Vedere con gli occhi del cuore - Niccoli PDF

Title Vedere con gli occhi del cuore - Niccoli
Course Metodologia Della Ricerca Storica 
Institution Università degli Studi di Bari Aldo Moro
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VEDERE CON GLI OCCHI DEL CUORE, ALLE ORIGINI DEL POTERE DELLE IMMAGINI- Ottavia Niccoli Premessa Una mattina, passando davanti ad una galleria d’arte ho visto in vetrina un quadro, o meglio, una grande fotografia in bianco e nero dal titolo Visioni. La foto rappresentava un banchetto di verdura carico di melanzane, addossate ad un muro scrostato. Il protagonista era il muro: era tutto coperto di santini e immagini sacri di ogni dimensione; un gran numero di Madonne, un sant’Antonio, un san Giuseppe, un calciatore. Quella fotografia collega immagini sacre, fortemente legate alla quotidianità di chi le ha raccolte, alla visione. Il titolo Visioni esalta la potenza delle immagini. Nella nostra mente le immagini che abbiamo visto si accumulano; ritornano, rielaborate, nei nostri sogni, nelle nostre fantasie, nelle nostre visioni. Si è parlato, per il mondo in cui viviamo di videocrazia, il potere delle rappresentazioni figurate. In Lezioni americane, di Italo Calvino, egli distingue i processi immaginativi che provengono dalla parola da quelli che nascono da ciò che si vede. Questi processi sono comunque fondamentali per arricchire il nostro patrimonio mentale, ma oggi “la memoria è ricoperta da strati di frantumi d’immagini come un deposito di spazzatura, dove è sempre più difficile che una figura tra le tante riesca ad acquistare rilievo”. Questo libro vuole parlare di come, in un periodo storico abbastanza definito, anche se ampio -diciamo fra Trecento e Seicento- la capacità comunicativa delle immagini si sia manifestata in forma esplosiva nelle immagini sacre. Gli anni presi in esame sono quelli che vanno dall’ormai definito tramonto in Italia dell’immagine bizantina sino al periodo critico della controriforma. Capitolo primo: un’apertura del discorso Bernardino da Siena, il nome di Gesù tra le scritture Durante la quaresima del 1424, Bernardino da Siena era a Firenze, e tenne un ciclo di prediche nella chiesa di Santa Croce. Al pubblico che si accalcava mostrò la tavoletta dipinta che teneva in mano: non era una immagine sacra in senso convenzionale, non effigiava la Vergine Maria o la crocefissione o la pietà o altra scena devota; non conteneva alcuna immagine figurata, ma solo tre lettere intrecciate -YHS- che volevano rappresentare il nome di Gesù. Questo “trigramma” che il santo aveva fatto dipingere è in qualche modo il suo emblema e il suo attributo: la tavoletta era pittura e scrittura insieme: le tre lettere dovevano essere dipinte all’interno di un sole d’oro fornito di dodici raggi maggiori e un certo numero di raggi più sottili inframezzati a questi, il tutto su fondo azzurro intenso. Si trattava di una sorta di logo. Quel nome dunque doveva essere rimirato come figura dipinta, pronunciato con devozione e infine meditato. Ecco la spiegazione di Bernardino: tre sono le scritture, una mentale, una verbale, una figurale. L’immagine, la parola verbale e scritta, la meditazione sono dunque tre linguaggi che si sostengono l’un l’altro e che sono interdipendenti. La volontà di Bernardino nel predicare era innanzitutto di essere intero e inteso da tutti, e le parole a volte non bastavano, e così nella sua predicazione egli amava far riferimento a immagini, a quadri e affreschi che i fedeli che lo ascoltavano conoscevano bene. Non che egli fosse il primo che, predicando, utilizzava le immagini che circondavano i fedeli come strumenti didattici:

già nel secolo precedente abbiamo Giordano da Pisa. Ma per Bernardino le immagini erano più che un sussidio occasionale. Egli usava di frequente schemi figurati che volevano aiutare l’ascoltatore a seguirlo e a memorizzare i contenuti della predica; l’immagine descritta e vista, la parola, la riflessione, andavano così di pari passo. La tavoletta del trigramma rappresentava il punto più alto ed efficace di questa triplice espressione, “mentale, verbale, figurale”: era una immagine visiva che suggeriva il ricorso all’invocazione fatta con la voce e, contemporaneamente, al ricordo e alla meditazione intima. Essa voleva essere la rappresentazione evocativa del nome. Da un’altra testimonianza sappiamo che un discepolo di Bernardino in una località della Sicilia aveva fatto dipingere una Madonna che anziché il Bambino teneva sulle ginocchia un cerchio raggiato nel quale era inserita la sigla del nome di Gesù. Addirittura, si diceva che nelle campagne del Montefeltro certi contadini avessero cominciato ad adorare il sole sorgente, che essi identificavano con l’immagine radiante del trigramma. Agli inizi il logo bernardiano aveva incontrato una forte diffidenza e accuse di eresia, e fra esse quella di trascurare il valore salvifico della croce per una nuova teologia. Proprio per evitare questo rischio in tante tavolette era stata inserita l’immagine del Cristo in croce appeso all’asta dell’h centrale. Ma solo dopo pochi decenni il trigramma era stato universalmente accolto. Oggi la raffigurazione bernardiana del nome di Gesù è ovunque presente nei centri storici delle nostre città: proprio per questa presenza onnicomprensiva il simbolo poteva trasformarsi in un oggetto magico dai poteri meramente taumaturgici, lo stesso Bernardino incoraggiava a chiedere per suo mezzo quelle medesime grazie che gli uomini e le donne del suo tempo usavano cercare di ottenere per mezzo di incanti. Non solo ma la sigla del nome di Gesù venne trasformata in medagli o gioiello portati anch’essi a scopo protettivo, come ci mostrano ritratti cinquecenteschi di donne o fanciulli. Perciò non erano mancate alla pratica della devozione al nome di Gesù accuse di eresia e di magia. Ormai abbiamo imparato a comprendere che tutto il mondo comunicativo alla fine del medioevo e agli inizi dell’età moderna era, in qualche modo, un mondo multimediale, proteso nello sforzo di costruire negli utenti delle strutture mentali che si collocavano alle frontiere fra parole e immagini, fra udito e vista. Dunque il nome di Gesù viene visto fisicamente nella tavoletta che ne riproduce il simbolo, e quindi invocato verbalmente e infine meditato; è insomma un segno conosciuto con il cuore prima che letto con l’occhio. Vedere, visione: un atto potente L’articolazione fra simboli, immagini, meditazione, fede è assai complesse e variabile nel tempo, come complesso è in quest’ambito il significato del vedere, della visione. L’icona è infatti una realtà che viene mostrata, che si propone all’osservatore, e dunque che comunica un messaggio; nello stesso tempo però appaga il desiderio dell’esperienza della visione del divino, sia perché in qualche modo la sostituisce, sia perché addirittura la provoca. L’icona porta il soprannaturale sulla terra: se Cristo è icona vivente del Padre, in quanto sua espressione visibile, è lo stesso culto della persona di Cristo che autorizza e rende lecito quello delle icone, che a loro volta la rendono presente e disponibile alla devozione dei fedeli. Le icone bizantine hanno caratteristiche e sottointendono riflessione teoriche indubbiamente del tutto particolari. L’artista o gli artisti (le icone sono spesso opere collettive di una comunità monastica), ha/hanno un unico intento di ripetere fedelmente l’immagine di sempre, e manca completamente l’esigenza della novità e della creatività. Un’icona può essere coperta e quindi

completamente occultata, ma valere egualmente come oggetto nascosto, anzi acquisire in tal modo un significato particolare. Esistono anche casi di icone che vengono ridipinte, ricoperte in tempi diversi di nuovi strati di pittura: questo proprio perché l’essenza cultuale non riguarda l’opera d’arte di per sé, ma la realtà soprannaturale alla quale l’icona vuole alludere. Ora questo genere di considerazioni può essere esteso anche a proposito delle immagini occidentali, e in particolare italiane: l’identità oggetto/soggetto è spesso percepibile anche per esse, non mancano immagini nascoste, chiuse in un tabernacolo o coperte da una cortina o “tenduccia”. Le immagini coperte non richiedevano neppure di essere viste, perché venivano percepite in ogni caso come reali, presenti, attive; la copertura era essa stessa un indizio del loro traboccante potere. esse erano quindi in grado di mostrarsi a loro piacimento. Per questo, a testimonianza della propria devozione, nei primi decenni del Quattrocento santa Francesca Romana vide aprirsi miracolosamente il tabernacolo che racchiudeva l’icona mariana di Santa Maria in Arcoeli, mostrandole il volto della Vergine. Quello dell’immagine che si mostra prodigiosamente alla copertura è del resto un topos di lunga durata. La ridipintura delle immagini venerate è egualmente accertata e percepita come atto devoto da parte di chi lo compie: l’affresco trecentesco della Madonna del Baraccano a Bologna venne ridipinto e arricchito nel 1472 da Francesco del Cossa, come segno di rinnovamento di una devozione cittadina che si sarebbe ulteriormente rinsaldata nei decenni successivi. Si trattava di oggetti di culto che venivano usati in quanto tali, e il cui aspetto veniva quindi alterato quando la loro funzione mutava. Il restauro odierno spesso cancella la complessa storia di questi dipinti, riportandoli all’originale più antico ma privandoci della comprensione delle esperienze diverse attraverso le quali essi sono passati e i diversi usi e pratiche che essi testimoniano. Quei dipinti venivano ammodernati o restaurati in base a concetti integrativi, arricchiti da corone, aureole, cornici. Erano immagini viventi, e dunque soggette a crescita, cura, correzione. Vedere è un atto potente, e le immagini sono o possono essere imagines agentes, capaci di rinsaldare la memoria di conoscenze obsolete e di introdurne di nuove. Si pensi anche alla parola viso, che identifica il volto umano e dunque l’aspetto, la conoscibilità dell’individuo, in qualche modo la sua essenza, con l’organo della vista e la capacità di vedere. David Freedberg ha parlato del “potere delle immagini”, estendendone in molti ambiti le prerogative e sosteneva che il rapporto fra l’occhio umano e le immagini che esso osserva è stato considerato per molti secoli un rapporto diretto e assoluto. Per Tommaso d’Aquino il senso della vista è il più spirituale e fine di tutti i sensi, principio che Lutero sovvertirà successivamente. Quindi tra tardo medioevo e prima età moderna il rapporto tra vedere e credere è un rapporto stretto e quasi identificativo. È significativa una struttura figurativa ripetutamente utilizzata che rappresenta i profeti che guardano (e dunque vedono/prevedono) l’Annunciazione. Così le due grandi ante dell’organo di Loreto vennero decorate nel 1515 dal pittore Antonio da Faenza con due tele che raffiguravano le due parti dello

stesso magnifico palazzo: nella prima l’angelo annunziante scende dall’alto a sinistra verso la Vergine, effigiata nel secondo scomparto a destra; l’evangelista Luca, rappresentato nell’atto di scrivere, volge all’indietro lo sguardo verso l’angelo che lo sovrasta, mentre al suo fianco Isaia, fissando Maria, svolge il rotolo sul quale leggiamo le parole della profezia “Ecce Virgo concipiet…”. Vedere per credere Vedere è dunque necessario, o almeno opportuno, per credere. Aiutare a vedere significa aiutare a credere. La vista era considerata il senso più importante per la conoscnza; era un’idea comunemente diffusa, tanto che l’abbiamo trovata espressa in san Tommaso. C’erano poi tanti atti del vedere e figure speciali che alimentavano la fede in modo primario. Le veroniche (o vere icone) erano immagini che si credeva fossero state generate dal contatto col volto stesso del Cristo, grazie all’atto pietoso di una donna a cui la leggenda aveva appunto dato il nome di Veronica, o che almeno fossero copia di una che avesse tale origine. Esse erano percepite come aventi una duplice finalità: da un lato esse rappresentavano una impronta e quindi una prova della precedente presenza del corpo vivente di Cristo e dall’altro ne erano una raffigurazione; nell’opinione comune guardandole la fede ne era confermata e rafforzata. Ancor di più la contemplazione dell’eucarestia, invitava i fedeli a un duplice sguardo; all’ostia come specie, come apparenza, e al corpo di Cristo come sostanza. Vedere l’ostia significava constatare il mistero della presenza reale, e dunque credere. Guardare il pane consacrato significava guardare Cristo, e dunque assimilarlo. Ad esempio, si credeva che nel momento in cui l’ostia era contemplata il diavolo uscisse dal corpo di ogni peccatore. Capitava così che i partecipanti alla messa stessero sull’uscio per tutta la cerimonia, salvo rientrare in fretta e furia quando sentivano la campanella dell’elevazione. Nelle aree periferiche, soprattutto in quelle montale, il valore della visibilità dell’ostia permaneva anche se essa era soltanto dipinta: così la vediamo elevata dalla mano stessa del Cristo al centro di monumentali raffigurazioni quattrocentesche dell’ultima cena in area lombarda, facendosi quindi oggetto di devozione anche in figura. Insomma, la pietà degli anni che precedono la Riforma era sotto molti aspetti una “pietà dello sguardo”, basata, in generale, sull’idea che ci si potesse appropriare del sacro ed entrare in rapporto con esso semplicemente attraverso la vista. Capitolo secondo: le icone domestiche La devozione insegnata ai bambini Ai primi del Quattrocento, il domenicano Giovanni Dominici formulò un progetto particolareggiato di avviamento dei bambini alla preghiera e alla pietà domestica. L’operetta, intitolata “Regola del governo di cura familiare”, era stata scritta per l’educazione dei figlioletti dell’esiliato fiorentino Antonio Alberti, ed è indirizzata alla loro madre Bartolomena Obizzi. Bartolomea viene avvertita che per avviare i suoi piccoli alla preghiera avrebbe dovuto cominciare dalle immagini: i bambini devono guardare figure di santi bambini per identificarsi con essi. Occorre “avere dipinture in casa di santi fanciulli o vergini giovanette, nelle quali il tuo figliuolo, ancor nelle fascie, si diletti come simile”. I santi con le loro fisionomie e i loro attributi dovevano farsi vivi, amabili e presenti, per poter rendere loro affettuoso omaggio, per chiedere e ottenere. Ciò poteva accadere solo nel contatto con le icone domestiche, con le immagini che ornavano e proteggevano la casa. In effetti i fedeli non erano in grado di vedere e capire molto degli affreschi esposti, nelle chiese spesso buie, e quanto alle pale poste sull’altare maggiore, magari sfolgoranti di colori, ma solo debolmente

illuminati dalle candele, nella loro complessità potevano risultare spesso astruse, non ben comprensibili. In ogni caso erano per lo più il frutto di gesti di magnificenza o di uno scontro di prestigio fra committenti o fra ordini religiosi. Le tavolette di casa consentivano invece un vedere confidenziale e intimo, non erano esibite all’esterno, il loro ruolo era quasi esclusivamente domestico. Spesso tramandate da una generazione all’altra, segnalavano la continuità di una devozione familiare, erano quelle che la nuova madre mostrava al suo bambino secondo l’indicazione del Dominici, perché sin quasi dalla nascita il piccolo vedesse queste immagini, le assorbisse e le facesse sue. Più avanti il Dominici suggerisce che se al bambino che abbia più di sette anni capita di ammalarsi, si confessi e “ dilettisi de suoi compagnuzzi dipinti” cioè le immagini sacre di bambini santi. Tavolette di casa Le immagini sacre erano arredi comuni. Gli oggetti che osserviamo con rispetto e precauzione nei nostri musei erano infatti suppellettili abbastanza usuali nelle case benestanti del tempo, ed erano maneggiati con una disinvoltura assai maggiore di quella che oggi potremmo permetterci o anche solo immaginare. Non erano considerate “opere d’arte” ma “immagini oggetto di devozione”, e trattate come tali. Come ha notato il sociologo Pierre Bourdieu, queste due categorie sono due insiemi che ben di rado mostrano uno spazio di sovrapposizione. Uno dei rari casi in cui i due atteggiamenti -culto e valutazione estetica- coesistono nei riguardi della stessa immagine è costituito dalla “Madonna del Parto” di Piero della Francesca, da sempre venerata nel territorio: la sua duplice natura artistica e cultuale ha causato infatti diversi contrasti, ma di solito la venerazione per un’immagine sacra induce a prescindere da ogni considerazione artistica nei suoi riguardi, e addirittura a cancellare dalla mente dei fedeli ogni valutazione estetica. Ce lo ricorda una recente scoperta che ha trovato largo spazio anche nella cronaca giornalistica: l’attribuzione a Donatello del grande crocefisso ligneo presente nella chiesa dei Servi a Padova era stata dimentica per secoli, molto probabilmente proprio a causa della devozione di cui esso è stato fatto oggetto a seguito di un prodigioso sanguinamento della statua che si sarebbe verificato durante la quaresima del 1512. Nelle immagini domestiche alla figura della Vergine si accompagnava spesso una crocefissione o una Imago pietatis, cioè un Cristo morto a mezzo busto fuori dal sepolcro. A questi temi si aggiungono, ma solo ai primi del Cinquecento, la Natività o altre scene narrative. Alessandra Macinghi, vedova del fuoriuscito fiorentino Matteo Strozzi, scrive al figlio che intende vendere due “panni dipinti” fiamminghi che ha in casa, uno raffigurante l’adorazione dei magi, l’altro un pavone, e aggiunge però di voler conservare un’immagine del Volto santo, “che è una divota figura e bella”. Quest’ultima era forse una di quelle tavolette destinate al culto domestico che raffiguravano il crocefisso lucchese detto appunto Volto santo; oppure ancor più probabilmente, poteva trattarsi di una “vera icona” o “Veronica”, cioè di una rappresentazione del solo volto di Gesù. Uscendo dalla Toscana c’erano “cone di cammara” (cioè icone da tenere nell’intimità delle stanze private, quelle in cui si dormiva) erano presenti nelle case palermitane, talora coperte con un drappo o rinchiuse in un tabernacolo. Le tavolette rappresentavano un pezzo pressoché indispensabile dell’arredo di una casa, da procurarsi in occasione del matrimonio, se erano già parte del corredo della sposa. Erano oggetti che, nella loro modestia, potevano passare rapidamente di moda.

Alcune venivano annerite dal fumo delle candele che venivano accese davanti ad esse per illuminarle e onorarle. Ma un posto si trovava anche per queste immagini ormai sciupate e desuete, che venivano magari spostate nelle stanze di minor uso o comunque meno importanti della casa. Figure di carta Accanto alle tavole e ai “panni dipinti” c’erano poi le stampe. Anche nelle famiglie modeste c’erano le rappresentazioni figurate della vita di Cristo, della Vergine e dei santi. Si trattava di una tecnica di incisione su legno a riproduzione seriale che aveva avuto origine in area tedesca nella seconda metà del 14° secolo, ed era stata ben presto traghettata in Italia ad opera di artigiani tedeschi che si insediarono in particolar modo a Venezia. Incollate alla porta, all’interno delle casse o sulla tastiera del letto, incluse in manoscritti, inchiodate sulla cappa del camino, le immagini a stampa accompagnavano la vita quotidiana dei fedeli e costruivano per essi una idea quanto mai vivida della popolazione soprannaturale. La loro stessa ripetitività contribuiva a fissare e definire l’iconografia dei personaggi e delle scene sacre e a renderla stabile nella mente dei fedeli. Le stampe di maggior dimensione potevano poi essere incollate o inchiodate su tavolette di legno ed acquisire la dignità di icona, sostituendo nelle case, e anche nelle chiese povere, le ancone dipinte. Tale è il caso per esempio della cosiddetta “Madonna del Fuoco di Forlì”. Secondo la tradizione, questa grande silografia colorata raffigurante la Vergine col bambino e, intorno a ess, le scene dell’Annunciazione e diverse figure di santi, era collocata nella scuola tenuta a Forlì da un tal maestro Lombardino Brusi; davati ad essa gli scolari recitavano le loro preghiere. Nella notte del 4 febbraio 1428 un incendio divampò nella casa, che arse per tre giorni e fu completamente distrutta. Tra le macerie si trovò però la tavoletta pressoché intatta, che fu quindi collocata processionalmente nel duomo della città, in quanto considerata miracolosa perché risparmiata dal fuoco. Il ruolo elle stampe a soggetto sacro si accrebbe ancora dopo il concilio di Trento, quando iniziarono a funzionare le scuole di catechi...


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