioè va a considerare non solo le interazioni di Van der Waals, ma considera la complementarietà dei potenziali; termine di desolvatazione (EDES), cioè un’entalpia che tiene conto della desolvatazione del solvente; ENB termine che considera l’ energia di non-legame.

 DOCK Il primo programma di docking che è stato sviluppato è stato Dock. Inizialmente manteneva sia la struttura del ligando che quella del recettore rigide, e andava a valutare semplicemente la complementarietà sterica. Per andare a descrivere il ligando e il recettore andiamo a prendere delle sfere: venivano centrate delle sfere sia sulla superficie della proteina che sul nostro ligando, e veniva conservata la complementarietà tra i due. In questo modo veniva fatta una sorta di mappatura sia del sito di legame, che del ligando stesso

Pag. 13 a 29 (come possiamo vedere dalla figura). Questo programma generava dei complessi, che poi avevano bisogno di una successiva minimizzazione.

Dopo aver trovato le sfere che meglio descrivevano le due strutture, si calcolava il loro raggio minimo e massimo e venivano considerati tutti i ligandi che potevano essere inseriti all’interno di queste sfere. Nel caso dei recettori, le sfere più piccole vengono mantenute e viene considerata una sfera per ciascun atomo del recettore. Le sfere devono essere tangenti alla superficie di Van der Waals Vengono scartate tutte le sfere con r > 5AȦ, mentre vengono considerate le sfere con α > 90°. Queste mappature venivano poi in qualche modo raggruppate in cluster (per cluster intendiamo l’insieme di “cose” simili tra di loro, nel caso del recettore si tratta di siti che hanno le stesse caratteristiche).

Il ligando stesso viene descritto da una serie di sfere, con un certo raggio. Anche in questo caso si prendono solo determinati tipi di sfere, tangenti alla superficie di Van der Waals. Viene considerata la combinazione dei cluster che vanno a mappare i siti sulla superficie del recettore con le sfere e quelle che andavano a descrivere il ligando, sulla base della sovrapposizione delle sfere. Il risultato ultimo è quello di andare a considerare quei siti che erano compatibili con la struttura del ligando.

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Come primo screening possiamo dire che era piuttosto buono, perché andava ad escludere i siti all’interno dei quali il ligando non poteva mai posizionarsi. Dopo aver visualizzato questi siti,...


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