Decameron: I Giornata Introduzione PDF

Title Decameron: I Giornata Introduzione
Course Letteratura italiana 
Institution Università degli Studi di Udine
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PRIMA GIORNATA: Introduzione VERSO 135: Comincia la prima giornata del Decameron, nella quale, sotto la

guida di Pampinea, si discute su quello che piace a ciascuno (dei dieci giovani della brigata), dopo che l’autore ha mostrato per quale causa avvenne che quelle (dieci) persone, che poi saranno indicate, si dovettero riunire per conservare insieme Graziosissime donne, ogni volta che, penso a quanto voi siate per natura piene di pietà, altrettante volte mi rendo conto che quest’opera risulterà avere, al vostro giudizio, uno sgradevole e grave inizio, così come è il doloroso ricordo della passata pestilenza, universalmente doloroso a chiunque la vide o altrimenti ne conobbe i danni e (la presente opera) porta (questo ricordo) nel suo stesso inizio. Ma non voglio tuttavia che quello che leggerete più avanti vi spaventi tanto da continuare la lettura tra sospiri e lacrime. Questo orribile inizio sarà per voi niente altro che una montagna aspra e ripida ai viandanti, presso la quale sia posta una bellissima e piacevole pianura, che risulta tanto più gradevole quanto maggiore è stata la fatica del salire e scendere. E così come il dolore si colloca alle estremità della felicità, così le tristezze vengono concluse dalla felicità che sopraggiunge. A questa breve (dico breve in quanto si contiene in poche lettere / pagine) sofferenza segue immediatamente la dolcezza e il piacere che vi ho promesso, e che forse non sarebbero attesi dopo un simile inizio, se non lo dicessi. E vi dico la verità, se io vi avessi giustamente condotto dove desidero attraverso un altro sentiero, invece che per un sentiero così aspro come sarà questo, lo avrei fatto volentieri; ma per il fatto che senza questa rievocazione (della peste) non si poteva mostrare quale fosse la causa per cui avvenissero le cose che poi si leggeranno (nell’opera), mi appresto a scriverle quasi costretto dalla necessità. Dico dunque che era l’anno della reincarnazione il 1348, quando, nella celebre città di Firenze, più bella e nobile di qualsiasi altra città italiana, giunse la pestilenza portatrice di morte: la quale (pestilenza) o per influssi celesti, o mandata dalla giusta ira di Dio per correggerci, era iniziata diversi anni prima nelle regioni d’Oriente provocando la morte di innumerevoli esseri viventi, e poi, senza mai fermarsi, diffondendosi per contagio da un luogo all’altro, si era estesa verso Occidente, in un modo che suscita commiserazione. E non avendo efficacia contro la peste alcun intervento assennato né alcun provvedimento umano, con il quale la città fu ripulita da molte immondizie per opera di persone incaricate di questo compito e vi fu vietato l’ingresso a chiunque fosse già malato e furono resi pubblici molti suggerimenti per conservare la salute (evitando il contagio), e neppure le umili suppliche fatte non una sola volta ma molte e anche in processioni ordinate e fatte in diversi modi da fedeli, quasi all’inizio della primavera del 1348 (la peste) iniziò a manifestare, in maniera stupefacente, i suoi dolorosi effetti. Ma non come aveva fatto in Oriente, dove a chiunque perdesse sangue dal naso questo sembrava segno manifesto di morte inevitabile: ma (a Firenze) i primi sintomi della peste erano dati, allo stesso modo sia nei maschi sia nelle femmine, dalla formazione di certi rigonfiamenti sotto il linguine o sotto le ascelle, e alcuni crescevano come una mela di media grandezza, altri come un uovo, e alcuni di più e alcuni altri di meno, e i popolani li chiamavano gavoccioli . E dalle due parti del corpo prima indicate il bubbone portatore di morte cominciò, in breve tempo, a nascere e a crescere indifferentemente in ogni parte (del corpo): e dopo questo la caratteristica di questa malattia incominciò a trasformarsi in macchie nere o livide, le quali a molti apparivano nelle braccia e lungo le cosce e in qualsiasi altra parte del corpo, a chi grandi e rade, a chi piccole e folte. E come il bubbone era stato, e ancora era, il primo certo indizio di futura morte, così lo erano queste macchie a tutti quelli ai quali venivano. Né consulto medico né alcuna efficacia di medicina sembravano validi a dare giovamento nella

cura di questa malattia: anzi, o perché la natura della malattia non lo consentisse o perché l’ignoranza di chi prestava cure (mendicanti; il numero dei quali, oltre a quello dei professionisti laureati, era divenuto grandissimo, così di donne come di uomini, senza che avessero mai ricevuto alcuna cognizione di medicina) ne ignorasse la causa e di conseguenza non sapesse prendere l’adatto rimedio, non solo pochi guarivano, ma anzi quasi tutti morivano verso il terzo giorno dalla comparsa dei sintomi prima descritti, chi prima e chi dopo, e in più senza alcuna febbre o altra complicazione. E questa pestilenza fu di maggiore forza perché dagli infermi, per il loro stare insieme a contatto, si gettava con violenta rapidità sui sani, in modo non diverso da quello che fa il fuoco alle cose secche o unte di grasso quando gli sono molto vicine. E vi fu un male anche maggiore: perché non solo il parlare e praticare con gli infermi procurava ai sani la malattia e causava la morte di tutti, ma anche il toccare i panni o qualunque altra cosa che fosse stata toccata o adoperata dai malati sembrava trasportare quella tale malattia. E devo dire un’altra cosa straordinaria di questa pestilenza: è cosa che se non fosse stata vista dagli occhi di molti e dai miei, con difficoltà io stesso avrei il coraggio di crederla nonché di scriverla, anche se l’avessi udita da persona degna di fede. Dico che la natura della peste che sto descrivendo fu così tanto efficace nel passare tra uno e l’altro, che non attaccava solamente l’uomo all’uomo, ma fece molto spesso anche questo, che è molto di più, e lo fece in modo visibile, cioè che un oggetto di chi fosse stato infermo o ucciso da questa infermità, toccato da un altro animale diverso dalla specie umana, non solo lo infettasse ma lo uccidesse in brevissimo tempo. Come poco fa ho detto, i miei occhi fecero di ciò (del contagio da uomo ad animale) un giorno, tra le altre volte, questa esperienza: gli stracci di un povero uomo ucciso da tale infermità erano stati gettati nella pubblica via e due maiali si imbatterono in essi, e, come è loro costume, prima li presero a lungo con il muso e poi con i denti, scuotendoli intorno alle guance, e poche ore dopo, dopo alcune contorsioni, come se fossero stati avvelenati, caddero entrambi morti a terra sopra gli stessi stracci tirati con loro danno. Dalle quali cose, e da molte altre simili a queste o ancora più gravi, nacquero diverse paure e immaginazioni di diversi generi in quelli che rimanevano vivi, e tutti puntavano ad uno stesso fine, e assai crudele, e cioè di schivare e di scappare dagli ammalati e dai loro beni; e facendo così, ciascuno credeva di provvedere alla propria salvezza. E c’erano alcuni che credevano che il vivere con moderazione e l’evitare ogni cosa superflua fosse molto efficace per resistere a un simile evento: organizzati dei gruppi, vivevano separati da ogni (altro essere umano), e radunandosi e chiudendosi in case dove non ci fosse nessun infermo e dove ci fosse da vivere meglio, consumavano in maniera controllata cibi sofisticati e vini ottimi e, fuggendo ad ogni lussuria (o eccesso) senza lasciarsi parlare da nessuno o senza sentire nessuna notizia di morte o di malati, si divoravano facendo musica e dandosi a quei piaceri che si potevano avere (in tempo di peste). Altri, spinti da un’opinione contraria, affermavano che era medicina sicurissima a tanto male il bere molto e il godersela e l’andare in giro cantando e sollazzandosi e il soddisfare l’appetito in ogni cosa possibile e ridersi e beffarsi di ciò che avveniva: e così come lo dicevano lo mettevano in opera per quanto fosse in loro potere, andando il giorno e la notte ora a quella taverna ora a quell’altra, bevendo smoderatamente, e lo facevano molto più nelle case degli altri, se solo avessero notizia che vi fossero cose di loro gradimento e piacere. E potevano fare questo senza problemi, perché ciascuno, come se non dovesse più vivere, aveva abbandonato le sue cose, così come sé stesso: per la qual cosa la maggior parte delle case era divenuta d’uso comune, e l’estraneo, solo che vi capitasse, le usava come le avrebbe usate il proprietario; e con tutte queste bestiali intenzioni i malati fuggivano sempre come potevano. In tanta afflizione e

miseria della nostra città era quasi del tutto caduta e disfatta l’autorità delle leggi, così divine come umane, per opera degli stessi loro ministri ed esecutori, i quali, così come gli altri uomini, erano tutti morti o malati o erano rimasti privi della famiglia, talché non potevano svolgere nessun compito; perciò a ciascuno era lecito di fare ciò che a loro andava di fare. Molti altri seguivano una via di mezzo, rispetto alle due prima indicate, non restringendosi nell’alimentazione come i primi né allargandosi nel bere e nelle altre dissolutezze come i secondi, ma usavano le cose quanto bastava secondo l’appetito e senza rinchiudersi (in casa) andavano in giro, portando in mano chi fiori, chi erbe profumate e chi diversi tipi di spezie, e avvicinandole spesso al naso, ritenendo che fosse un ottima cosa dare conforto con questi odori al cervello, poiché tutta l’aria sembrava impregnata e maleodorante per l’odore dei cadaveri e delle infermità e delle medicine. Alcuni avevano un atteggiamento ancora più crudele, come se secondo loro fosse più sicuro, e affermavano che contro la peste non c’era nessuna medicina migliore, nè così efficace, come il fuggire in sua presenza: e spinti da questa opinione, non badando a nient’altro se non a sé stessi, molti uomini e donne abbandonarono la propria città, le proprie case, i loro quartieri, i loro parenti e i loro beni, e andarono in cerca della loro, o di qualcun altro, proprietà in campagna, come se l’ira di Dio, una volta messa in movimento, non seguisse il proprio corso nel punire con la peste le ingiustizie degli uomini dovunque essi fossero, ma mirasse a opprimere solo quelli che si ritrovassero dentro le mura della loro città, o forse ritenendo che nessuno dovesse rimanervi e che la sua (di Firenze) ultima ora era giunta. E benché non morissero tutti, non tutti costoro che la pensavano tanto diversamente, non per ciò tutti scappavano: anzi, ammalandosene molti di ciascuna (opinione) e in qualsiasi posto, avendo essi stessi dato, quando erano sani, esempio a quelli ancora sani, languivano quasi dappertutto abbandonati. E lasciamo stare che un abitante evitasse l’altro e che quasi nessun vicino avesse cura dell’altro e che i parenti rare volte si facessero visita o mai e da lontano: questa sofferenza era entrata con tale spavento nel cuore degli uomini e delle donne, che un fratello abbandonava l’altro, lo zio il nipote, la sorella il fratello e spesso la moglie il marito; e, ed è questa la cosa peggiore e quasi incredibile, i padri e le madri evitano di visitare e servire i figli, quasi non fossero tali. Perciò a coloro che si ammalavano, e il loro numero era incalcolabile, sia maschi sia femmine, non rimase alcun altro aiuto che o la carità degli amici (e furono pochi) o l’avidità dei servitori, che prestavano servizio (solo perché) attratti da grandi e esagerati stipendi, per quanto a causa di tutto ciò (gli effetti della peste) non fossero rimasti in molti (quelli disposti a queste pratiche); e questi erano uomini o donne rozzi, e i più senza pratica di tali servizi, e quasi di niente altro servivano gli infermi che di porgere loro alcune cose richieste o di stare attenti a quando morivano; e svolgendo questo servizio spesso perdevano sia il guadagno che la vita. Per il fatto che gli infermi malati di peste venivano abbandonati dai vicini, dai parenti e dagli amici, si diffuse un comportamento quasi mai sentito prima: qualsiasi donna, per quanto fosse leggiadra o bella o nobile, ammalandosi, si preoccupava di avere ai suoi servizi un uomo, indifferentemente che fosse, o giovane o no, e di scoprire, in sua presenza, senza alcuna vergogna qualsiasi parte del corpo solo che fosse richiesto dalle necessità della sua malattia, non altrimenti che avrebbe fatto in presenza di una femmina; e questo, per le donne che guarirono dalla peste, forse causò in seguito una minore onestà (in riferimento ai rapporti con l’altro sesso). E inoltre ne (da queste pratiche) conseguì la morte di molti che forse, se fossero stati aiutati, sarebbero sopravvissuti; pertanto, sia per la mancanza dei servizi (che sarebbero stati opportuni) e che gli infermi non potevano avere, sia per la forza della pestilenza, era grande a Firenze la

moltitudine di quelli che giorno e notte morivano, che si restava stupiti a sentirne parlare, non solo a vederlo. Perciò, fu quasi inevitabile che derivarono, tra coloro che rimanevano vivi, cose contrarie agli antichi comportamenti degli abitanti. Era usanza, così come ancora oggi vediamo praticare, che le donne parenti e vicine si riunivano nella casa del morto e qui piangevano con quelle che erano di parentela più stretta; e altrove, davanti alla casa del morto, i suoi vicini e molti altri cittadini si riunivano con i suoi parenti prossimi (gli uomini fuori di casa), e la qualità e la quantità dei sacerdoti variava secondo l’importanza del defunto; ed era poi portato sulle spalle dei suoi pari (senso sociale) nella chiesa che aveva scelto prima di morire, con pompa funebre (manifestazione di lusso) di candele e canti. Queste cose, dopo che iniziò a crescere la ferocia della pestilenza, quasi cessarono o del tutto o in maggior parte, e altre sopraggiunsero al loro posto. Perché non solo la gente moriva senza avere molte donne intorno, ma erano molti quelli che morivano senza testimoni: ed erano pochissimi quelli a cui erano concessi i pianti pietosi e le lacrime amare dei loro congiunti, anzi, al loro posto, si usavano soprattutto le risate, battute e il festeggiare in compagnia; e proprio le donne avevano appreso questa (nuova) usanza per salvarsi, avendo gran parte (di loro) posto in secondo piano la pietà propria della donna. Ed erano pochi coloro i cui corpi fossero accompagnati in chiesa (per il funerale) da una decina o dozzina di loro vicini; e non erano onorevoli e cari (al defunto) cittadini a portare i corpi (nella bara) sopra le loro spalle, ma una specie di beccamorti improvvisati da gente di poco conto, che si facevano chiamare becchini (senza esserlo) e facevano questi servizi a pagamento, si mettevano sotto la bara e il più delle volte, con passi frettolosi la portavano non alla chiesa disposta dal defunto prima di morire, ma alla più vicina, dietro a quattro o sei preti con poco lume e talvolta con nessuno, che con l’aiuto di questi becchini, senza affaticarsi in una messa troppo lunga o solenne, mettevano il morto in qualsiasi sepoltura libera che trovavano. VERSO 4756: Che altro si può dire, smettendo di parlare della campagna e ritornando alla città, se non che tanta e tale fu la crudeltà del cielo, e forse lo fu in parte degli uomini, che si ritiene per certo che, fra il marzo e il luglio successivo, più di centomila esseri umani morirono dentro le mura della città di Firenze, sia per la forza della pestilenza sia per l’essere stati molti infermi male assistiti o abbandonati, a causa della paura che i sani avevano (del contagio); (centomila esseri umani) che forse, prima di questa sventura mortale, non si sarebbe neppure stimato che Firenze ne avesse tante dentro (le mura)? Quanti grandi palazzi, quante belle case, quanti nobili abitazioni, prima piene di famiglie, di signori e di donne, rimasero vuote fino all’ultimo servo! Quante stirpi degne di memoria, quante grandissime eredità, quante celebri ricchezze si videro restare senza legittimo erede! Quanti uomini di valore, quante belle donne, quanti giovani leggiadri, che non solo altri (medici), ma persino Galeno, Ippocrate o Esculapio avrebbero giudicato in perfetta salute, a pranzo mangiarono con i parenti, compagni e amici, che poi al giungere della sera cenarono nell’aldilà con i loro morti! A me stesso dispiace di continuare a parlare di tante miserie: e perciò volendo ormai abbandonare quella parte (di miserie) che posso opportunatamente evitare, dico che, mentre la nostra città era in queste condizioni, quasi vuota di abitanti, avvenne che un martedì, mattina, come ho saputo da persona degna di fiducia, nella chiesa di Santa Maria Novella, mentre non vi era quasi nessun altro, dopo aver assistito alla messa vestite a lutto come il momento richiedeva, si ritrovarono sette giovani donne, tutte unite l’una all’altra per amicizia o vicinanza o parentela, nessuna delle quali aveva superato il ventottesimo anno né era minore di diciotto: tutte savia e di sangue nobile e fisicamente belle e dotate di buoni costumi e di leggiadra onestà. Io direi i loro nomi reali, se una giusta causa non mi impedisse di

farlo; ed è questa: non voglio che qualcuna di loro possa in futuro vergognarsi per le cose da loro raccontate e ascoltate, essendo oggi alquanto ristrette le leggi del piacere, che allora, per le cause che ho prima mostrato, erano larghissime rispetto non solo alla loro età ma anche a una ben più matura: non voglio neanche dare materia agli invidiosi, pronti a criticare aspramente (mordere: metafora tipica dell’invidia) ogni vita che sia degna di lode, di diminuire con indecenti discorsi l’onestà di quelle nobili donne, in nessuna delle loro azioni. E perciò, affinché si possa poi capire senza confusione quello che ciascuna dicesse, intendo nominarle con nomi appropriati, in tutto o in parte, alle caratteristiche di ciascuna: la prima, e quella che era di età maggiore, chiameremo Pampinea e la seconda Fiammetta, Filomena la terza e la quarta Emilia, e poi diremo Lauretta la quinta e la sesta Neifile, e l’ultima nomineremo Elissa, non senza una ragione. Le quali, non perché si erano proposte di farlo, ma per caso, si riunirono in una parte della chiesa e si misero a sedere quasi in cerchio, dopo aver più volte sospirato (per l’infelicità dei tempi) e dopo aver detto il Padre Nostro, cominciarono tra di loro a discutere di molte cose riguardanti le caratteristiche del tempo presente (la peste). Dopo un po’, mentre le altre tacevano, Pampinea cominciò così a parlare: “Mie care signore, voi probabilmente, come me, avete spesso sentito che nessuno fa del male se usa i propri diritti in modo onesto. E aiutare e conservare e difendere la propria vita quanto può è un diritto naturale per chiunque nasca a questo mondo; e si concede tanto questo, che certe volte è già capitato che, per proteggere la propria vita, sono stati uccisi uomini senza che (questo) costituisse un qualche colpa. E se le leggi, alla cui pronta efficacia è affidato il vivere bene di ogni mortale, concedono questo, quanto maggiormente è concesso a noi, e a qualunque altra persona onesta, prendere, senza offesa di nessuno, quei rimedi che possiamo noi prendere per la conservazione della nostra vita? Ogni volta che vengo qui in chiesa a osservare con attenzione i nostri comportamenti di questa mattina, e ancor di più quelli dei giorni passati, e a pensare quanti e quali siano le nostre discussioni, io capisco, e ugualmente voi potete capire, che ciascuna di noi ha paura per la propria vita: e non mi meraviglio di ciò, ma, rendendomi conto che ciascuna di noi ha sensibilità di donna, mi meraviglio molto che noi non prendiamo alcun rimedio a quello (la peste) di cui ciascuna di voi giustamente ha paura. Secondo il mio parere, stiamo qui (in chiesa) in modo non diverso che se volessimo essere o dovessimo essere testimoni di quanti defunti vengano portati a seppellire, o (se volessimo o dovessimo) ascoltare se i frati di questa chiesa, il cui numero si è azzerato, svolgano il loro ufficio nelle ore canoniche o dimostrare nei nostri abiti, a chiunque ci compaia davanti, il tipo e il numero delle nostre sventure.

VERSO 9096: Questo luogo era sopra una piccola collina, da ogni sua parte lontano dalle nostre strade, piacevole da guardare per i vari arboscelli e piante tutte ripiene di verdi fronde; in cima alla collina c’era un palazzo con al suo centro un grande e bel cortile e delle logge, e sale e camere, tutte bellissime per suo genere e di grande valore perché ciascuna era ornata con allegri affreschi: attorno (al palazzo c’erano) piccoli prati e c...


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