BOOM Economico DEL 60, RIASSUNTO FATTO MOLTO BENE, PUò SOSTITUIRE L\'USO DEL LIBRO PDF

Title BOOM Economico DEL 60, RIASSUNTO FATTO MOLTO BENE, PUò SOSTITUIRE L\'USO DEL LIBRO
Course Storia dell'economia 
Institution Università degli Studi di Salerno
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BOOM Economico DEL 60, RIASSUNTO FATTO MOLTO BENE, PUò SOSTITUIRE L'USO DEL LIBRO...


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BOOM ECONOMICO DEL ‘60 Il miracolo economico italiano (anche detto boom economico) è un periodo della storia d'Italia, compreso tra gli anni cinquanta e sessanta del XX secolo, appartenente dunque al secondo dopoguerra italiano ovvero ai primi decenni della Prima Repubblica e caratterizzato da una forte crescita economica e sviluppo tecnologico dopo l'iniziale fase di ricostruzione.

Contesto storico La fine del Piano Marshall (1951) coincise in oltre con l'aggravarsi della Guerra di Corea (1950-1953), il cui fabbisogno di metallo ed altre materie lavorate fu un ulteriore stimolo alla crescita dell'industria pesante italiana. Si erano poste così le basi d'una crescita economica spettacolare, il cui culmine si raggiunge nel 1960, destinata a durare sino alla fine degli anni sessanta e a trasformare il Belpaese da Paese sottosviluppato, dall'economia principalmente agricola, ad una potenza economica mondiale. Per esempio, nei tre anni che intercorsero tra il 1959 ed il 1962, i tassi di incremento del reddito raggiunsero valori da primato: il 6,4%, il 5,8%, il 6,8% e il 6,1% per ciascun anno analizzato. Valori tali da ricevere il plauso dello stesso presidente statunitense John F. Kennedy in una celebre cena col presidente Antonio Segni. Questa grande espansione economica fu determinata in primo luogo dallo sfruttamento delle opportunità che venivano dalla favorevole congiuntura internazionale. Più che l'intraprendenza e la lungimirante abilità degli imprenditori italiani [senza fonte], ebbero effetto l'incremento vertiginoso del commercio internazionale e il conseguente scambio di manufatti che lo accompagnò . Anche la fine del tradizionale protezionismo dell'Italia giocò un grande ruolo in quella fase [senza fonte]. In conseguenza di quell'apertura, il sistema produttivo italiano ne risultò rivitalizzato, fu costretto ad ammodernarsi e ricompensò quei settori che erano già in movimento. La disponibilità di nuove fonti di energia e la trasformazione dell'industria dell'acciaio furono gli altri fattori decisivi. La scoperta del metano e degli idrocarburi in Val Padana,[1] la realizzazione di una moderna industria siderurgica sotto l'egida dell'IRI, permise di fornire alla rinata industria italiana acciaio a prezzi sempre più bassi. Il maggiore impulso a questa espansione venne proprio da quei settori che avevano raggiunto un livello di sviluppo tecnologico e una diversificazione produttiva tali da consentir loro di reggere l'ingresso dell'Italia nel Mercato comune. Il settore industriale, nel solo triennio 1957-1960, registrò un incremento medio della produzione del 31,4%. Assai rilevante fu l'aumento produttivo nei settori in cui prevalevano i grandi gruppi: autovetture 89%; meccanica di precisione 83%; fibre tessili artificiali 66,8%. Ma, va osservato che il miracolo economico non avrebbe avuto luogo senza il basso costo del lavoro. Gli alti livelli di disoccupazione negli anni 1950 furono la condizione perché la domanda di lavoro eccedesse abbondantemente l'offerta, con le prevedibili conseguenze in termini di andamento dei salari. Il potere dei sindacati era effettivamente fiacco nel dopoguerra e ciò aprì la strada verso un ulteriore aumento della produttività. A partire dalla fine degli anni 1950, infatti, la situazione occupazionale mutò drasticamente: la crescita divenne notevole soprattutto nei settori dell'industria e del terziario. Il tutto avvenne, però, a scapito del settore agricolo. Anche la politica agricola comunitaria assecondò questa tendenza, prevedendo essa stessa benefici e incentivi destinati prevalentemente ai prodotti agricoli del Nord Europa: tendenza del resto inevitabile, visto il peso specifico ormai raggiunto da aziende quali Olivetti e Fiat dentro e fuori dall'Italia, e la potenza di capitani d'industria come Gianni Agnelli rispetto ai deboli governi della Prima Repubblica.

Il sistema economico dopo la fine della guerra Il sistema economico marciava a pieno regime, il reddito nazionale stava crescendo e la gente era rinfrancata dall'incremento dell'occupazione e dei consumi. Si erano infine dimenticati gli anni bui del secondo dopoguerra, quando il paese era ridotto in brandelli. È pur vero che tanti erano ancora i problemi da affrontare, fra cui la carenza di servizi pubblici, di scuole, di ospedali e di altre infrastrutture civili. Ma in complesso prevaleva un clima di ottimismo. D'altra parte, all'inizio del 1960 l'Italia si era fregiata di un importante riconoscimento in campo finanziario. Dopo che un giornale inglese aveva definito col termine miracolo economico il processo di sviluppo allora in atto, dalla Gran Bretagna era giunto un altro attestato prestigioso per le credenziali e l'immagine dell'Italia. Una giuria internazionale interpellata dal Financial Times aveva infatti attribuito alla lira l'Oscar della moneta più salda fra quelle del mondo occidentale. Un premio che aveva coronato una lunga e affannosa rincorsa, iniziata nell'immediato dopoguerra, per scongiurare la bancarotta e non naufragare nell'inflazione più totale. Di conseguenza, si era infine potuto concretare il cambio fra la lira e il dollaro, fissato a quota 625, e la rivalutazione delle riserve auree della Banca d'Italia era servita a ridurre l'indebitamento del Tesoro. Da qui anche l'euforia diffusasi in Borsa con i listini in forte rialzo. Sino a qualche tempo prima, ben pochi avrebbero immaginato che l'Italia potesse conseguire un successo economico dopo l'altro. È vero che, grazie agli aiuti americani del Piano Marshall, l'opera di ricostruzione post-bellica era avvenuta più rapidamente del previsto, ma l'Italia era rimasta pur sempre un paese prevalentemente agricolo, con una gran massa di braccianti e coloni. Boom economico internazionale del secondo dopoguerra Il boom economico del secondo dopoguerra (in francese chiamato Trente glorieuses) è avvenuto anche in altri paesi industrializzati. Le cause variano a seconda delle analisi degli studiosi. Gli economisti sono concordi almeno sul fatto che una crescita economica del 3-4 per cento annuo sia da considerare del tutto anomala e non duratura nel lungo periodo[2]. Descrizione Cause e fattori dello sviluppo Tra i fattori che hanno concorso allo sviluppo un ruolo importante viene attribuito all'ampia disponibilità di manodopera che aveva evitato al nostro paese quelle strozzature che si erano, invece, verificate altrove dando luogo a forti correnti immigratorie. Come si è visto, essa rappresenta il fattore centrale cui l'economista Kindleberger spiega l'intenso sviluppo di quegli anni. Lo schema seguito dall'economista americano è noto: quando in un sistema economico coesistono settori caratterizzati da differenti livelli di produttività e di salari, possono verificarsi trasferimenti di lavoratori in eccesso dal settore tradizionale, con produttività marginale quasi nulla, verso il settore più dinamico senza far lievitare significativamente i salari unitari e consentendo, invece, un incremento dei profitti che, attraverso l'impulso agli investimenti, alla produzione e, quindi, all'occupazione alimentano una sorta di circolo virtuoso della crescita. Per l'Italia, i settori in questione coincidono, rispettivamente, con l'agricoltura e l'industria. Si spiegherebbe così anche la crisi che si è registrata in Italia nella prima metà degli anni 1960, attribuita proprio all'esaurirsi della forza lavoro in eccesso. Fino agli inizi degli anni 1960 l'incremento medio dei salari era stato, infatti, inferiore a quello della produttività,

anche se la quota di partecipazione dei redditi da lavoro al prodotto nazionale netto era aumentata tra il 1950 e il 1960 dal 50,8% al 55,1%. Negli anni 1960, l'architetto Robert Stern applicò, invece, allo sviluppo economico italiano un modello del tipo «export led» prendendo in considerazione il periodo successivo al 1950 perché riteneva che gli anni precedenti fossero stati eccessivamente influenzati da fattori eccezionali, Piano Marshall compreso. Le conclusioni cui Stern era pervenuto si basavano innanzitutto sul fatto che le esportazioni italiane si fossero sviluppate nel periodo 1950-1962 ad un ritmo nettamente superiore a quello registrato dalle esportazioni mondiali. Le prime si erano, infatti, più che triplicate (+307%) mentre a livello mondiale si era registrato un incremento del 95%; e volendo circoscrivere il raffronto alle sole esportazioni industriali le conclusioni non cambiavano di molto (388% contro 123%). Inoltre, disaggregando i dati relativi all'industria italiana Stern operò una netta distinzione tra settori “dinamici” (metallurgico, macchinari e prodotti metallici, mezzi di trasporto, prodotti chimici e fibre sintetiche, derivati del petrolio e del carbone), contraddistinti da un maggior incremento delle esportazioni (dal 47,6 al 60% sulle esportazioni industriali nel periodo compreso tra il 1951 e il 1963) e della produzione (+302,5%), e settori “tradizionali” (alimentari, bevande, tabacco, tessili, abbigliamento, calzature e cuoio) la cui quota sulle esportazioni industriali era diminuita dal 44,4% al 32,4% mentre lo sviluppo della produzione era stato solo del 97,7%. In sostanza, le esportazioni furono un importante stimolo all'investimento e quindi allo sviluppo di queste industrie nel periodo considerato. Inoltre, siccome si trattava delle industrie che contribuirono in modo significativo all'aumento della quota dei manufatti nel prodotto interno lordo italiano durante il periodo postbellico, sembra che si possa dire in base a tutto ciò che si è affermato, che il ruolo delle esportazioni nello sviluppo dell'economia italiana fu veramente notevole. Tale interpretazione è stata, successivamente, adottata con alcune modifiche anche dall'economista Augusto Graziani. Secondo Graziani, infatti, lo sviluppo degli anni 1950, che aveva tratto impulso dalla crescente liberalizzazione del commercio estero, aveva determinato il consolidamento di un dualismo industriale tra settori orientati verso i mercati esteri, e settori volti, invece, a soddisfare prevalentemente la domanda interna, finendo con l'accentuare le forme di dualismo territoriale, data la maggiore concentrazione dei primi nelle regioni centrosettentrionali. In pratica, “i settori che producono per il mercato di esportazione hanno necessità di presentare prodotti competitivi sui mercati esteri (o, che è lo stesso, divengono settori esportatori solo se realizzano una sufficiente competitività). I settori esportatori devono quindi realizzare i livelli di produttività e di efficienza necessari per affrontare la concorrenza sui mercati esteri. Non così accade per i settori che lavorano per il mercato interno, i quali, al riparo della concorrenza estera, non sono vincolati ad alcun particolare livello di efficienza e di produttività”. Il modello interpretativo di Graziani è stato sottoposto a critiche per l'eccessivo peso che in esso assume la concorrenza estera. Importazioni Nello stesso periodo l'incidenza delle importazioni era cresciuta dal 10,6% al 16,6% sul complesso delle risorse disponibili e dal 9,2% al 16,5% rispetto alla domanda globale. Il loro valore complessivo era aumentato da 926 a 2.951 miliardi di lire, con un incremento annuo regolare, interrotto solo dal breve ciclo coreano e dalla flessione registrata tra il 1957-1958 in corrispondenza alla sfavorevole congiuntura registrata negli Stati Uniti e in altri paesi europei. Le importazioni di generi alimentari erano diminuite dal 20,4% al 16,7%, in relazione al crescente peso delle attività industriali e al generale miglioramento

del tenore di vita della popolazione che erano, anche, alla base dell'incremento, dal 60,3% a 67,3%, delle importazioni di prodotti non agricoli e di materie prime industriali. Inoltre, in relazione ai differenti ritmi di sviluppo che caratterizzavano i vari settori di attività, la composizione merceologica delle materie prime metteva in evidenza il progressivo ridimensionamento di quelle tessili ed un maggior peso di quelle impiegate nei settori meccanico e petrolchimico. Anche per le importazioni si era registrata una maggiore intensità degli scambi con gli altri paesi europei; in particolare, la percentuale di acquisti dagli altri paesi della comunità era cresciuta dal 17% al 27%, mentre erano progressivamente diminuite le importazioni dagli Stati Uniti. Esportazioni Le esportazioni a più alto valore aggiunto erano, poi, cresciute a ritmi ancora più sostenuti: di 4,5 volte quelle meccaniche, quasi quadruplicate le chimiche. Era diminuito, invece, da circa un terzo a un quinto il peso delle esportazioni alimentari. Pertanto, le esportazioni di prodotti meccanici e chimici, che all'inizio del periodo erano pari all'84,5% delle esportazioni tessili e al 28,7% di quelle totali, assumevano a fine periodo valori pari, rispettivamente, al 161% e al 33,3%. ]Nell'ambito del settore meccanico i maggiori incrementi riguardavano i prodotti finiti e, in particolare, le macchine da scrivere e da calcolo. Per il tessile la situazione era andata invece peggiorando nei primi anni 1950 con l'accentuarsi della concorrenza internazionale e la perdita di alcuni mercati tradizionali come quelli dell'America del Sud. Nel corso del 1954 la bilancia commerciale tessile si era volta al passivo ma, in compenso, tale andamento aveva prodotto l'effetto di accelerare il processo di rinnovamento degli impianti e di riorganizzazione del lavoro anche se continuavano a convivere, dando sovente vita ad un «reticolo interno» di rapporti economici, “da una parte, i colossi da 1000 e più dipendenti; dall'altra, le piccole aziende industriali e artigiane, spesso con meno di dieci dipendenti, e una schiera di lavoranti a domicilio”.[senza fonte] Circa la destinazione delle nostre esportazioni, durante il decennio cinquanta si era consolidata l'importanza dei paesi europei verso cui era diretto il 62,3%, mentre il continente americano ne assorbiva il 20%. Al loro sviluppo continuo aveva certamente contribuito il positivo andamento dell'economia internazionale che favorì sia l'esportazione dei beni di consumo sia quella di beni strumentali, sorrette entrambe da una forte competitività e da una crescente specializzazione che avevano concorso a modificare la struttura delle correnti di esportazione, a vantaggio dei prodotti finiti industriali. I triangoli industriali e i grandi gruppi Al nord oltre al triangolo industriale del nord-ovest (Genova, Torino, Milano), nato ai tempi dell'Unità d'Italia con il Regno di Sardegna e caratterizzato per lo più dall'attività siderurgica e metalmeccanica, comincia ad affermarsi anche il triangolo del nord-est (Padova, Vicenza, Treviso) caratterizzato per lo più da attività manifatturiera diffusa anche in Lombardia, Emilia Romagna, Toscana e Marche. In questo periodo della storia d'Italia, fino alla fine degli anni 1980 e all'inizio degli anni 1990, tra i grandi gruppi industriali che hanno trainato il boom economico ci sono stati Fiat, Montedison, Olivetti, Ansaldo e Ilva. Il boom edilizio Il punto debole dell'economia italiana durante il boom[ Il punto più debole dell'economia italiana era quello rappresentato dall'agricoltura. Le aziende caratterizzate da una scarsa produttività o ai margini di un'economia di sussistenza erano quasi il 60% del totale e le piccole imprese familiari avevano continuato ad ampliare la loro presenza senza dar luogo ad adeguate forme associative nella

produzione e nel collegamento con i mercati. In pratica, circa l'80% della superficie coltivata era distribuita fra 2 milioni e mezzo di unità aziendali, di cui 2 milioni con dimensioni inferiori ai 5 ettari. A rendere quanto mai precaria la situazione della nostra agricoltura stava poi il fatto che le terre più fertili riguardavano poco più di un terzo della superficie coltivata ed erano prevalentemente concentrate in Val Padana, mentre quelle povere o mediocri rappresentavano un carico variabile tra il 60% e il 65% della popolazione agricola attiva e si dividevano un reddito equivalente a non più del 33% della popolazione nazionale. Fatto sta che soltanto tra il 1960 e il 1962 si cominciò a affermare, in sede politica, l'esigenza di introdurre dei correttivi, di attuare alcuni provvedimenti che evitassero un peggioramento del divario fra Nord e Sud, assecondassero l'ammodernamento dell'agricoltura per sanare il deficit della bilancia agro-alimentare e ponessero un freno alle speculazioni immobiliari cresciute a dismisura nelle principali aree urbane in seguito alla forte domanda di alloggi da parte degli immigrati; e, non da ultimo, rimuovessero posizioni ormai intollerabili di dominanza oligopolistica nel settore elettrico e in vari servizi di interesse collettivo. Il divario fra Nord e Sud La prevalente concentrazione industriale e delle condizioni di maggiore produttività agricola e terziaria nel Nord del paese continuava, però, ad alimentare situazioni di forte divario territoriale, cariche di implicazioni sociali oltre che economiche. Durante il decennio cinquanta il tasso annuo di crescita dei redditi pro capite era stato pari al 5,3% nell'Italia centrosettentrionale e al 3,2% nel Mezzogiorno. In presenza di un basso livello di industrializzazione, lo sviluppo del settore terziario in Meridione discendeva dall'eccesso di forza lavoro, generalmente senza alcuna qualificazione, che dava luogo ad un moltiplicarsi di attività precarie e scarsamente produttive e determinava una lievitazione delle cifre relative al prodotto delle attività terziarie, cui non corrispondeva però un effettivo stabile sviluppo dei servizi necessari al funzionamento di una società industrialmente avanzata. Anche l'integrazione sui mercati internazionali aveva finito col rafforzare i caratteri del divario territoriale perché gli sforzi volti ad acquisire una maggiore competitività avevano interessato soprattutto le aziende proiettate sui mercati internazionali e concentrate prevalentemente nel Nord del paese. Inoltre, le particolari dinamiche occupazionali avevano comportato che i redditi da lavoro crescessero nell'industria più che negli altri settori di attività e che la loro distribuzione geografica presentasse caratteristiche di forte concentrazione solo in parte giustificate dalla diversa consistenza demografica. Quattro regioni settentrionali (Piemonte, Valle d'Aosta, Liguria e Lombardia), infatti, assorbivano nel 1960 un volume di redditi da lavoro (4.099 miliardi) praticamente doppio rispetto a quello (2.088 miliardi) riferibile a sette regioni centro-meridionali (Abruzzo, Molise, Campania, Puglia, Basilicata, Calabria, Sicilia e Sardegna). Le cose, peraltro, non sarebbero cambiate di molto neanche dieci anni più tardi e il carattere dualistico del nostro sistema economico trova una puntuale conferma, ovviamente anche facendo riferimento a questo fenomeno. Il divario territoriale, che investiva i vari aspetti della vita economica, si manifestava anche in quelli più propriamente demografici. Negli anni 1950 la popolazione italiana aveva registrato un incremento medio annuo del 6 per mille, con un andamento decrescente della natalità e della mortalità che evidenziava un allineamento con i valori già da tempo registrati in altri paesi europei. Tuttavia, i diversi tassi di natalità e di mortalità, dovuti anche alla differente struttura per età della popolazione, configuravano una sorta di «dualismo demografico». Tra il censimento del

1951 e quello del 1961, l'incremento demografico era stato pari a circa 3 milioni, ma esso era stato più sostenuto nelle regioni centro-settentrionali che non in quelle meridionali, nonostante queste ultime avessero registrato un più elevato tasso di natalità ed un più basso tasso di mortalità. Gli effetti dei flussi migratori, interni e verso l'estero, erano stati infatti superiori a quelli del movimento naturale, influenzando in modo decisivo la distribuzione geografica della popolazione, in stretta connessione con l'evoluzione delle vicende economiche. Gli spostamenti interni avevano accentuato il livello di concentrazione demografica nelle città capoluogo di provincia la cui quota di popolazione era aumentata dal 28,2 al 31,9%, e il fenomeno era ancor più evidente al Nord dove la percentuale era aumentata dal 33,2 al 41,6%. In sostanza si era consolidato, tra il 1951 e il 1961, quel processo di intensa urbanizzazione che aveva interessato il paese fin dalla sua unificazion...


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