FAr E didattica con gli EAS - rivoltella PDF

Title FAr E didattica con gli EAS - rivoltella
Author Ilaria Ma
Course Metodi della ricerca educativa
Institution Università Cattolica del Sacro Cuore
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fare didattica con gli Eas - Rivoltella...


Description

P.C. Rivoltella

Fare didattica con gli EAS. Episodi di Apprendimento Situato

CAPITOLO PRIMO: La scuola “digitale” 1. Un paesaggio in rapida trasformazione: la Mobile Revolution Negli ultimi dieci anni il mondo della comunicazione è cambiato profondamente. Gli attori di questo cambiamento sono stati soprattutto il Web 2.0 e la diffusione dei dispositivi mobili, in particolare lo smartphone e il tablet. Il Web 2.0 ha spostato in modo deciso la “piattaforma” dell’agire digitale dal software al Web. Il mobile computing è il risultato dell’incontro tra il mondo della telefonia e l’industria dei dati e del trend insito nello sviluppo dell’informatica a produrre dispositivi sempre più piccoli, leggeri e potenti. Nella misura in cui queste trasformazioni investono il modo di “fare significato” e di “fare relazione” delle persone, esse interrogano le scienze umane e sociali. E come sempre è capitato in tempi di transizione, quando una tecnologia a forte impatto si è affacciata alla storia sociale della cultura, il dibattito si è subito polarizzato attorno a utopie e distopie contrapposte: - Su un primo versante stanno i discorsi di chi declina tutto al tempo futuro: la scuola, gli insegnanti, la didattica . L’idea implicita è quella di una discontinuità forte rispetto a un passato che occorre lasciarsi alle spalle dal momento che nuove sono le sfide che spetta alla scuola di affrontare, in primo luogo la necessità di intercettare interessi e bisogni delle nuove generazioni di “nativi digitali” . In ogni caso le scuole del futuro sono sempre quelle degli altri. La retorica nuovista guarda inevitabilmente all’estero e così propone un primo modo di giocare al gioco del “noi e loro”: noi siamo fermi a gesso-e-lavagna, abbiamo edifici scolastici fatiscenti, siamo in ritardo su tutto; loro sono già passati al digitale da un pezzo, hanno scuole che sembrano l’astronave del Capitano Kirk, sono avanti su tutto. Loro sono gli svedesi, i finlandesi, il Regno Unito: sono le nuove mete dei pellegrinaggi scolastici in cui si va a vedere come si fa a fare scuola. - A questo primo discorso risponde quello “millenarista” che di fronte al futuro frena e prova a tutelare i valori che appartengono alla nostra tradizione di scuola: i classici, la preparazione dei nostri studenti, la Cultura. È la seconda versione del gioco del “noi e loro”: noi (adulti) siamo figli della scrittura, siamo logici, capaci di ragionamento argomentativo; loro (i “nativi”) sono figli dei videogiochi e dei cellulari, non sono più capaci di attenzione e concentrazione, sono superficiali, hanno perso la capacità di riflettere e ragionare. I presunti effetti miracolosi della digitalizzazione sugli apprendimenti, così come l’infinito discutere di nativi digitali, sono di fatto un alibi: non vi sono evidenze sperimentali né di quegli effetti, né della presunta mutazione genetica di cui i “nativi” sarebbero testimoni; semplicemente si usano le neuroscienze per legittimare una tesi senza profondità. Il problema vero della scuola, oggi è ma l’incapacità di sintonizzazione socio-culturale della scuola rispetto all’oggi. Non riuscire a fare questo significa, per la scuola, non riuscire più a svolgere la funzione che da sempre ha svolto e, di conseguenza, non potere aver futuro. 2. Il ritardo della scuola: il gap tra formale e informale Ma qual è il compito che la scuola ha sempre assolto e che anche oggi, in tempi di Mobile Revolution, dovrebbe assolvere? Lo possiamo esprimere in tre sintetiche indicazioni2: a) Trasmettere il patrimonio culturale.

b) Formare per il futuro. c ) Accompagnare il percorso di ricerca del senso e di costruzione identitaria dei soggetti. Costruzione identitaria e formazione della cittadinanza sono due aspetti dello stesso fenomeno. Se la trasmissione culturale non tiene più in adeguata considerazione le forme della cultura attuale, se l’insegnante va in crisi proprio nella sua funzione di mediatore dei saperi, anche l’accompagnamento degli studenti in ordine a cittadinanza e costruzione identitaria inevitabilmente si indebolisce. È quanto sembra stia succedendo nel frangente attuale, certo per la co-occorrenza di cause diverse – la perdita di autorità degli insegnanti, la fine della corresponsabilità educativa con le famiglie, la crisi di una professione priva di riconoscimento economico e di status sociale adeguati – ma soprattutto per l’incapacità della scuola in quanto sistema di “leggere” e colmare il gap che, a diversi livelli, si è aperto e va allargandosi tra le sue pratiche e quelle diffuse nell’informale sociale. Vi è anzitutto un participation gap, uno scarto di partecipazione. In un primo senso, per la scuola, questo gap prende corpo nell’accesso diseguale, in larga parte ancora oggi per molti plessi scolastici, alle risorse. Significa che la banda larga, un’adeguata copertura wireless, la disponibilità dei dispositivi sono ancora realtà molto lontane in scuola dai livelli della loro diffusione sociale. Questo comporta di negare a chi non vi ha accesso da casa la possibilità di usufruire delle opportunità dei media digitali, a chi ha già delle competenze di non poterle utilizzare. Ma in un secondo senso il gap è di partecipazione: lo è per il fatto che la cultura della scuola non è una cultura partecipativa, per tradizione. Cosa vuol dire? Vuol dire che mentre le logiche partecipative dei media digitali sono orizzontali e collaborative, le logiche di scuola sono ancora in larga parte improntate alla prestazione individuale: nell’informale sociale “ci si passano” i file, a scuola “non si copia”. A un secondo livello, più alto di quello relativo all’accesso, si colloca il language gap. Si può avere accesso (alla rete, ai media digitali, alle risorse di cui essi sono player) dal punto di vista tecnico ma non possedere gli alfabeti. Le cosiddette competenze informatiche di base sono una competenza - chiave di cittadinanza nella società odierna: occorre che le sviluppino tanto gli studenti che gli insegnanti. Per quanto riguarda i primi occorre superare il luogo comune secondo cui i media digitali sarebbero autoalfabetizzanti, ovvero non richiederebbero nessun intervento di istruzione per essere utilizzati. Usare in senso intuitivo, superficiale e sommario, e usare sfruttando appieno le possibilità dello strumento sono cose molto diverse. La ricerca dice che bambini e adolescenti si fermano spesso al primo tipo di uso: deve essere compito della scuola far crescere la loro competenza sul versante dei linguaggi, cioè nell’ambito della padronanza delle grammatiche interne del “gioco semiotico” di cui sono parte. Ma come può essere in grado la scuola di assolvere a questo compito se gli insegnanti non paiono attrezzati in tal senso? A questo riguardo – quello delle competenze degli insegnanti – è probabile che si debbano prevedere due scenari diversi: da una parte, occorre assicurare la prima alfabetizzazione dei “resistenti” o dei “neofiti”; dall’altra, vanno immaginate strategie di accompagnamento di coloro che nella vita di tutti i giorni sono già “digitali” perché pensino a come usi e competenze del loro tempo libero possano diventare anche uno strumento professionale in classe. Il linguaggio, il controllo tecnico del mezzo e dei suoi alfabeti non sono tutto. Vi sono conoscenze relative al mondo della comunicazione digitale che non si possono ridurre alla padronanza del mezzo. È questo un ulteriore livello al quale registrare il gap, il livello della conoscenza (knowledge gap). Se non so cosa sia Ruzzle, o non conosco Giocatori brutti, se sul mio cellulare non ho scaricato What’s up?, mi manca qualcosa per comprendere i ragazzi che ho in classe. Qui il problema non è né di accesso, né di linguaggio: è di conoscenza. Se l’insegnante non dimostra di essere informato, se non sa nemmeno di cosa si tratti, gli sarà molto difficile legittimarsi, lo guarderanno subito con sospetto. Proprio il tema della conoscenza consente, infine, di comprendere che i media sono sistemi culturali che modellano le rappresentazioni e i valori e costituiscono spazi di organizzazione dei significati e delle pratiche attraverso cui produrli (culture gap). Ruzzle non è solo un’applicazione che consente a due giocatori, in quel momento collegati, di sfidarsi a una gara molto simile allo Scarabeo (vince chi, in un tempo definito, riesce a trovare più parole dotate di senso combinando un set di lettere che il software genera in maniera random ogni volta che si inizia una partita). Ruzzle è oggi (e magari già quando questo libro arriverà in libreria avrà ceduto spazio a un nuovo gioco) un’occasione per “rimorchiare”, un gruppo di affinità, un passatempo, un argomento di discussione, un modo

per essere cool. In altre parole è un dispositivo culturale attorno a cui si organizzano le pratiche di costruzione, circolazione e condivisione dei significati degli adolescenti. Se non lo comprendi sei fuori. Per poter adempiere al proprio mandato in funzione della trasmissione culturale, la scuola deve porsi il problema di questi gap cercando di colmarli sia al livello individuale di singoli insegnanti, sia a livello di sistema. Più nello specifico la scuola deve: - Favorire la ricomposizione dei saperi. Non possono esistere “due culture” una “di scuola” e l’altra “sociale”. - Promuovere l’interattività e lo scambio. La tradizione della più classica pedagogia di scuola è molto lontana da questo modus operandi. - Suscitare non solo domande, ma proposte provocatorie. La nostra società è lo spazio in cui le grandi narrazioni della religione e dell’ideologia hanno fatto il loro tempo. In questo tipo di contesto, il compito dell’insegnante è quello di fornire agli studenti gli strumenti per “chiudere” il senso, piuttosto che aprirlo indefinitamente. In questo senso la domanda non basta più. Occorre affiancarla in una pedagogia del progetto che aiuti lo studente a coinvolgersi nel mondo: questa pedagogia è fatta di proposte provocatorie perché nella nostra società del rischio servono colpi d’ala, serve “prendere il largo”, serve pensare in grande, ben oltre gli schemi minimalisti della socializzazione classica; - Farsi luogo di ricerca culturale, sociale ed etica. Occorre oggi sempre più abbandonare il modello dell’“educazione bancaria”, per ricorrere ovvero di un’educazione pensata come trasferimento fisico della conoscenza. Inoltre occorre evitare che la centratura del lavoro scolastico sia esclusivamente sul cognitivo. I media digitali e sociali oggi sono soprattutto frontiera etica poiché attorno a essi si giocano buona parte delle questioni che riguardano i diritti e le responsabilità di cittadinanza delle persone. Cucire il gap a questo livello significa fare in modo che la scuola possa fornire risposte e supporto ai più giovani su come essere protagonisti della loro cultura; - Fare cultura usando molti linguaggi insieme. L scuola deve uscire dal territorio dell’alfabetismo (leggere e scrivere) per occuparsi degli altri linguaggi con cui giornalmente si è chiamati a interfacciarsi, comunicare, discutere. 3. L’equivoco della lezione digitale La cucitura del gap viene oggi spesso affidata a quella che enfaticamente viene definita “lezione digitale”. Ma cos’è una lezione digitale? Una lezione digitale non può che alludere a una lezione “svolta con il supporto di media digitali”. La proposta è di ripartire dalle tre categorie che Marc Prensky (2010) usa per definire i comportamenti digitali delle persone (stupidità, destrezza e saggezza digitale) trasferendole all’uso delle tecnologie nella didattica così da distinguere la stupidità didattica, dal tecnicismo didattico, dalla saggezza didattica. Quando una didattica è stupida? Quando concepisce la scuola come una polis media-resistente, la organizza come una provincia monomediale, la pensa come strumento di una vera e propria controcultura. Una didattica di questo genere non valorizza le competenze degli studenti, non prepara al futuro: arroccandosi sulle sue pratiche vecchie confonde la salvaguardia della qualità con la sua incapacità di rispondere alle esigenze dell’oggi. Ma una didattica è stupida anche quando confonde l’innovazione con l’aggiornamento tecnologico, agisce vecchie pratiche attraverso nuovi formati, mette al centro lo strumento e non i processi. Questa didattica non coglie il significato del cambiamento, inganna gli studenti, illude i genitori. Quando una didattica è tecni(cisti)ca? Quando assolutizza la funzione dei linguaggi, porta in primo piano le competenze tecnologiche dell’insegnante, adotta con correttezza formati e strumenti contemporanei. Ma anche quando interviene sulle pratiche tradizionali, le modifica e le aggiorna alla luce del nuovo, si pone questioni di efficacia rispetto agli apprendimenti dei soggetti. Questa didattica, pur nella correttezza del suo operare, spaventa i meno esperti, non riesce a vincere le resistenze ma rischia di rinforzarle, può diffondere l’idea che alcune discipline rimangano comunque impermeabili all’operazione, promuove la coabitazione di due culture, la vecchia e la nuova. Come si capisce occorre lavorare in funzione della saggezza. Ma quando una didattica è saggia? Quando favorisce la riconcettualizzazione della tecnologia come risorsa culturale “normale” per la didattica. Ma anche quando riconosce il valore delle competenze che gli studenti sviluppano nell’informale rendendole funzionali agli apprendimenti di scuola. Infine, quando rideclina la propria vocazione strutturale sulla base di quanto stavamo argomentando nel paragrafo precedente.

4. Il lavoro dell’insegnante Siamo in un frangente storico in cui si è esaurita la spinta del formalismo istruzionale da una parte e del costruttivismo democratico dall’altra. Il primo ha sempre risposto al mandato di riproduzione culturale che la società ha fin dalla sua invenzione assegnato alla scuola ma ha ben presto finito per mostrare la corda: rigidità dei programmi, centralità della lezione frontale, incapacità di catturare l’attenzione dell’alunno, scarsa profondità degli apprendimenti, sono alcuni dei limiti che a più riprese tanto la teoria che la pratica di scuola ne hanno evidenziato. D’altra parte, il costruttivismo democratico, se ha scardinato la centralità del libro e del maestro favorendo la collaborazione, la condivisione delle risorse, la costruzione partecipata della conoscenza, ha finito a sua volta per cadere in una serie di equivoci: la relativizzazione dell’importanza del contenuto, la convinzione che sia sufficiente “fare cose” in classe perché la didattica diventi laboratoriale, la configurazione di un sistema di cose in virtù del quale si lascia lo studente ad apprendere da solo. La ricerca didattica sta indicando vie intermedie praticabili tra questi estremi, che siano in grado di mantenere la significatività dell’intervento dell’insegnante e allo stesso tempo di favorire l’apprendimento attivo dello studente. Ma cosa si richiede all’insegnante perché sia possibile approfittare in classe delle opportunità offerte dalle nuove tecnologie e dai media digitali? Ci limitiamo a tre indicazioni: 1. Superare la tentazione dell’arrocco. Nel gioco degli scacchi l’arrocco è la mossa con cui si prova a proteggere il re scambiandolo di posto con la torre. L’insegnante spesso fa altrettanto nei confronti delle tecnologie. Sentendosi sotto attacco, percependo che l’accettazione della sfida del nuovo gli comporterebbe troppa fatica, si mette sulla difensiva. Nel primo caso, proiettivamente, incapacità e scarsa motivazione dell’insegnante vengono rovesciate nella presunta inadeguatezza dell’alunno; nel secondo caso, con uno spostamento, il disagio che l’insegnante vive rispetto ai media viene giustificato come giusto disinteresse in favore dei contenuti e dei temi che veramente hanno valore. Si tratta in entrambi i casi di atteggiamenti che non pagano: non risolvono il problema, ma lo cristallizzano. 2. Cambiare la punteggiatura. Nel linguaggio della pragmatica della comunicazione umana, la punteggiatura è l’insieme di operazioni interpretative che gli interlocutori applicano alla comunicazione dell’altro al fine di comprenderne il senso. Spesso, soprattutto nelle situazioni comunicative problematiche se non addirittura compromesse, è la punteggiatura a decidere del significato delle parole addirittura a prescindere dall’intenzione di chi parla. Ora, nella situazione canonica dell’insegnamento tradizionalmente inteso, l’insegnante punteggia la comunicazione didattica comprendendo la difficoltà dei ragazzi ad apprendere o a sviluppare curiosità e interesse per l’acquisizione del dato culturale come una loro specifica mancanza: ma il problema potrebbero essere le pratiche dell’insegnante. 3. Accettare il cambiamento. Il cambiamento non si produce miracolosamente, magari grazie al “technological push”, alla “spinta” che proviene dall’introduzione della tecnologia. Infatti, la cosa più naturale che può accadere quando questo avviene, non è tanto un cambiamento delle pratiche grazie alla tecnologia, quanto piuttosto un adattamento della tecnologia alle pratiche. In definitiva, lo sforzo che all’insegnante si richiede è uno sforzo di mediazione didattica, ovvero di trasposizione dei propri contenuti disciplinari nei nuovi alfabeti della cultura. Si tratta di un compito che da sempre qualifica il lavoro del docente: occorre non smettere di svolgerlo proprio nel momento in cui ce ne sarebbe maggior bisogno.

CAPITOLO SECONDO Gli Episodi di Apprendimento Situati Genesi e definizione 1. La lezione dei maestri L’autore descrive l’approccio didattico del duo professore di filosofia, che sapeva promuovere veri e propri viaggi di scoperta: a partire dalle letture affidate per casa, veniva richiesto di ricercare, analizzare, riorganizzare i contenuti, confrontandosi solo in un secondo momento con il saper esperto dell’insegnante. Il mio professore di filosofia del liceo aveva costruito la sua didattica su tre capisaldi: la prelettura, la ricerca personale e le interrogazioni programmate. Molto più tardi compresi cosa racchiudesse quel “metodo” in termini di saggezza didattica. Chiedeva a ciascuno di noi di: – Individuare un tema di ricerca ; – Trovare informazioni pertinenti, selezionarle, farne sintesi; – Imparare a organizzare le proprie informazioni ai fini della loro esposizione (lo schema); – Presentare in poco tempo il proprio lavoro, imparando a non perderne sulle parti meno importanti e a dedicarne invece a quelle meritevoli di attenzione;

– Imparare a fare domande, a trovare punti criticabili nel lavoro altrui, a sostenere una discussione argomentando le proprie scelte e controargomentando alle osservazioni altrui; – Leggere un testo, imparare a riconoscere le sue parti poco chiare o criticabili, esprimere in forma di domanda quanto riscontrato. Oggi si direbbe che il mio professore di filosofia promuoveva una “scuola delle competenze”, ovvero che attraverso la sua didattica quel che più gli premeva non era di promuovere da parte nostra l’appropriazione delle informazioni, ma di insegnarci a operare sulla e con la conoscenza in base a un “sapere di azione” fatto di intelligenza situazionale, metacognizione, consapevolezza critica. Il dispositivo-chiave per promuovere questo tipo di apprendimento era a ben vedere, nel suo metodo, il protagonismo dello studente ottenuto attraverso: 1. L’inversione di precedenza tra l’agire suo e dell’insegnante. Se nella tradizione di scuola, prima l’insegnante spiega, cioè favorisce l’accesso al sapere dello studente, e solo dopo questa spiegazione lo studente torna sul manuale e sui suoi appunti per capire se ha capito, nella logica del mio professore occorreva che prima lo studente facesse lo sforzo di confrontarsi con il sapere cercandone in proprio le vie di accesso e solo a questo punto avrebbe avuto senso per l’insegnante “far lezione” a partire dalle difficoltà da lui riscontrate in questo primo sforzo di dissodamento del terreno; 2. L’invito allo studente a svolgere delle attività in proprio. Sono tali la prelettura, la ricerca di informazioni, l’organizzazione in schema delle stesse, la presentazione orale, la discussione critica. In tutti questi casi è lo studente che viene chiamato in gioco, invitato a esporsi senza indicazioni previe, richiesto dello sforzo di inoltrarsi per primo nel campo sconosciuto del sapere; 3. L’intervento dell’insegnante. In questo tipo di scuola...


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