Dante Inferno Canto XIII PDF

Title Dante Inferno Canto XIII
Author Francesca Aquilone
Course Testi e questioni di letteratura italiana ii
Institution Sapienza - Università di Roma
Pages 21
File Size 305.2 KB
File Type PDF
Total Downloads 26
Total Views 129

Summary

Elaborato scritto necessario ai fini dell'esame su un canto dantesco a scelta libera...


Description

L’ATROCE FORESTA DEI SUICIDI CANTO XIII – INFERNO

Francesca Aquilone Matricola 1501251 AA. 2016/2017

1

«Poi si rivolse e ripassossi ‘l guazzo1». L’ultimo verso del canto XII dell’Inferno ci pone dinanzi l’avvenuto attraversamento del fiume Flegetonte, senza descriverci come Dante sia stato trasportato sulla groppa del centauro Nesso. Quest’ultimo, fedele alla propria natura isnella2, agile e veloce, terminata la missione, interrompe bruscamente il suo discorso, girandosi semplicemente per tornare da dove era venuto, ubbidiente agli ordini del suo capo Chirone. Virgilio è di nuovo l’unica guida di Dante dopo l’ideale passaggio di consegna avvenuta nei versi 113-114 3 del medesimo canto, con l’approdo dei due peregrini nel VII cerchio riservato alla punizione dei violenti. Questo luogo infernale appare diviso in tre gironi, secondo la logica tripartita conforme alla sacralità cristiana: nel primo espiano i propri peccati i violenti contro il prossimo, tiranni ed omicidi, guastatori e predoni; nel secondo girone vi è l’incontro con i violenti contro se stessi, suicidi e scialacquatori; infine i violenti contro Dio, nelle figure di bestemmiatori, sodomiti ed usurai. Il Canto XIII è stato da sempre giudicato come uno dei momenti più complessi e contemporaneamente più toccanti della Commedia. A prova di ciò basti pensare che sulle sue terzine si siano arrovellati i più illustri commentatori dell’opera dantesca, fin dagli albori della fortuna del testo. Boccaccio, ad esempio, ne fa menzione in tutte e tre le edizioni del Trattatello in Laude di Dante (1357-1362)4, e in maniera più ampia nell’Esposizione sopra la Commedia (1373-1374). Dante stesso, sebben indirettamente, fa collimare nel Canto XIII diversi filoni tematici a lui cari, così da Dante Alighieri, Inferno – Canto XII, a cura di Bianca Garavelli, Bompiani, Firenze, 2001, v.139. Dante Alighieri, Inferno – Canto XII, op. cit., v. 76. 3 «Allora mi volsi al poeta, e quei disse:/”Questi ti sia or primo, e io secondo”», Dante Alighieri, Inferno – Canto XII, op. cit., vv. 113-114. 4 Il titolo voluto dall’autore era in latino De origine, vita, studiis et moribus viri clarissimi Dantis Aligerii florentini poetae illustris et de operibus compositis ab eodem. La prima redazione risale al 1351-1352, seguita da una seconda più breve l’anno successivo. Sul testo cfr. Alfredo Schiaffini, Tradizione e poesia nella prosa d’arte italiana dalla latinità medievale a Giovanni Boccaccio, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma, 1969. 1

2

2

focalizzare nei 151 versi che lo compongono, l’acme del viaggio visionario del poeta fiorentino. Il successo di questo segmento infernale è certamente dovuto anche al carattere di attualità: i contemporanei di Dante e le generazioni immediatamente successive erano ben edotte sulla tragica vicenda del funzionario di corte di Federico II, potendo così immedesimarsi nella vicenda, e potendo altresì sviluppare un proprio pensiero critico, diverso o concorde rispetto all’esposizione dantesca. La prima frazione, dal verso 1 al verso 30, narra il brusco cambio di paesaggio subito da Dante e Virgilio, con l’ingresso in un bosco desolato. La cifra è quella della rapidità, chiusa nella prima terzina: «Non era ancor di là Nesso arrivato, quando noi ci mettemmo per un bosco che da neun sentiero era segnato»5. Il passaggio al di là del fiume punitore dei violenti contro il prossimo non è ancora ultimato che già il pellegrino e la sua guida sono completamente immersi in un bosco intricato, non percorso da passi umani, ma, a quanto sembra, nemmeno battuto da anime dall’aspetto umano. L’inquietante velocità con cui avviene questo cambiamento prelude al senso di straniamento, allo stupore angoscioso che la natura della selva provocherà in Dante personaggio. Questa “paura curiosa” data da un paesaggio boscoso la si incontrerà tre volte nella Commedia, in posizioni strategiche e con precisi significati allegorici. Il Canto I tratteggia un Dante pronto a compiere il viaggio salvifico in vece dell’umanità attraversando la selva oscura6 che due versi dopo si connoterà come selvaggia e aspra e forte7, per poi tornare selva fonda8 nell’ammonimento virgiliano del Canto XX. Vi è poi il suddetto Canto XIII, Dante Alighieri, Inferno – Canto XIII, op. cit., vv.1-3. Dante Alighieri, Inferno – Canto I, op. cit., v.2. 7 Dante Alighieri, Inferno – Canto I, op. cit., v.5. 8 Dante Alighieri, Inferno - Canto XX, op. cit., v.129. 5

6

3

dove un intreccio di figure retoriche di suono e una costruzione sintattica curata mirano a mimare l’intrico del luogo: «Non fronda verde, ma di colore fosco; non rami schietti, ma nodosi e ‘nvolti; non pomi v’eran, ma stecchi con tosco»9. La terzina si modella sulla triplice anafora della negazione in posizione iniziale ed il secondo emistichio di ogni verso capeggiato dalla congiunzione avversativa “ma”. Nel primo emistichio inoltre sono invocate le presenze positive di un normale bosco, mentre la seconda metà insinua in noi e, con maggiore suggestione, nella mente e negli occhi del lettore medievale, un locus distorto e contrario all’immaginazione umana, tanto quanto il gesto compiuto dai peccatori qui puniti, il suicidio. Infine approdiamo nel Purgatorio dove, nel Canto ventottesimo, Dante si immerge nella selva antica10 del Paradiso Terrestre. Sembra esserci qui un controcanto di quanto accaduto nell’incipit della Commedia con la selva selvaggia e, contemporaneamente, si evince la ciclicità del viaggio dantesco che proprio nel luogo della foresta entra nella nuova dimensione della salvezza. Tra il primo canto dell’Inferno e il ventottesimo del Purgatorio intercorre inoltre un’analogia nella fonte scelta: in omaggio al duca Virgilio, Dante cita il VI libro dell’Eneide dal verso 268 al 27111 nell’incipit della Commedia, utilizzando poi il verso 179 12 del medesimo libro per l’Eden.

Dante Alighieri, inferno – Canto XIII, op. cit., vv.4-6. Dante Alighieri, Purgatorio – Canto XXVIII, op. cit., v.23. Il termine selva nel medesimo Canto lo si riscontra anche nel verso 108, “e fa sonar la selva perch’è folta”. 11 “Ibant obscuri sola sub nocte per umbram/perque domos Ditis vacuas at inania regna:/quam per incerta lunam sub lucem maligna/est iter in silvis”. “Andavano oscuri nell’ombra della notte solitaria/e per le vuote casa di Dite e i vani regni:/quel il cammino per le selve nell’incerta luna”. Publio Virgilio Marone, Eneide, traduzione di Luca Canali, Mondadori, Milano, 1991 12 “Iter in antiquam silvam, tabula alta ferarum libro“. Publio Virgilio Marone, Eneide, op. cit., v.179.

9

10

4

Il Canto XIII si colloca dunque al centro di questo ideale “percorso boschivo”, e già solo l’uso reiterato della parola selva in questo e nei due canti successivi 13, più la variatio con la scelta di bosco nel già citato verso 2, ben ci fa comprendere l’importanza dell’elemento nella logica dantesca. La foresta dei suicidi, al contrario delle altre due che incorniciano l’apparato della Commedia, è topograficamente individuabile nella Maremma, secondo le indicazioni forniteci dall’autore stesso. La vegetazione che cresceva infatti tra il fiume Cecina, in Toscana, e la località di Corneto Tarquinia, nell’alto Lazio, era decisamente inospitale. Inoltre la menzione di Corneto al verso 9 richiama il canto precedente dove Dante aveva incontrato Rinieri da Corneto, predone che infestava quei luoghi selvaggi, così da unire all’asprezza dell’ambiente la violenza dell’uomo.

Ma che cosa rappresenta allegoricamente la selva? Una buona sintesi è iscritta nella definizione di Mazzoni come «luogo di determinazione esistenziale della creatura umana, luogo in cui essa in statu viae fu posta da Dio ut operaret dopo che per peccato d’origine fu cacciata dal Paradiso 14». Nell’intricato groviglio del tredicesimo canto però questo assioma sembra non bastare ad illuminare tutti i rivoli bui di un significato nascosto e inafferrabile. Dopo la ricognizione topica, Dante coglie il dato uditivo, riprendendo il mitico episodio delle Arpie narrato nel terzo libro dell’Eneide15. Queste creature, secondo la tradizione mitologica, erano ibride, con volto femminile e corpo di ripugnante uccello rapace, figlie di Elettra e Taumante. Il Fiorentino ne rispetta i connotati ma La parola selva appare nel canto XIII ai versi 97, 107, 117 e 124; nel Canto XIV ai versi 10 e 77; nel Canto XV al verso 13. 14 F. Mazzoni, Saggio di un nuovo commento alla Divina Commedia, Firenze, 1967, p.27. 15 “At subitae horrifico lapsu de montibus adsunt/Harpyiae et magnis quatiunt clangoribus alas/ …/tum vox taetrum dira inter odorem”. Publio Virgilio Marone, Eneide, op. cit., 3, vv. 209-258. Nell’episodio si narra come i Troiana furono costretti ad abbandonare la mensa nelle isole Strofadi, a causa dello sterco delle Arpie, le quali predissero inoltre agli esuli che avrebbero dovuto patire una fame ben più grave durante il viaggio. 13

5

non sappiamo se le osserva direttamente: il senso qui attivo è certamente l’udito come dimostra quel lamenti contenuto nel verso 15. L’ultima parola di questo stesso verso è stata oggetto di interrogativi da parte della critica: strani può esser riferito sia a lamenti sia ad alberi, in questo secondo caso aggiungendo un particolare coerente alla descrizione della selva. La successiva coppia di terzine (vv.16-21) delinea un Virgilio nel pieno del suo compito di guida e Dante poeta utilizza questi versi per accrescere l’atmosfera di attesa. Il sermone, la parola di ammonimento del maestro all’allievo non servirà a smussare lo smarrimento di Dante per ciò che sta per accadere, l’aspettativa anzi cresce: «Io sentia d’ogne parte trarre guai e non vedea persona che ‘l facesse; per ch’io tutto smarrito m’arrestai»16. Il comune denominatore degli incontri finora avuti dal Pellegrino nell’Aldilà risiedeva nella conservazione di una parvenza corporea umana. Qui invece all’udire i guai17 non fa seguito alcuna figura e Dante resta indifeso dinanzi ad un’anomalia del sistema infernale. Giungiamo dunque al celebre verso 25, spia dell’arte retorica che il fiorentino metterà in campo per il personaggio di Pier delle Vigne nei versi seguenti. «Cred’io ch’ei credette ch’io credesse»18. La tripla ripetizione del verbo credere costituisce una figura etimologica, adatta a contenuti elevati secondo i canoni retorici medievali: un segnale di eccezionalità di contenuto quindi, nonché un’anticipazione della statura “morale” del prossimo Dante Alighieri, Purgatorio – Canto XIIi, op. cit., vv. 22-24. Trarre guai è un’espressione già utilizzata da Dante nel Canto V al v.48 per esprimere le grida di dolore strappate ai dannati dalle pene che subiscono. 18 Dante Alighieri, Purgatorio – Canto XIII, op. cit. v. 25. 16

17

6

personaggio sul palco della Commedia. Pier della Vigna era egli stesso un retore, un esperto dell’artes dictandi, come diede prova nel suo Epistolario Latino, e questa tensione potrebbe essere letta come un riflesso delle abitudini stilistiche del poeta e segretario di Federico II. Infine, secondo alcuni, la stranezza della costruzione sintattica corrisponde alla vertiginosa sensazione di smarrimento ed angoscia che il pellegrino sta provando. Segue una serie di versi aventi in rima lessemi in cui prevalgono le gutturali sorde (bronchi – tronchi – monchi), suoni onomatopeici che ben riproducono la secchezza dei rami aridi e nodosi di cui è composta la foresta. Anche la metafora usata da Virgilio al verso 30 è coerente con l’impianto del Canto, inscenando una corrispondenza tra i rami spogli degli alberi e i pensieri di Dante, entrambi da troncare con un unico gesto. Leo Spitzer 19 ravvisa nell’accumularsi di fonemi aspri e cupi, nelle espressioni tortuose e contorte, nel ricorso in generale all’artifizio retorico, complesso e non, un tentativo di caratterizzare storicamente e culturalmente la figura di Pier delle Vigne, come sopra detto, ma soprattutto un sublime mezzo artistico, linguisticamente significativo, per esprimere la confusione morale, la mostruosità e lo stravolgimento dell’ordine portato dal suicidio. Che sia illustre o volgare, Dante lo condanna con veemenza, e l’immagine dell’uomo - pianta è l’exemplum da mostrare e con il quale scalfire il cuore del lettore. Il rametto parlante non è una pura invenzione dantesca ma bisogna tornare, come ormai siamo abituati, al Virgilio del III libro dell’Eneide, nei versi 22 e seguenti 20. Durante il suo viaggio verso l’Italia, Enea approda in Tracia e si appresta ad ornare l’altare per un sacrificio, cogliendo alcuni rami di un cespuglio di mirto. Con sua sorpresa, dapprima i rami gocciolano sangue, poi una voce si leva dal profondo ed invita l’eroe e i suoi uomini ad allontanarsi da quella terra maledetta, inadatta alla sacralità di un sacrificio: l’ombra è del giovane Polidoro, figlio ultimogenito di Priamo, 19 20

Leo Spitzer, Il canto dei suicidi, in L.D., vol.1, Firenze, Sansoni 1955. Cfr. anche Ovidio nelle Metamorfosi, in particolare II, vv. 240 e ssg, IX, vv. 344-345. 7

ucciso a tradimento dal cognato Polinestore e lì sepolto. Se si escludono le evidenti analogie esteriori, il clima dei due episodi è del tutto differente. Il cespuglio vivo di mirto, pianta sacra a Venere, è cresciuto sulla terra dove giacciono le spoglie del giovane principe non come punizione divina, ma anzi per compensare parzialmente l’ingiustizia di un’uccisione. In secondo luogo la vox proviene dalla terra e non dal cespuglio e il dialogo tra Enea e Polidoro non ha valore conoscitivo come quello tra Dante e Pier delle Vigne. In Virgilio la scena funge da intervallo “magico” tra un’esperienza e l’altra: il duca letterario dantesco, invece, invita il sommo poeta a spezzare il ramoscello come atto iniziatico necessario della sua esperienza di pellegrino. Lo stacco tra modello e successore si fa cristallino nella concretezza della metamorfosi. Non ci viene proposto un albero che prima era un essere umano o viceversa, bensì una nuova realtà la quale unisce in un unico, mostruoso, soggetto l’uno e l’altro, i quali ivi grottescamente convivono. Dante dipinge sulla tela espressionista della Commedia una creatura nuova, inedita in letteratura e in arte, che nel suo insieme e nei particolari, è tutta uomo e tutta pianta: non un ibrido con due nature ma un bis in idem in cui natura vegetale e natura intellettiva mantengono inalterata la propria identità. Il monstrum21 virgiliano assume in Dante un senso etimologico che ispira e sovrasta l’intero canto, raggiungendo punte di liricità e tragicità reciproche e complementari, senza precedenti, forse uniche. E’ la metamorfosi, intesa in senso classico, che viene in se stessa superata. Ettore Paratore22, concorde con le idee dello Spitzer, spinge il discorso oltre, evidenziando, rispetto al modello virgiliano, un profondo distacco linguistico – letterario, maschera di una visione del mondo totalmente differente. La selva dei suicidi può essere immaginata come l’ideale ring tra due mentalità e due culture non conciliabili, quella pagana e quella cristiana. Paratore insiste sulla precisa volontà

21 22

“horrendum et dictu video mirabile monstrum”. Publio Virgilio Marone, Eneide, op. cit., 3, v. 26. Ettore Paratore, Tradizione e struttura in Dante, Sansoni, Firenze, 1968. 8

dantesca di non voler sovrapporre i due piani: marcandone i confini, ne supera i limiti, donandoci una creazione poetica di rara efficacia e bellezza.

La narrazione continua con un chiasmo, custode dell’introduzione del protagonista: un verso unico composto da sostantivi e verbi di uso comune, di immediata efficacia e sobrietà. Una costruzione semplice e una correlazione così abile da rendere chiaro l’immenso dramma tragico che si sta consumando:

«Uomini fummo, e or siam fatti sterpi23».

Lo scolpire un’immagine tanto forte con mezzi elementari è una tecnica narrativa che Dante ben apprende da Virgilio, capace di fugaci e scultoree presentazioni, conscio di una terminologia semplice e coincisa. Vi è qui l’antitesi tra la condizione umana vissuta sulla terra, ormai un ricordo doloroso, e quella attuale, con cui convivere per l’eternità. Il canto prosegue la sua marcia con una similitudine24 seguita dal dolce dir di Virgilio che invita l’anima, che resterà innominata, a presentarsi in cambio della fama terrena. Dante autore sta concedendo spazio al nuovo protagonista, lenendo l’atmosfera cupa della selva per introdurre (ed introdurci) nel mondo cortese dei ricordi di Pier della Vigna. A tal proposito Momigliano, scrive «Sovente, nello stesso Inferno, le anime trascelte sono più esaltate come grandi esemplari umani che marchiate come empi famosi: vedi Farinata, Cavalcante, Brunetto, Ulisse, Ugolino, anche Francesca, nei quali più o meno il peccatore scompare, e campeggiano invece grandi virtù o grandi forze25». Dante Alighieri, Purgatorio – Canto XIII, op. cit., v. 37. Per la similitudine ai vv. 40-45 rinvio al commento di Leo Spitzer del 1964, che per primo parlò di «equazione poetica» tra sangue/linfa e parole/vento; e al commento del Momigliano contenuto nell’edizione critica alla Commedia del Mazzoni del 1972. Cfr. inoltre con i vv. 29-30 dell’Eneide: “Mihi frigidus horror/membra quatti gelidusque coit formidine sanguis”. 25 Momigliano in Mazzoni I, La Divina Commedia. Inferno, Sansoni, Firenze, 1972, p.247.

23

24

9

Le parole dello studioso ci avvicinano ad uno degli interrogativi più frequentati dalla critica del XIII canto: Dante, autore e/o personaggio, condanna Pier delle Vigne? Si faccia ben attenzione alla domanda poiché servirà distinguere tra peccato e peccatore. Il suicidio, basandoci sulla teoria dello Spitzer, è il monstrum protagonista della scena. Secondo la mentalità cattolica del tempo, rappresentava una forma di peccato più grave dell’omicidio26, in quanto compimento del rifiuto totale della vita, il più grande dono fatto da Dio agli uomini. Dante, da buon cristiano quale auspica di essere, non può non seguire la dottrina imposta dalla Chiesa, soprattutto attraverso la lettura di due modelli, certamente noti al Fiorentino: Sant’Agostino e San Tommaso d’Aquino. Il primo ne parla nell’analisi del quinto comandamento: «Non è lecito uccidersi, giacché nel precetto Non uccidere, senza alcuna aggiunta, nessuno, neanche l’individuo cui si dà il comandamento, si deve intendere escluso […] Non uccidere, quindi, né un altro né te. Chi uccide se stesso infatti uccide un uomo 27». Toni più severi quelli adottati da San Tommaso nella Summa Theologiae, in cui dichiara una radicale illeicità, omnino illicitum, ramificata in tre direzioni: «Primo quidem, quam naturaliter quaelibet res seipsam amat […] Secondo, quia quaelibet pars id quod est, est totius […] unde in hoc quod seipsum interficit, iniuram comunitati facit […] Tertio, quia vita est quoddam donum divinitus homini attributum28». Un atto di peccato dunque verso se stessi, il prossimo e infine Dio. Secondo Daniele Rota, che riprende le idee dello Spitzer, la condanna di Dante del suicidio, si sviluppa non attraverso «astrazioni o deduzioni di scolastica matrice» ma con immagini di certa comprensibilità. La verità, qui, richiede figurazioni emotivamente forti, abili nel far breccia nella memoria e nella coscienza del lettore. Questo genere di principio va oltre le “normali” dimensioni di spazio e tempo, è un 26

“Gravius […] peccat qui occidit seipsum quam qui occidit alterum” in San Tommaso, Summa

Teologiae, I II, 73, 9. 27 Sant’Agostino, De civitate dei, I, cap. 20, in PL, 61, col.35, traduzione italiana nell’edizione latinoitaliana di Città Nuova, Opere di Sant’Agostino, vol. V/I, Roma, 1978, pp. 60-63. 28 San Tommaso, Summa Teologiae, op. cit., II II, 64, 5. 10

quid proprio dell’esistenza del genere umano, una realtà non passeggera ma perenne, una concreta certezza. Ecco che, secondo il Rota e buona parte della critica, i versi del canto XIII non ammettono attenuanti: il monstrum della violenza contro se stessi non appartiene all’umano e Dante svela il suo rigorismo, ancor più ferreo della morale. «La distinzione fra peccato e peccato...


Similar Free PDFs