Anna Foa - Ebrei in Europa PDF

Title Anna Foa - Ebrei in Europa
Author Greta Tedaldi
Course Storia Moderna
Institution Università degli Studi di Parma
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Anna Foa Ebrei in Europa Dalla peste nera all’emancipazione Premessa La diaspora fu sia volontaria, che forzata. Nel Mediterraneo occidentale gli ebrei avevano strutture comunitarie medioevali e da qui si espansero in Europa, così la cultura talmudica si trasferì in Occidente. Dall’Italia e dalla Francia, si traferirono nella Germania renana, culla del mondo ebraico ashkenazita. Intorno al XII-XIII secolo, da parte della Chiesa, si arriverà ad un equilibrio, mentre i poteri laici desiderano l’omogeneizzazione religiosa: massacri e attacchi alle comunità. La storia degli ebrei è una storia di organizzazione e di pensiero, delle comunità, analizzandone le forme della vita quotidiana. Fondamentale è il rapporto tra il mondo ebraico e il Rinascimento nel Tre-Quattrocento, ma anche l’espulsione dalla Spagna e le conversioni forzate, la creazione del ghetto. Un’età, fino al Seicento, di limitazioni. Dal Seicento si riprende la presenza ebraica e si formano comunità di “ritorno”. Solo in Italia il dominio della Chiesa diventa sempre più soffocante. Il Settecento trasforma la società e quella del mondo ebraico vive crisi e sente volontà di mutamento. Tutto ciò portò all’emancipazione: fine della segregazione sociale e dell’autonomia comunitaria. La fine del XIX secolo vede il suo punto più alto nell’integrazione sociale. La storia interna del mondo ebraico e quella esterna dei suoi rapporti con l’ambiente circostante, la storia delle percezioni cristiane degli ebrei e delle percezioni ebraiche del mondo esterno. La chiusura e l’apertura, l’identità e l’assimilazione, la convivenza rosea e la storia persecutoria. La storia degli ebrei è indispensabile per la storia generale. La società cristiana può essere capita solo nel contesto della presenza della minoranza ebraica, che ha cambiato la storia del mondo cristiano, costringendolo a confrontarsi con la differenza, lo ha aiutato ad elaborare gli strumenti sociali e culturali del confronto. La storia dell’Occidente è stata un intreccio di separazione e vicinanza, di segregazione e contiguità. Oltre la catastrofe A metà del Trecento la peste infuriava e la violenza si scatenò contro gli ebrei. Comunità furono decimate e la presenza ebraica in Europa mutò. La Morte Nera fu un momento di svolta. Nel 1348 gli ebrei erano già stati espulsi dall’Inghilterra, dalla Francia e in Spagna erano sottoposti a violenze per la conversione. In Germania, massacri decimarono la popolazione ebraica. Il fatto cruciale, è che dopo il 1348, fino al Cinquecento, nessuna comunità ebraica crebbe. Presenza, spostamenti, espulsioni Gli ebrei viaggiano, si muovono, la loro storia è di spostamenti. Nel IX secolo avvenne il passaggio al Nord, che diede origine, nelle città renane della Germania alle comunità ashkenazite. Tra la fine del XIII secolo e il XVI gli ebrei furono espulsi da gran parte dell’Europa. Il mondo medioevale aveva tollerato la presenza degli ebrei: in Italia vigeva la legge romana, secondo cui anche gli ebrei erano cittadini dell’impero, ne avevano il diritto. Ma nel IX e il X secolo, si crearono nuove forme giuridiche: privilegi furono concessi agli ebrei in quanto gruppo, avevano un rapporto diretto con l’imperatore, di possesso. La libertà di movimento degli ebrei, infatti, si riduce con l’aumento della pressione finanziaria. In Inghilterra, nel XIII secolo, gli ebrei erano dipendenti del sovrano, assimilati ai servi della gleba e questo crescente isolamento apre la via dell’espulsione del 1290. Le monarchie d’Inghilterra e di Francia erano in via di centralizzazione: crescevano attraverso il consenso del popolo. Questa strategia si attuò attraverso modelli rassicuranti e l’ostilità antiebraica fu uno dei mezzi più efficaci. La prima espulsione fu quella dall’Inghilterra. Tra il 1240 e il 1260 le comunità furono rovinate da imposizioni fiscali, restrizioni al prestito ed espropriazione delle terre.

In Francia gli ebrei non avevano posto. In Germania, con lo scopo di rendere onore alla città, come anche nel sud della Francia, iniziarono attacchi in massa. La Morte Nera Tra il settembre 1347 e il gennaio 1348, la peste fu portata dalle galere genovesi provenienti dall’Oriente. Questa fu accompagnata dai pogrom contro gli ebrei, i cui primi massacri avvennero nell’aprile 1348. A luglio, gli ebrei furono accusati di aver avvelenato i pozzi e le fontane per spargere la peste. Quest’immagine si diffuse, suscitando processi e massacri. Ma Clemente VI emanò una bolla che dichiarava gli ebrei innocenti. Ad ottobre, una seconda bolla, ribadiva l’innocenza degli ebrei. Alla fine del 1348, accompagnando il passaggio della peste, i massacri degli ebrei si estesero alle città tedesche e svizzere. Le comunità ashkenazite furono fondate nel X-XI secolo, quando gli ebrei dall’Italia si stanziarono nella zona renana. Le vicende del 1348 si sommarono ai massacri dei decenni precedenti e portarono alla distruzione della maggior parte delle comunità. La cultura rabbinica del passato era stata distrutta e il 1348 per il mondo ashkenazita vede il punto di non ritorno. La costruzione dello stereotipo antisemita Avvenne nel Trecento. Le fantasie della cristianità attribuivano agli ebrei l’assassinio di bambini cristiani, la dissacrazione dell’ostia, l’avvelenamento dei pozzi e delle sorgenti. L’ebreo è definito in base alla sua natura fisica. Nell’XI secolo, gli ebrei furono visti come deicidi e perciò massacrati. Quelli che ebbero la scelta tra la conversione o la morte, scelsero per lo più il martirio. Nel Trecento, però, non furono più posti davanti alla scelta. Iniziarono ad essere massacrati per restaurare ordine e non in quanto ebrei che rifiutavano la conversione. Vi era il concetto di contaminazione: idea che gli ebrei fossero diversi, inferiori, in grado di contaminare chi li avvicinava. Quest’idea fu definita “antisemitismo”, ovvero l’odio teologico verso gli ebrei da parte del mondo cristiano. Lo stereotipo prende forza nei secoli successivi al XI, alimentandosi delle accuse che veicolavano lo stesso messaggio: l’uccisione di Cristo. La prima definizione del mito della crocefissione rituale venne da parte di un monaco, Thomas di Monmouth. La chiesa manteneva una posizione di rifiuto dell’accusa, le autorità laiche si appropriavano, invece, di questo mito. Così, si sviluppò il mito che l’ebreo fosse nemico della società cristiana, perciò era necessario eliminarlo, o reprimerlo per conservare lo Stato cristiano. Si crea anche lo stereotipo fisico dell’ebreo, simbolismo ad opera della religione cristiana. Quindi, la Chiesa, che garante della presenza ebraica, fornì anche gli strumenti per trasformarla in un’oscura minaccia. La chiesa e gli ebrei Il testimone necessario Nel giugno 1493 gli ebrei furono cacciati dalla Spagna e si accamparono alle porte di Roma, dove il capo della fede cristiana li accolse inspiegabilmente, poiché, dalle sue origini, il cristianesimo ebbe una concezione negativa degli ebrei, che lasciò un’impronta sulla loro vita. Lo stereotipo antigiudaico, nato dal processo di costruzione dell’identità cristiana, si modificò e costruì una teoria a regolare il rapporto dei cristiani con gli ebrei. L’ebreo doveva restare entro la nuova società, come specchio rovesciato dell’identità cristiana. Ma si creò anche una concezione diffidente verso la presenza ebraica, attenta alla contaminazione che poteva portare al mondo cristiano. Nascerà un’immagine dell’ebreo centrata sulla natura diabolica e idolatra della sua religione. Nel XVI si giustificò la presenza degli ebrei con una teoria secondo cui questa dovesse essere inferiore e subordinata al cristiano. Se queste fossero state le condizioni, la Chiesa avrebbe protetto la loro presenza. Non si trattava di odio verso l’ebreo, ma di preoccupazione per il destino del popolo cristiano. Gli ebrei nel diritto canonico

Nel III secolo era concessa la cittadinanza a tutti gli abitanti dell’impero e ciò prevedeva per gli ebrei diritti pari agli altri. Sotto Costantino la conversione al giudaismo diventò reato, ciò confluì nel codice teodosiano del V secolo, che affermava che la religione ebraica non era proibita da nessuna legge, formulazione che scomparirà nel VI secolo con il codice giustinianeo. Nell’Occidente altomedioevale ci si baserà sul codice teodosiano, che garantiva la presenza ebraica e impediva che l’ebraismo fosse interpretato come un’eresia. Nei paesi in cui la legge romana rimase in vigore, l’ebreo restò con limitazione. Gregorio Magno decise che la conversione degli ebrei dovesse avvenire in modo spontaneo. Ma nel 1205, con la bolla “Etsi Iudaeos” di Innocenzo III, fu deciso che solo la “perpetua servitù” poteva consentire la presenza degli ebrei nel mondo cristiano. Il papa, i frati e la Legge ebraica Elemento di equilibrio era la legge, la Sicut Iudaeis cui gli ebrei si appellavano. Un contratto che garantiva la protezione in cambio della sottomissione, potevano appellarsi al papa contro le persecuzioni del potere laico e riconoscergli totale controllo sulla loro fede. Ma una Chiesa ispirata da principi di equilibrio era preferibile a sovrani laici. L’ebraismo era tollerato all’interno della società cristiana. I domenicani e i francescani parteciparono all’attività inquisitoriale fino a comprendervi gli ebrei. A questo punto, teologi cristiani intervennero a decidere dell’ortodossia interna ebraica. L’episodio fu significativo, perché offrì all’Inquisizione lo spunto per intromettersi nelle questioni interne al mondo ebraico. La strada era aperta all’intervento sul Talmud. L’attacco al talmud Nel 1236 a papa Gregorio IX fu indirizzato un memoriale contro il Talmud. L’accusa era quella che contenesse attacchi contro la religione cristiana e introducesse una nuova Legge, orale, in sostituzione della Torah, scritta. Si introduceva l’idea che il Talmud rappresentasse una linea ereticale all’interno dell’ebraismo. Nel 1239, il papa impartiva l’ordine di confiscare i libri ebraici: il Talmud fu condannato e bruciato. L’intervento era orientato verso la censura delle parti considerate blasfeme nei confronti della religione cristiana. L’interpretazione che emerge è che si potesse utilizzare il Talmud per convincere gli ebrei delle verità del cristianesimo. La politica di Roma continuerà ad esitare tra la necessità di distruggerlo e quella di emendarlo. Il secolo XIII rappresenta una cesura nei rapporti tra la chiesa e gli ebrei, saranno decise dal Concilio Laterano IV misure di discriminazione, come quella del segno distintivo, in modo da impedire illeciti contatti. Esso passò a significare inferiorità e infamia. Inoltre, fu vietato avere serve e nutrici cristiane e proibito agli ebrei di avere cariche pubbliche e apparire in pubblico durante la Settimana Santa. Il concilio aprì la strada allo sviluppo del prestito ebraico. La Chiesa e l’usura Nella dottrina ecclesiastica, ogni interesse percepito sul prestito veniva identificato con l’usura. La legge canonica dichiarava usura “tutto ciò che veniva aggiunto al capitale”. Furono proibite, per gli ebrei, le usure gravi o immoderate. Porre tale distinzione voleva dire lasciare spazio all’interpretazione del divieto e riguardava solo il prestito ebraico. La formulazione del decreto fu frutto di uno scontro interno alla Chiesa tra i canonisti più rigidi. Per evitare il prestito ebraico era necessario sancire che l’usura era da condannarsi, perché costituiva peccato, o affermava che gli ebrei, attraverso l’esercizio del prestito, esercitavano supremazia sui loro debitori cristiani. Con il “de iudaeis”, l’usura era vietata dalla legge divina e quindi nemmeno il pontefice poteva consentirla. Questa linea riflette un compromesso sostenuta dalla Chiesa, che consentiva un approccio realistico alla questione dell’usura. Realtà e mito dell’usura Nel XII secolo ebrei e prestatori erano ormai identificati. A partire dal X-XI secolo, tale attività si era imposta in seguito a trasformazioni economiche di vasta portata. Il Talmud opponeva al prestito obiezioni poiché vietava di commerciare con gli idolatri nell’imminenza delle loro feste. L’allontanamento dalla terra fu imposto agli ebrei. Il prestito diventa tra il XII e il XVI secolo la

principale attività degli ebrei. Lo stereotipo dell’ebreo usuraio ha connotati religiosi, infatti, l’usura è interpretata come atto di guerra degli ebrei contro la cristianità, attraverso l’utilizzo del denaro. Continuità e cesure: il Cinquecento Dal XIII al XV secolo la politica della Chiesa mutò: Giovanni XXII decretò l’espulsione degli ebrei da Roma e Avignone e il rogo del Talmud. Contemporaneamente avvenne lo sterminio in Francia di lebbrosi ed ebrei sotto l’accusa di avvelenamento dei pozzi. Giovanni da Capistrano contro gli eretici ed ebrei in Italia, Germania e Polonia: “flagello degli ebrei”. I papi di questi anni alternarono la predicazione alle violenze. Poi, la vicenda di Simonino da Trento: ebrei furono accusati di omicidio rituale, a Roma fu inviato un commissario apostolico che sostenne l’innocenza degli ebrei, ma in Curia ebbe la peggio. La soluzione di Roma fu di non pronunciarsi sulla validità dell’accusa, ma solo sulla procedura giudiziaria. La frattura tra Chiesa ed ebrei avviene nel secolo XVI, nel momento dello stabilimento dei ghetti, che peggiorarono le condizioni degli ebrei e la loro permanenza nella società cristiana. Alla fine del secolo, si stabilì un nuovo equilibrio: al mutamento della Chiesa spinge la Riforma interna, che si impegna ad un rinnovamento radicale. Gli ambienti della Controriforma erano chiusi nei confronti degli ebrei, poiché era necessario vigilare contro ogni forma di eresia e di chiudere la porta ad ogni diversità. La spinta a cambiare le norme che regolavano il patto tra ebrei e cristiani giunse nel 1513: il “Libellus ad Leonem Decem”, scritto che proponeva una politica conversionistica che prevedeva, ove la conversione non si fosse realizzata, l’espulsione degli ebrei dalla società cristiana. La politica delle conversioni La conversione è ambivalente: concreta e realista, attraverso misure e pressioni, e mitica ed escatologica, ad affrettare l’avvento del regno di Dio. Il risultato fu una politica che utilizzava strumenti di varia natura (pressione fiscale, incarcerazioni). Chi aveva l’intenzione di convertirsi al cristianesimo doveva passare settimane nella casa dei catecumeni. La scelta delle autorità fu di molestare il mondo ebraico per creare uno stato d’animo di insicurezza. La partecipazione alla predica forzata fu sentita dagli ebrei come un’umiliazione, e molti furono i tentativi di sfuggirvi, con ogni possibile resistenza. Il bisogno religioso di mantenere la presenza ebraica si fonde con le esigenze dell’ordine sociale: la violenza doveva essere contenuta e le prediche furono uno dei mezzi adottati per controllarla, ribadendo l’umiliazione e l’inferiorità degli ebrei. La politica delle conversioni non intaccò l’identità ebraica dentro il ghetto. Le conversioni restano un fenomeno individuale, e non assumono mai una dimensione collettiva o di gruppo. Questa politica risulta fallimentare in rapporto alla vastità del suo obiettivo, che doveva essere raggiunto senza uso di forza, senza un’espulsone, ma solo con la propaganda e le pressioni ideologiche. Un’espulsione avrebbe comportato l’abbandono del principio che aveva consentito la presenza degli ebrei nella società cristiana. Ma le stesse difficoltà gravavano anche sulla scelta della conversione, nel momento in cui essa diventava globale e generalizzata e si proponeva di porre fine alla presenza ebraica. A metà del Cinquecento, il mondo romano muta la tradizione politica di equilibrio. Il prodotto di questo mutamento fu il ghetto, che chiuse gli ebrei dentro le mura e cancelli, ma l’effetto previsto inizialmente era conversionistico. I confini dell’identità Identità forte La storia degli ebrei è processo di costruzione e di elaborazione, con meccanismi e modalità di funzionamento della società, le sue percezioni del mondo esterno, la sua creatività sociale e culturale, attraverso cui si costruiva l’identità del popolo. La percezione di sé: la separatezza Nella storia ebraica, la spinta interna alla separatezza ha accompagnato quella esterna alla segregazione: l’identità ebraica si mantiene attraverso la diversità. Ci troviamo, perciò, di fronte al

problema della contaminazione: nel caso delle ansie cristiane, la contaminazione viene dalle mani degli ebrei, dalla loro persona. Nel caso ebraico, la contaminazione non deriva dalla persona del cristiano, bensì dal rapporto con un rito considerato idolatrico. Le conseguenze sono identiche: innalzare una barriera tra i due universi e limitare i rapporti. La sacralità delimita uno spazio simbolico, quello della comunità, infatti, in ebraico qadosh (sacro), significa “separato”. È più lo spazio immateriale della comunità che lo spazio sacro della sinagoga. Nel mondo ebraico manca, inoltre, una divisione tra laici e sacerdoti e ciò lo differenzia dall’universo cristiano, oltre alla concezione del tempo e al regime alimentare. Il rabbino, infatti, non è un sacerdote, ma si occupa dell’aspetto religioso, giuridico-normativo e quello legato allo studio e alla trasmissione dell’identità culturale. Il mondo ebraico conosce quindi un’altissima percentuale di alfabetizzazione. La percezione collettiva di sé Nel mondo ebraico, il cristianesimo è considerato idolatria, come il politeismo pagano. Ciò comporta barriere rigide nei confronti del mondo cristiano, poiché era essenziale alla loro sopravvivenza il rapporto con i gentili. Si avvia un processo di reinterpretazione dei testi, per rendere lecito questo rapporto senza intaccare i principi religiosi. Gli ebrei vivevano in esilio, come conseguenza del deicidio, la punizione divina per la teologia cristiana. In realtà, quello con la terra d’Israele è nel mondo ebraico un rapporto costante, anche se lontano. Pur essendo entro la sfera religiosa, assume aspetti concreti, quotidiani. Gli ebrei si muovono, infatti, verso la Palestina, che non hanno mai lasciato del tutto: i vecchi per farsi seppellire e i giovani per formarsi. L’organizzazione comunitaria La società ebraica si è formata dal II al XVIII secolo, definita una società tradizionale. Si articola sull’apparato interpretativo della Torah. Non è mai immobile, adegua lo strumento giuridico all’attualità, trasforma nel mantenimento della tradizione. La comunità implicava un riconoscimento esterno, da parte delle autorità cristiane. L’organizzazione comunitaria prevedeva la presenza di un numero abbastanza consistente di ebrei, tale da richiedere un organismo di direzione della vita comunitaria e la creazione di una sinagoga, di un bagno rituale, di un forno e di un macello. Per una comunità e per la preghiera collettiva, erano necessari almeno dieci ebrei maschi adulti (miniam). Il diritto di voto era riservato a coloro che pagavano le tasse comunitarie. I membri delle organizzazioni erano laici e accanto ad essi vi era una presenza religiosa e legale, il rabbino. Nella seconda metà del Trecento si istituì il rabbino comunitario, le cui funzioni erano tradizionali: insegnare, esprimersi in materia rituale, giudicare nei tribunali e scomunicare. Ma questo ruolo riuscì solo nelle comunità piccole. L’organizzazione intercomunale Le comunità erano organismi autonomi, i cui confini erano ben definiti. Una teoria dell’indipendenza fu formulata nel 1305 dal rabbino catalano Solomon Ibn Adret. Il bando emanato colpiva gli studi di filosofia proibendoli ai minori di venticinque anni, subordinandoli a quelli talmudici. L’esigenza che le ordinanze rabbiniche superassero il confine comunitario era viva e trovò strumento nelle convocazioni extracomunali. Queste assemblee avevano rapporti con forme comunali nell’Europa cristiana. Uno dei massimi livelli di centralizzazione raggiunto dalle comunità è quello di Rab de la Corte, carica attribuita per nomina esterna e in cui il termine Rab indica un rabbino al di sopra delle autonomie comunitarie, l’istanza decisionale massima. La società interna Uno dei problemi preliminari era la loro omogeneità entica e sociale, però, la coesione interna comunitaria aveva la meglio sulle spinte disgregatrici, considerate pericolose poiché potevano spingere a fughe verso l’esterno e quindi al passaggio nella società cristiana. Il contenimento delle tensioni sociali si identifica con il mantenimento e la difesa dell’identit...


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