Elenco Personaggi Inferno Dante con storia e bio PDF

Title Elenco Personaggi Inferno Dante con storia e bio
Author Federica Velle
Course Letteratura italiana 
Institution Università degli Studi di Udine
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Summary

Elenco canto per canto di tutti i personaggi dell'Inferno della Divina Commedia di Dante con biografia, spiegazione, contesto ...


Description

Lonza: lussuria Leone: superbia Lupa: avarizia, ossia in termini danteschi l'avidità Beatrice: Beatrice è in realtà Bice, figlia di Folco Portinari, nata a Firenze nel 1266 e che a diciannove anni sposò Simone dei Bardi, morendo ventiquattrenne nel 1290. Nella Vita Nuova Dante racconta di averla conosciuta per la prima volta quando entrambi avevano nove anni e di averla poi rivista a diciotto anni, incontro dal quale era nato il suo amore per lei. Beatrice non è altro che un senhal, ovvero un nome fittizio (secondo la tradizione della lirica provenzale) che significa letteralmente «colei che rende beati». Beatrice è protagonista di molte delle prime poesie stilnoviste di Dante, poi raccolte nella Vita Nuova e nelle Rime. Nel «libello» giovanile la donna non è solo la donna-angelo dello Stilnovo, ma è già raffigurazione di Cristo e sembra anticipare il valore allegorico che avrà nel poema, ovvero quello della grazia divina e della teologia rivelata che sola può condurre l'uomo alla salvezza eterna e al possesso delle tre virtù teologali (fede, speranza, carità). Dopo la sua morte Dante attraversò un momento di «traviamento» morale, che vide l'inizio di studi filosofici (ne parla Dante stesso nel Convivio) e nuove esperienze poetiche, come le Rime petrose. Si è ipotizzato che tale traviamento sia all'origine del peccato rappresentato dalla selva oscura e che si tratti di una colpa di natura intellettuale, ovvero del tentativo di raggiungere le verità teologiche col solo ausilio della ragione e della filosofia umana. Questa sarebbe la ragione dei rimproveri che Beatrice rivolgerà a Dante in Purg., XXX, 103 ss., nonché in XXXI, 37 ss. e XXXIII, 85 ss. Beatrice compare nel poema per la prima volta nel Canto II dell'Inferno, quando scende nel Limbo e prega Virgilio di soccorrere Dante. È la Vergine a sollecitare l'intervento di santa Lucia per la salvezza del poeta, e Lucia si rivolge a Beatrice (che siede nel suo scanno celeste accanto a Rachele) pregandola di intervenire in soccorso di Dante. Beatrice ricompare poi nel Canto XXX del Purgatorio, al termine della processione simbolica nel Paradiso Terrestre, sul carro che rappresenta la Chiesa trainato dal grifone. Qui Beatrice è coperta da un velo bianco su cui è posta una corona di ulivo, indossa un abito rosso e un mantello verde, colori che simboleggiano le tre virtù teologali (il bianco è la fede, il verde è la speranza, il rosso è la carità). Nell'attimo preciso in cui lei appare scompare Virgilio, il che provoca in Dante un profondo turbamento e un pianto accorato. Beatrice, dopo gli aspri rimproveri rivolti a Dante, lo condurrà a bagnarsi nell'acqua del Lete (il fiume dell'oblio che cancella la memoria dei peccati commessi) e dell'Eunoè (il fiume che rafforza la coscienza del bene compiuto). In seguito la donna accompagnerà Dante nell'ultima parte del viaggio, in Paradiso, come già preannunciato da Virgilio in Inf., I, 121-123. La funzione di Beatrice nella terza Cantica sarà analoga a quella di Virgilio nelle prime due, ovvero di guida e maestra di Dante. Il rapporto tra i due sarà però naturalmente molto diverso: Dante si riferisce a lei col termine donna, carico di significati stilnovisti, e Beatrice avrà spesso nei confronti del discepolo un atteggiamento severo, rimproverandogli molte volte la sua ignoranza in materia dottrinale. Significativo è poi il fatto che nel Paradiso Beatrice smentisca varie volte delle affermazioni di carattere scientifico fatte da Dante soprattutto nel Convivio, a cominciare da quella riguardante la natura delle macchie lunari (II, 61 ss.). Ciò significa che la teologia rivelata è superiore alla filosofia umana e che ci sono argomenti riguardo ai quali la sola ragione umana è insufficiente senza la fede (discorso analogo è quello di Virgilio in Purg., III, 34-45). Nel Canto XXXI del Paradiso, infine, Beatrice lascia il posto a una terza guida che accompagnerà Dante nell'ultima parte del viaggio e alla visione di Dio: è san Bernardo, che il poeta vede improvvisamente accanto a sé appena giunto nell'Empireo. Il santo invita Dante a guardare nella candida rosa dei beati, dove Beatrice ha ripreso il suo scanno.

Rachele: Personaggio dell'Antico Testamento (Genesi, 29-30), figlia di Labano e moglie del patriarca Giacobbe, con cui concepisce e dà alla luce in vecchiaia i figli Giuseppe e Beniamino. Dante la cita in Inf., II, 102, come la beata che siede accanto allo scanno di Beatrice nella rosa celeste. In Inf., IV, 60 Virgilio spiega a Dante che Cristo risorto trasse fuori dal Limbo vari patriarchi biblici, tra cui Rachele. In Purg., XXVII, 104 è citata nel sogno di Dante la notte che precede il suo ingresso nell'Eden, insieme alla sorella Lia: le due donne sono generalmente interpretate come allegoria rispettivamente della vita attiva e di quella contemplativa. In Par., XXXII, 8 san Bernardo spiega a Dante che Rachele siede nella rosa dei beati nella fila formata dai terzi seggi, sotto Eva e insieme con Beatrice, che ha appena lasciato il poeta per tornare al posto che occupava in precedenza. Virgilio: vissuto tra il 70 a.C. e il 19 a.C., nel poema rappresenta la ragione assoluta sottomessa alla fede (ampio conoscitore del sapere antico, il suo amore per la conoscenza non lo conduce alla perfezione dell'anima e alla beatitudine celeste in quanto è priva del sapere dei Vangeli: infatti è nato e morto prima dell'arrivo di Cristo) ma anche l'autorità imperiale (poeta del consenso, scrive l'Eneide per l'imperatore Ottaviano Augusto, al fine di portare la discendenza della dinastia giulio-claudia all'elevato livello greco attraverso Enea- figlio di Anchise e Afrodite, partecipa alla guerra tra Sparta e Troia dalla parte di Priamo; sposo di Lavinia, figlia del re Latino in Lazio). Nacque ad Andes (oggi Piètole, nel Mantovano) nel 70 a.C. , quando Cesare era ancora un privato cittadino ( "nacqui sub Iulio, ancor che fosse tardi" Inferno I, I); con questa espressione il poeta viene collocato nel clima imperiale di cui sarà il cantore. Cesare, morto nel 44 a.C., non poté conoscere e apprezzare i meriti poetici di Virgilio. Pertanto "e vissi a Roma sotto 'l buono (=valente) Augusto" sottolinea il destino romano e imperiale del poeta. Veltro: nel significato letterale il veltro è un cane da caccia, adatto quindi a snidare la lupa e cacciarla da ogni luogo, ma è chiaro che esso va anche inteso come simbolo. Si tratta di una profezia dal linguaggio volutamente ermetico. E' da evitare l'identificazione con un personaggio reale, che risulta problematica: infatti anche chi lo ha identificato con Arrigo VII, o con Cangrande della Scala, o con Uguccione della Faggiola, non ha trovato argomenti assolutamente probanti. Dante dichiara che il veltro si ciberà di "sapienza, amore e virtute": attributi che tenderebbero a conferire un carattere spirituale al futuro salvatore, che non cercherà né domini né ricchezze, ma si pascerà solo di cibo spirituale. Per quanto riguarda la sua provenienza Dante ne dichiara le origini "tra feltro e feltro", l'enigma è stato inteso in vari modi: umiltà di origini, o provenienza da un ordine religioso in quanto il feltro è un panno umile che può far pensare a vesti umili o alle tonache dei frati; elezione democratica, in quanto le urne in cui si deponevano i voti per l'elezione dei magistrati erano foderate in feltro; designazione geografica, tra Feltre e Montefeltro a vantaggio dell'identificazione del veltro in Cangrande della Scala; oppure tra il volgersi delle costellazioni, legandone il senso al destino del veltro. Arrigo VII: Imperatore del Sacro Romano Impero, fu eletto ad Aquisgrana nel 1308 e scese in Italia nel 1310 su invito di papa Clemente V, nella speranza di porre fine alle contese fra Guelfi e Ghibellini e ristabilire l'autorità imperiale sui Comuni ribelli dell'Italia del Nord. Il tentativo non andò a buon fine, sia per la debolezza del sovrano, sia per il tradimento del papa che istigò contro di lui l'opposizione del partito guelfo e di varie città, tra cui Firenze. Morì improvvisamente il 24 agosto 1313, a Buonconvento presso Siena. Dante si accese di entusiasmo alla sua discesa in Italia e nutrì la speranza di poter rientrare a Firenze, poi rimasta delusa. Al sovrano indirizzò l'Epistola VII, in cui lo esortava con furore biblico a non recedere dai suoi propositi di restaurazione imperiale (nel 1310-1313 compose probabilmente il trattato De Monarchia). Nella Commedia Arrigo è più volte citato, sempre in termini molto positivi: alcuni hanno pensato a lui come il personaggio cui si allude col «veltro» (Inf., Canto I, 100 ss.) e col «DXV» (Purg.,

XXXIII, 37 ss.), mentre in Par., XVII, 82 Cacciaguida parlerà dell'inganno da lui subìto ad opera del Guasco (papa Clemente V). Più avanti, in XXX, 133-148, Beatrice mostrerà a Dante un seggio vuoto nella candida rosa dei beati su cui è posta una corona, spiegando che esso è già destinato all'alto Arrigo. L'imperatore, profetizza Beatrice, scenderà in Italia per ristabilirne il buon governo quando il paese non sarà ancora pronto a riceverlo e lo caccerà come un neonato che muore di fame e allontana la balia, a causa della cieca cupidigia. Cangrande della Scala: (1291-1329) Signore di Verona, terzo figlio di Alberto I, nel 1311 fu associato dal fratello Alboino al governo della città: per le sue imprese militari e la sua espansione territoriale fu nominato capitano generale della Lega Ghibellina (1318), venendo scomunicato nel 1320 da papa Giovanni XXII. Nel periodo 1313-1318 Dante fu al suo servizio, svolgendo per suo conto varie missioni diplomatiche e dedicandogli tra l'altro il Paradiso (a lui è indirizzata la famosa Epistola XIII, dove il poeta fornisce preziose indicazioni per l'interpretazione di tutto il poema). La figura di Cangrande è generalmente accostata a quella del «veltro», il misterioso personaggio evocato da Virgilio nella profezia di Inf., I, 101 ss., dove si dice che costui sarà destinato a cacciare la lupa-avarizia dall'Italia e a ristabilire la giustizia ("il verso e sua nazion sarà tra feltro e feltro" è stato interpretato come allusione proprio al dominio di Cangrande, che si estendeva pressappoco tra Feltre e Montefeltro). Alcuni commentatori hanno voluto vedere in lui anche il «DXV» profetizzato da Beatrice in Purg., XXXIII, 37 ss. Cangrande è nominato in modo implicito ma riconoscibile da Cacciaguida in Par., XVII, 70 ss., dove l'avo di Dante profetizza l'esilio al poeta e gli preannuncia che gli Scaligeri gli daranno rifugio e protezione in Verona, soprattutto Cangrande di cui si dice che l'influsso della stella di Marte lo porterà a compiere imprese notabili, a mostrare faville de la sua virtute, a realizzare magnificenze che secondo Cacciaguida risulteranno incredibili anche ai contemporanei. Di Cangrande si dice anche che non si curerà d'argento né d'affanni, il che avvalora l'interpretazione che lo accosta al veltro (di cui Virgilio avea detto che non avrebbe concupito né terra né peltro, cioè non avrebbe ricercato né terre né ricchezze materiali). Uguccione Della Faggiola: Capitano di ventura ed uomo politico, fu tra i protagonisti della vita politica e militare del Medioevo in particolare all'interno delle vicende che contrassegnarono lo scontro tra Papato ed Impero. Nato nel 1250 a Casteldelci, che all'epoca era inserito nel territorio della Massa Trabaria [2], al confine tra Romagna, Marche e Toscana, fu podestà e signore di Arezzo nel 1295 e signore di Lugo nel 1297. Dopo aver tentato di diventare signore di Forlì (1297), contando sulle simpatie ghibelline della città, fu di nuovo podestà di Arezzo nel 1302 e vicario del re Enrico VII di Lussemburgo a Genova tra il 1311 e il 1312. Nel 1313 fu chiamato a Pisa per esercitarvi la signoria. Il 1315 segna l'anno del massimo fulgore della sua stella nel firmamento del Ghibellinismo toscano, è di quell'anno infatti la Battaglia di Montecatini il fatto d'arme che consolidò ed estese a tutta la penisola la sua fama di abile condottiero. Si trattava in sostanza di uno scontro impari, da una parte c'era Firenze, in quegli anni una delle città più ricche d'Italia e d'Europa alleata con molte altre città: Siena, Prato, Pistoia, Arezzo, Colle di Val d'Elsa, Volterra, San Gimignano, ecc. ed anche con gli Angioini di Napoli. Dall'altra parte stava Pisa, città sostanzialmente in crisi dopo la Battaglia della Meloria e Lucca, città occupata militarmente dallo stesso Uguccione e quindi non del tutto affidabile. In questo contesto di debolezza Uguccione poteva tuttavia contare su un punto di forza rappresentato da un contingente di 1800 cavalieri tedeschi, mercenari che facevano parte delle truppe imperiali e che si posero al servizio di Pisa a suon di fiorini, ma anche animati da un odio profondo verso i Guelfi e gli Angioini.

In seguito a questa vittoria per molti versi clamorosa ed inattesa Firenze fu abbandonata da gran parte delle città toscane che si affrettarono a chiedere e a ottenere la pace con Pisa, e riuscì a salvarsi solo grazie ad una ritrovata concordia interna. Nel 1316 i pisani cacciarono Uguccione perché stanchi dei suoi metodi autoritari e dell'esosità delle imposte richieste dalle esigenze militari, questo fatto lo costrinse a cercare rifugio presso Cangrande I della Scala che lo fece podestà di Vicenza. Con questa autorità Uguccione represse duramente la rivolta guelfa del maggio 1317. Durante il suo servizio per il signore di Verona egli guidò anche la guerra contro Brescia e Padova. Uguccione della Faggiola morì il 1º novembre 1319, il suo corpo fu portato da Vicenza a Verona per essere tumulato nella chiesa di Santa Anastasia. Un cronista dell'epoca Agnolo di Tura così conclude la narrazione che portò alla caduta del signore di Pisa e di Lucca:"Questo fu il guiderdone che lo popolo di Pisa rendé a Uguccione da la Fagiuola, che gli avea vendicate di tante vergogne e raquistate tutte le loro castella e degnità e rimisserli nel magiore stato e più temuto da' loro vicini che città d'Italia". PUSILLANIMI Caronte: (lat. Charon, forma ossitonata) figlio dell'Erebo e della Notte, nella tradizione classica è il traghettatore delle anime nell'aldilà. Ha una lunga barba bianca e gli occhi di rosso vermiglio. Caronte grida contro Dante perchè di là non passa mai un'anima buona, come gli spiegherà in seguito Virgilio. Colui che fece per viltade il gran rifiuto: Il verso ha diverse interpretazioni. Alcuni commentatori pensavano Dante facesse riferimento a Pilato, delegato romano, che clamorosamente negò di giudicare, il gran rifiuto, e fece scegliere alla folla se salvare Gesù (verrà graziato Barabba al suo posto). I commentatori contrari sostengono che la rinuncia di Pilato consente il compimento delle Scritture e il fondamento della religione cristiana con la crocifisisone, la morte e la resurrezione del Figlio di Dio. Altri antichi commentatori, tra cui Benvenuto, sostenevano che l'ombra appartenesse ad Esaù che barattò la propria primogenitura per un piatto di lenticchie offertogli da suo fratello minore Giacobbe. Pertanto il rifiuto di impersonare il ruolo di capofamiglia scardinava l'idea stessa alla base della struttra portante della società antica. Secondo il Vangelo di Matteo, si racconta di un giovane che non accolse l'invito di Gesù a seguirlo per non disfarsi delle sue ricchezze. Non si tratta di un episodio banale, perchè tale rifiuto poteva essere considerato abbastanza spregevole da Dante. Tuttavia, da sempre la maggior parte dei commentatori riconosce l'ombra con Celestino V. E nessuno fra i contemporanei aveva compiuto una rinuncia peggiore di quella fatta da Pietro Angeleri da Morrone che, eletto papa, aveva dopo poco rinunciato all'incarico, spianando la strada dell'elezione al nemico per eccellenza di Dante, ossia papa Bonifacio VIII, di cui predirrà la dannazione (If XIX 52-57) e lo bollerà con al definizione di "principe d'i novi farisei" (If XXVII 85) per aver tradito l'alto compito di guidare la Chiesa , impegnandosi solo nella difesa dei suoi interessi personale ricercando la gloria e la potenza terrena. Celestino V: Pietro Angeleri da Morrone, nominato papa dal 28 agosto 1294 fino alla sua abdicazione nel 13 dicembre 1294 (solo 4 mesi di potificato). Nella chiesa di Santa Maria di Collemaggio, fu incoronato il 29 agosto 1294 con il nome di Celestino V. Uno dei primi atti ufficiali fu l'emissione della cosiddetta Bolla del Perdono, bolla che elargisce l'indulgenza plenaria a tutti coloro che confessati e pentiti dei propri peccati si rechino nella Basilica di Santa Maria di Collemaggio, nella città dell'Aquila, dai vespri del 28 agosto al tramonto del 29. Fu così istituita la Perdonanza, celebrazione religiosa che anticipò di sei anni il primo Giubileo del 1300, ancora oggi tenuta nel capoluogo abruzzese. In pratica, Celestino V istituì a Collemaggio un prototipo del Giubileo, e forse sia lui sia Bonifacio si ispirarono alla

leggenda della "Indulgenza dei Cent'Anni" di cui si avevano testimonianze risalenti a Innocenzo III[14]. Il nuovo Pontefice si affidò, incondizionatamente, nelle mani di Carlo d'Angiò, nominandolo "maresciallo" del futuro Conclave. Rattificò immediatamente il trattato tra Carlo d'Angiò e Giacomo d'Aragona, mediante il quale fu stabilito che, alla morte di quest'ultimo, la Sicilia sarebbe ritornata agli angioini. Dietro consiglio di Carlo d'Angiò, trasferì la sede della Curia da L'Aquila a Napoli fissando la sua residenza in Castel Nuovo, dove fu allestita una piccola stanza, arredata in modo molto semplice e dove egli si ritirava spesso a pregare e a meditare. Di fatto il Papa era così protetto da Carlo, ma anche suo ostaggio, in quanto molte delle decisioni pontificie erano direttamente influenzate dal re angioino. Probabilmente, nel corso delle sue frequenti meditazioni, dovette pervenire, poco a poco, alla decisione di abbandonare il suo incarico. In ciò fu sostenuto anche dal parere del cardinal Benedetto Caetani, esperto di diritto canonico, il quale riteneva pienamente legittima una rinuncia al pontificato. LUSSURIOSI Minosse: secondo la mitologia classica fu re di Creta, figlio di Zeus e di Europa, famoso per la sua severità e giustizia. Per questo, già in Omero fu ritenuto giudice delle anime nell'Ade, insieme a Eaco e Radamanto. Dante riprende la tradizione virgiliana aggiungendo degli attributi demoniaci: la sua orribilità sta nella coda spropositata e nell'atto del ringhiare, così avviene il processo di assimilazione dei personaggi o mostri dell'antica mitologia classica nella cultura classica da parte del Cristianesimo, già notevole nell'alto Medioevo e iniziato dal tempo della Patristica. Semiramide: (Semiramis lussuriosa) regina assiro-babilonese, moglie del re Nino cui succedette alla sua morte (in battaglia o per uno stratagemma ne causò lei stessa l'incarcerazione e la morte). Famosa per il suo amore incestuoso con il figlio Nynias, e al fine di legittimarlo legalizò attraverso una legge qualsiasi tipo di depravazione. Didone: regina di Cartagine, si uccise con la spada del suo amato Enea che la abbandonò per raggiungere il Lazio. Cleopatra: regina d'Egitto ad Alessandria vissuta tra il 69 e il 30 a.C., intrattenne relazioni con Cesare e Marco Antonio; si uccise con il morso di una biscia dopo la battaglia di Azio per non divenire ornamento del trionfo di Ottaviano. Elena: moglie di Menelao, re di Sparta, fugge con le navi troiane per amore di Paride, figlio di Priamo, re di Troia. Achille: innamorato di Polissena, figlia di Priamo. Tristano: fa parte della tradizione del ciclo arturiano, innamorato di Isotta, futura sposa di suo zio re Marco di Cornovaglia. Venne ucciso dallo stesso. Francesca: Francesca da Polenta, figlia di Guido il Vecchio signore di Ravenna. Nel 1275 sposa il deforme e zoppo Gianciotto Malatesta, figlio di Malatesta da Verrucchio, signore di Rimini. Era un matrimonio stipulato per ragioni politiche; infatti esso sanciva la pace tra le famiglie dei da Polenta e dei Malatesta, ristabilita dopo lunghe lotte e contese tra Ravenna e Rimini. Paolo: Paolo Malatesta, cognato di Francesca e fratello di Gianciotto. L'omicidio di Francesca e Paolo da parte di Gianciotto dovette avvenire dopo il 1282-3, periodo in cui Paolo fu Capitano del popolo di Firenze, o nel 1285 anno in cui Gianciotto divenne podestà di Pesaro. GOLOSI Cerbero: figlio di Tifeo ed Echidna; guardiano demoniaco del terzo cerchio dove stanno i golosi. I suoi latrat...


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