Filosofia dell\'illuminismo 1 PDF

Title Filosofia dell\'illuminismo 1
Course Pedagogia generale
Institution Università degli Studi di Napoli Federico II
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riassunto dettagliato...


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La filosofia dell’illuminismo – Cassier Quando si cerca di caratterizzare l’epoca dell’illuminismo si mette in risalto l’atteggiamento critico e scettico nei confronti della religione. Questa opinione trova riscontro nella filosofia francese del XVIII secolo – a differenza dell’illuminismo inglese e tedesco. Voltaire afferma il suo grido di battaglia ‘’Schiacciate l’infame’’: la sua lotta è diretta contro la superstizione e la Chiesa, ma non contro la fede e la religione. L’enciclopedismo francese procede in lotta aperta contro la religione e le sue pretese di valore e verità. La religione è intesa in tal senso come ostacolo del progresso intellettuale e come incapace di stabilire una morale e un giusto ordine di vita politico-sociale. Holbach parla di ‘’Politica naturale’’ e la sua accusa contro la religione culmina nell’affermazione che essa, educando l’uomo a temere tiranni invisibili, lo ha reso schiavo difronte ai potenti della terra, soffocando in lui anche la facoltà di reggere la propria sorte. Diderot si scaglia contro il deismo, affermando che il deista ha tagliato una dozzina di teste all’idra della religione, ma della testa rimasta ricresceranno tutte le altre. Diderot invita l’uomo a ritornare alla natura, alle leggi, sopprimendo l’inquietudine della religione. Quindi, il distacco dalla fede rappresenta l’unico mezzo per liberare l’uomo da pregiudizi e schiavitù, per garantirgli la via della vera felicità. Infatti, l’uomo nei secoli risulta sottomesso a tre leggi, ossia al codice della natura, della società e della religione, ciascuna delle quali ostacola le altre, senza mai stabilire un rapporto di concordanza. In questa scelta, l’uomo dell’illuminismo non può essere in forse, ma deve rinunciare ad ogni soccorso dall’altro, conquistando la via della verità con le proprie forze. Tuttavia, risulta inadeguato considerare l’illuminismo come un’epoca avversa alla fede, poiché stabilisce un nuovo ideale di fede e una nuova forma di religione che esso impersona. Goethe vede nel conflitto fra fede e incredulità l’unico tema della storia dell’umanità e giunge alla considerazione che tutte le epoche nelle quali la fede è dominante sono luminose e feconde per i contemporanei e per i posteri in quanto nessuno ama dedicarsi alla conoscenza di ciò che è sterile. Qui regna un rinnovamento che si attende dalla religione stessa. Nell’ambito della filosofia illuministica tedesca si aspira alla motivazione trascendentale della religione che spiega il suo carattere specifico in epoca illuministica, positivo e negativo, la sua fede e la sua incredulità. Quando si riconosce un’interdipendenza tra questi due aspetti, si può intendere l’andamento storico della filosofia religiosa del XVIII secolo. 1) Il dogma del peccato originale e il problema della teodicea I pensatori illuministi ereditarono il problema della religione e dovettero accingersi a risolverlo con nuovi mezzi intellettuali. Il Rinascimento volle arrivare ad una renovatio della religione: esso aspirava ad una religione che affermasse il mondo e lo spirito e che trovasse nella loro elevazione la prova del divino. Così si gettarono le basi del teismo universale che affiora nella teologia umanistica del XVI-XVII secolo: questa teologia ha le sue radici nel pensiero che l’essenza del divino è afferrabile solo nell’insieme dei suoi fenomeni e che ognuno di essi ha un suo valore a sé. L’essere assoluto di Dio non si può esprimere con nessuna forma e nome in quanto inadeguati all’essenza dell’infinito. Siccome ogni forma particolare è lontana dall’essenza dell’assoluto, tutte le sono ugualmente vicine, in quanto ogni espressione sul divino può misurarsi con le altre: esse si equivalgono in quanto non pretendono di indicare l’essenza stessa ma di accennarla solo per similitudine. Questo spirito religioso-umanistico parve raggiungere la sua meta nel XVI secolo, con una religione fondata entro i confini dell’umanità che concepisce il dogma come espressione del nuovo animo religioso. Nicola Cusano vede rappresentata la sua concezione dell’humanitas nell’idea di Cristo che diventa il legame del mondo e la prova della sua interiore unità: essa colma il baratro fra l’infinito e il finito, fra il primo principio creatore e l’essere creato.

L’universalismo religioso può abbracciare anche l’universo delle nuove forme di vita spirituali e plasmarlo partendo da un centro filosofico. Esso accoglie la matematica, la nuova scienza naturale, la cosmologia e disegna un nuovo significato della storia. Tutto ciò sembra raggiunto mediante la religione. Rispetto al problema della conciliazione fra uomo e Dio portato avanti dai filosofi della scolastica, non si attese più la conciliazione per opera della grazia divina, ma essa doveva compiersi in virtù dello sviluppo dello spirito umano. Questa religione umanistica trovò come avversario la Riforma ed ebbe un punto di contatto con il Rinascimento, perché anch’essa assegna un nuovo valore all’al di qua e gli conferisce una nuova sanzione religiosa. Anch’essa chiede che il contenuto di fede sia interiorizzato e spiritualizzato: questa spiritualizzazione non s’arresta all’io, al soggetto religioso, ma afferra anche l’essere del mondo e lo mette in un nuovo rapporto con la certezza del credente con la quale giustificare il mondo. Se l’umanesimo e la Riforma si incontrano sotto quest’aspetto, rimangono distinti per la posizione nei confronti del problema del peccato originale. L’umanesimo cercò sempre di attutire la forza di questo dogma e si avvicinò allo spirito del pelagianesimo in modo da allontanare la tradizione agostiniana. Infatti, il ritorno all’antichità con la dottrina platonica dell’eros e la dottrina stoica dell’autarchia della volontà vengono invocate contro alla concezione agostiniana della radicale corruzione della natura umana e della sua incapacità di ritornare al divino per forza propria. In questo modo, veniva mantenuto l’universalismo religioso a cui l’umanesimo aspirava: soltanto così si motivava una rivelazione che non si esauriva a una singola annunciazione del divino, limitata nel tempo e nello spazio. Contro questo ampliamento si rivolgono varie proteste da parte dei riformatori: nessun attaccamento al mondo deve far vacillare questa fede e la Bibbia, nella sua trascendenza, è l’unico oggetto in cui è celata la certezza della salvazione. La rottura tra umanesimo e Riforma era inevitabile ed avvenne con l’opera di Lutero: De servo arbitrio. La difesa del libero arbitrio da parte di Erasmo, che sosteneva un’autarchia e autonomia della volontà, sembrano a Lutero espressione di scepsi religiosa. Non esiste errore più pericoloso della fede in un’autonomia dell’uomo, infatti dobbiamo distinguere tra la forza di Dio e la nostra, così come tra l’opera di Dio e la nostra poiché su questa distinzione dipende la conoscenza di noi stessi e quella di Dio. La speranza in una religione universale come l’aveva enunciata Cusano nel ‘’De pace fidei’’ era caduta: alla pace religiosa era subentrata la polemica religiosa e da questa lotta parve che la vittoria toccasse al dogmatismo. Le fatiche di pensatori che cercarono di trattenere l’avanzata del puritanesimo e del calvinismo ortodosso non rimasero sterili in quanto spianarono la via all’illuminismo del XVIII secolo. In questo caso, l’obiezione che si suole fare contro l’illuminismo come un’epoca che ha poco apprezzato i meriti del passato, non è esatta. Semler, uno dei capi della teologia illuministica tedesca, dà prova dello spirito critico della storia, che prepara il terreno per lo studio della Bibbia. Nella sua lotta contro l’ortodossia si ricollega ad Erasmo – che definisce il creatore della teologia protestante e sottolinea la questione dell’autonomia alla ragione e alla volontà morale, ma ora vuole darne una risposta indipendente da ogni autorità, esteriore dalla Bibbia e dalla Chiesa. Così viene spezzato la potenza del dogmatismo medievale. Il pensiero del peccato originale è l’avversario contro cui si scaglia la filosofia illuministica, soprattutto quella francese, in particolare ne i ‘’Pensieri’’ di Pascal. Il contenuto della dottrina di Pascal riguarda l’impotenza della ragione, incapace di qualsiasi certezza se si basa soltanto sulle proprie forze e che può arrivare alla verità soltanto rinunciando a sé stessa, assoggettandosi senza riserve alla fede: la necessità di questa sottomissione vuole da lui essere dimostrata, rivolgendosi agli infedeli. La moderna logica analitica di cui si serve Pascal doveva servire a sviluppare il principale quesito della religione – con gli stessi mezzi metodici dei suoi lavori matematici. Così come il fisico, per rispondere al quesito riguardante l’essenza di una determinata forza naturale

non ha a disposizione altro metodo che quello di abbracciare i fenomeni e di consultarli nel loro insieme sistematico, così non si può sciogliere in alcun altro modo nemmeno l’enigma della natura umana: il postulato del ‘’salvare i fenomeni’’ deve valere anche questa volta. Pascal aspetta i suoi avversari, lo scettico e l’incredulo, che rifiutano la soluzione della religione, che non vogliono accettare la dottrina del peccato originale e della doppia natura dell’uomo: devono, quindi, dare un’altra spiegazione più probabile sostituendo la duplicità con l’unità e la discordia con la concordia. L’uomo è una creatura piena di contrasti e contraddizioni, che appena cerca di comprendere la sua posizione nel cosmo, si vede messo fra l’infinito e il nulla in quanto assegnato a entrambi e incapace di appartenere ad uno solo di essi. La sua coscienza gli pone sempre davanti una meta che nel suo essere non può mai raggiungere e la sua esistenza è sballottata in questo circolo fra l’aspirazione a superare sé stesso e la costante ricaduta al di sotto di sé. Si tratta di un contrasto che si presenta in ogni singolo fenomeno della natura umana e al quale non possiamo sottrarci. La duplicità della natura umana si risolve soltanto col mistero del peccato originale che rende palese ciò che era prima impenetrabile. Anche se questa ipotesi rimane un mistero assoluto, rappresenta l’unica chiave che schiude la nostra essenza. La natura umana diventa comprensibile soltanto attraverso l’incomprensibilità: è qui che rispetto alla forma razionale del sapere, si capovolgono tutte le misure. In questa forma logica si fonda una cosa data e conosciuta, cioè l’esistenza in cui viviamo. Questo rivolgimento di tutte le misure razionali, ci insegna che ci troviamo a un limite necessario della conoscenza oggettiva. Non è solo la debolezza della nostra intelligenza che non ci consente di arrivare a una conoscenza adeguata dell’oggetto, ma l’oggetto stesso si oppone ad ogni razionalità. Ogni misura razionale è una misura immanente: la forma della nostra comprensione razionale consiste nel dedurre un’essenza determinare e stabilire la natura di una cosa. Ma qui si tratta di una natura che nega sé stessa, che non appena si tenta di afferrarla, si tramuta in trascendenza e si annulla. Se non si poteva rompere in questo punto il cerchio della trascendenza, se l’uomo continuava ad essere un che di ‘’trascendente sé stesso’’, ogni spiegazione naturale dell’uomo e dell’esistenza era stroncata. La critica dell’opera del Pascal accompagna tutti i periodi dell’attività letteraria di Voltaire. Egli invita a non seguire completamente Pascal fin del centro religioso del suo pensiero. Cerca di trattenerlo, infatti, alla superficie dell’esistenza umana, spiegando che questa superficie basta a se stessa e spiega se stessa. Quelle che Pascal aveva chiamato ‘’contraddizioni della natura umana’’, sono per Voltaire prova della sua ricchezza. Essa non è semplice in quanto si manifesta sempre con nuove possibilità: in questo consiste la sua forza. Per quanto possa apparire disparata, la forza dell’uomo è presente nelle sue azioni che si sospingono da una meta all’altra, il che dimostra la sua intensità. L’uomo è ciò che può e ciò che deve essere nell’espansione e nel libero sviluppo di tutte le forze che sente in sé. Ci troviamo ad un punto in cui non bastava la negazione del mistero del peccato originale, ma ci si aspettava una spiegazione dalla filosofia dell’illuminismo che doveva porre altrove la ragione e l’origine del male, riconoscendo e dimostrando necessarie l’una e l’altra. Questo enigma sussiste anche per Voltaire poiché anche per lui l’esistenza di Dio è una verità dimostrabile – io esisto, dunque esiste un essere necessario ed eterno-. Voltaire aveva rifiutato l’ottimismo come dottrina metafisica, in quanto non vedeva in esso nessuna risposta filosofica e inoltre, riconosceva il male come esistente. Mettendosi dalla parte della scepsi teoretica, si poneva involontariamente accanto a Pascal, il quale sosteneva che la filosofia in quanto tale e la ragione, in quanto si affida a sé stessa e rinuncia a tutti gli appoggi della rivelazione, debbano necessariamente finire nella scepsi. L’atteggiamento di Voltaire difronte al problema del male non deriva mai da una salda dottrina, ma è l’espressione dell’umore con cui egli di volta in volta si accosta al mondo e all’uomo con tutte le sue sfumature. E’ una stolta illusione chiudere gli occhi davanti ai mali che insorgono da ogni parte

contro di noi; ciò che rimane è sperare nella soluzione dell’enigma per ora impenetrabile. Anche il male morale è innegabile in quanto inevitabile così come la natura dell’uomo. Noi non possiamo sottrarci al male né estirparlo, ma dobbiamo lasciare che il mondo fisico e morale vada per la sua strada e organizzarci in esso così da essere attivi verso di esso: da esso deriva ogni felicità della quale l’uomo sia capace. L’incertezza di Voltaire nei confronti del problema della teodicea, la si può osservare nel pensiero del XVIII secolo, sentito ancora come il quesito fondamentale che deve decidere le sorti della metafisica e della religione. Un nuovo motivo sembra impadronirsi del problema, ossia la psicologia empirica che cerca di risolverlo con i propri mezzi, stabilendo una scala a cui ridurre i singoli valori del piacere o del dolore. Unendo le sensazioni piacevoli o dolorose si doveva arrivare ad un’espressione rigorosamente esatta. Mediante una fusione di psicologia e matematica, di osservazione empirica e analisi concettuale sembrava si potesse raggiungere questa meta. Maupertuis tentò una siffatta sintesi, partendo dalla definizione di piacere e dolore, attribuendo ad ognuno un valore quantitativo fisso e rendendoli così aritmeticamente paragonabili tra loro. Come la conoscenza del mondo fisico si basa sulla possibilità di ridurre differenze qualitative che scorgiamo nei fenomeni, a differenze quantitative, così dobbiamo dire per i fenomeni psichici in quanto concettualmente omogenei poiché ognuno possiede una determinata intensità e durata. Stabilendo una relazione tra questi due elementi si potrebbe fare un calcolo della sensazione e del sentimento. Per fare un calcolo degli elementi di piacere o dolore bisogna partire dal fatto che la loro quantità dipende per un verso dalla loro intensità, per l’altro tempo dal tempo, durante il quale sussistono e agiscono nell’anima. Il valore quantitativo delle condizioni felici o infelici della vita può definirsi come il prodotto dell’intensità di piacere e dolore e della durata di entrambi. Maupertuis valuta poi i diversi sistemi etici secondo il loro valore di verità che differiscono solo nel diverso calcolo della felicità. Infatti, tutti vogliono dare istruzioni sul come si possa arrivare al bene supremo, ossia al grande rendimento possibile di felicità nella vita: alcuni lo fanno aumentando i beni, altri allontanando i mali. Gli epicurei tendono ad aumentare la somma del piacere, gli stoici a ridurre il dolore: gli uni insegnano che la meta della vita consiste nel conquistare la felicità, gli altri nell’evitare le sciagure. Ciò porta alla considerazione da parte di Maupertuis secondo la quale nella vita comune la somma dei mali supera sempre quella del bene. Kant criticherà Maupertuis sia per il metodo che per i risultati. Egli dichiara che questo compito non è possibile per l’uomo perché si possono sommare solo le sensazioni omogenee a differenza del sentimento. La vera obiezione contro questo metodo fu fatta nel porre i fondamenti della propria etica, rovesciando così quel modo di trattare il problema della teodicea del XVIII. Ripudiando l’eudemonismo come fondamento dell’etica, l’etica kantiana tolse ogni significato morale o religioso al calcolo del piacere e del dolore: il problema del valore della vita fu considerato sotto un aspetto diverso, ossia del valore e dal fine che noi attribuiamo alla vita stessa. Kant venne anticipato da due grandi pensatori: da una parte abbiamo il problema estetico, dall’altro quello dello Stato e del diritto: -

Shaftesbury getta le basi di una filosofia nella quale l’estetica costituisce la vera chiave del tutto. La questione dell’essenza della verità non si può scindere da quella dell’essenza della bellezza: ogni bellezza è verità e ogni verità può essere concepita soltanto partendo dal senso della bellezza. Ogni realtà partecipa della forma, non è dunque informe ma organizzata e possiede un equilibrio interno, cioè la manifestazione di un fenomeno che contiene la propria origine. Ma il senso non può cogliere questo fenomeno, in un punto dove il senso opera, il regno della forma non si è ancora dischiuso. L’animale non può cogliere la forma in quanto questa conoscenza non deriva dalla forza del desiderio e dell’azione immediata: essa si coglie soltanto mediante la pura intuizione, grazie alla quale l’uomo

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giunge alla forma e in virtù di ciò anche alla sua felicità. Shaftesbury cerca la vera teodicea, la definitiva giustificazione dell’essere e non la trova nella sfera del piacere e del dolore, ma in quella libera concezione interiore e dell’attività secondo un modello puramente spirituale. Rousseau ha di mira il problema del diritto e della società. Egli è il primo che abbia sollevato il problema al di sopra dell’essere individuale e l’abbia rivolto all’essere sociale, dove crede di aver trovato risposta al problema del significato dell’esistenza umana, della sua felicità o miseria. L’idea di diritto e della giustizia sociale rappresenta qui la misura dell’esistenza. L’applicazione di questa misura porta Rousseau ad una soluzione negativa: tutti i beni che l’umanità crede di aver acquistato nel corso della sua evoluzione – tesori del sapere, arte – hanno allontanato la vita dalla sua prima origine piuttosto che arricchirla. Con ciò, Rousseau è vicino a Pascal: per entrambi le ricchezze e il lusso sono un inganno. L’uomo si addentra e si rifugia nella società e nel mondo soltanto perché non vuole rimanere solo con se stesso. Ha paura del riposo, in quanto in esso potrebbe osservare il suo stato di vera povertà interiore e dunque cadere in disperazione. Per Rousseau non vi è un ethos originale ma la società è tenuta insieme dall’egoismo e dalla volontà di prevalere sugli altri: come Pascal, scrive che lo stato presente dell’umanità è di profonda decadenza. Rousseau accetta le considerazioni morali di Pascal ma non quelle religiose. Per lui il peccato originale non ha alcun valore e con ciò si taglia i ponti con la chiesa. La sua opera, l’Emilio, venne condannata dall’arcivescovo di Parigi, in quanto la sua teoria andava contro la Chiesa e la Sacra scrittura, soprattutto per ciò che avevano insegnato circa la natura dell’uomo. Con ciò si apre un dilemma al Rousseau, infatti se si accetta la degenerazione umana si doveva accettare anche la sua causa: il male radicale. Rousseau a questo punto passa a parlare della teoria della natura e dello stato naturale. Noi dobbiamo sempre distinguere i giudizi che rivolgiamo all’essere sociale da quelli che rivolgiamo all’essere naturale. Pascal aveva affermato che le contraddizioni umane sono dovute alla duplicità della sua natura e questa duplicità per il Rousseau è da ricondurre all’esperienza empirica e all’empirica evoluzione. Questa evoluzione spinge l’uomo ad addentrarsi all’interno della società e a sballottarsi in mezzo ai mali. La liberazione non può essere concessa da Dio, è l’uomo che da solo deve giungere alla liberazione. Rousseau dice che l’uomo in natura non partecipa all’antitesi bene-male ma ha un amor di sé che però degenera in amor proprio, che si compiace nell’opprimere gli altr...


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