FRATTURE DEL PIATTO TIBIALE PDF

Title FRATTURE DEL PIATTO TIBIALE
Course ORTOPEDIA
Institution Università degli Studi dell'Aquila
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FRATTURE DEL PIATTO TIBIALE...


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FRATTURE DEL PIATTO TIBIALE Rappresentano l’1% di tutte le fratture, costituiscono l’8% delle fratture nell’anziano. Anche in questo caso abbiamo una distribuzione bimodale e un’eziologia data da traumi ad alta o bassa energia: dai 30 ai 40 anni prevalentemente da traumi ad alta energia, dai 60-70 anni soprattutto nel sesso femminile questo tipo di frattura è più frequente. Il meccanismo traumatico è più spesso diretto, dovuto al contraccolpo del condilo femorale che va a schiacciare con forza sul piatto tibiale provocandone la frattura. Interessano maggiormente (55-70% dei casi) la porzione laterale del piatto tibiale, il piatto mediale è interessato in circa il 20% dei casi mentre nel 10-30% dei casi sono coinvolti entrambi gli emipiatti. L' associazione AO ha creato una classificazione per questo tipo di fratture anche se ad oggi la più utilizzata è la classificazione di Shatzker: una classificazione in 6 gradi, che tiene conto della gravità della frattura (a noi ha detto che non è per gravità ma solo topografica e per il tipo di lesione e anche il prof ci tiene a rimarcare questa cosa): – tipo 1: è la più frequente e tiene conto dell'emipiatto laterale; – tipo 2: è sempre dell’emipiatto laterale, ma concomita con un affossamento dell'emipiatto; abbiamo una superficie articolare che è stata schiacciata dal condilo e la cartilagine è affossata all'interno dell'osso spongioso che forma la metafisi della tibia; – tipo 3: è un puro affossamento ed è difficile da visualizzare in radiografia; – tipo 4: interessa l'emipiatto mediale; – tipo 5: interessa entrambi i piatti; – tipo 6: entrambi i piatti ma con una comminuzione più importante

Soprattutto negli stadi 2 e 3 abbiamo una tipologia di frattura particolare, in cui si ha un affossamento del piatto tibiale esterno a causa del meccanismo traumatico che ha causato la frattura; questo affossamento determinerà quindi una successiva deformità che renderà molto difficile il ripristino della superficie articolare con i mezzi di sintesi poiché sotto rimarrà il vuoto, con conseguente malfunzionamento dell’articolazione. Più semplice e facilmente comprensibile (secondo il Prof.) è la suddivisione delle fratture in: – fratture da separazione; – fratture da compressione. Nella figura 1 abbiamo un’evidente frattura da separazione “pura” (notiamo una linea di frattura e due frammenti ossei che sono mantenuti “in posizione” dagli elementi capsulari e articolari). Nelle figure 2 e 3 abbiamo le fratture da compressione, in cui per un meccanismo traumatico in

valgo (poiché dalla figura è evidente che sono state coinvolte le porzioni laterali del piatto tibiale) si ha una compattazione dell’estremità femorale e della porzione laterale del piatto tibiale; il più delle volte ad andare incontro a frattura è la porzione più prossimale della tibia: il tessuto osseo spugnoso viene compattato e le trabecole ossee collassano; al momento della riduzione della frattura, quello che rimarrà a livello dell’epifisi prossimale della tibia sarà un buco che sarà difficile colmare: l’osso si è compattato e non c’è più. Queste fratture non andranno mai incontro a risoluzione completa e la funzionalità dell’articolazione ne risentirà. Citiamo anche in questo caso la classificazione AO, che tiene in considerazione tutta la tibia prossimale e non solo il piatto tibiale:

Il quadro clinico sarà caratterizzato da dolore, tumefazione, deformità e impotenza funzionale: i sintomi delle fratture sono sempre gli stessi, ma saranno più o meno presenti a seconda della gravità della frattura stessa. Capire il meccanismo traumatico che ha causato la frattura potrebbe essere utile per comprendere la tipologia della frattura ed è fondamentale valutare le condizioni vascolari e neurologiche periferiche e le condizioni della cute e dei tessuti molli anche con cute integra poiché può causare, anche nel giro di poche ore, alterazioni cutanee come vescicole che possono indirizzare verso un trattamento temporaneo con fissatore esterno prima del trattamento chirurgico successivo definitivo. Quando sospettiamo una frattura, l’indagine diagnostica iniziale fondamentale è la radiografia in almeno due proiezioni (antero-posteriore, latero-laterale ed è utile anche quella obliqua, specialmente nelle fratture del piatto tibiale), ma specialmente in questa tipologia di fratture diventa quasi imprescindibile, anche per la pianificazione del successivo intervento, la richiesta di una TC, capace di identificare anche quelle “compressioni” e “collassi” delle trabecole ossee che la sola radiografia non riesce a evidenziare. Tra le complicanze precoci dobbiamo considerare anche la lesione delle strutture legamentose e meniscali dell’articolazione del ginocchio. Da tenere presente la possibile compromissione neurologica a livello del nervo sciatico popliteo esterno, che decorre nei pressi della porzione laterale del piatto tibiale.

Tra le complicanze tardive abbiamo: • • •

l’artrosi secondaria (soprattutto nelle fratture tipo 2 e 3), che necessiterà dell’installazione di una protesi; una deformità assiale in valgo o in varo, nel caso in cui non si riesca a ripristinare la giusta “altezza” del piatto tibiale rispetto ai condili femorali; l’instabilità articolare dovuta alla compromissione delle strutture legamentose, che vengono il più delle volte trattate in un secondo tempo chirurgico, poiché intervenire contemporaneamente sulla frattura e sui legamenti espone al rischio di rigidità postoperatoria.

Anche in questo caso il trattamento conservativo è riservato a fratture minimamente scomposte o totalmente composte o nell’ impossibilità di portare il paziente in sala operatoria per motivi di comorbidità. Questo si attua con l'utilizzo di un apparecchio gessato femoro-podalico mantenendo un certo grado di flessione per 4 settimane e senza dare carico, dopo le 4 settimane andrà fatto un controllo. Nella maggior parte dei casi il trattamento è chirurgico e si propone la ricostruzione della superficie articolare e la mobilizzazione precoce, per lo meno passiva, al fine di recuperare più velocemente e per evitare il rischio di rigidità post-chirurgica. Tutto questo è garantito da una fissazione stabile. Abbiamo la possibilità di utilizzare mezzi di sintesi come viti e placche; per ovviare al problema del “vuoto osseo” che si crea nel caso di fratture da compressione, si possono utilizzare degli innesti di osso da banca (omo- o allo-innesti da cadavere) o autoinnesti (il sito donatore è solitamente la cresta iliaca) o sostituti sintetici dell’osso (non sempre funzionali). L'innesto ha solo lo scopo di supporto al processo di rii-ossificazione, questo, infatti, subirà processi di rimaneggiamento e andrà incontro a necrosi per poter ristabilire una conformazione del piatto tibiale più simile a prima. Nell’immagine si vede un emipiatto tibiale laterale compresso e abbassato, per cui sotto controllo fluoroscopico, attraverso un battitore inserito distalmente, si cerca di riportare a livello la parte di piatto che si è abbassata e la si cerca di stipare con sostituto osseo o con un allotrapianto o con una placca o con delle viti (se il frammento è piuttosto grande e non comminuto).

[Dalle sbobine vecchie, per capirci qualcosa in più: Nell’immagine è visibile un piccolo battitore usato per ristabilire l’altezza del piatto tibiale. Per prima cosa si cerca di ristabilire l’altezza corretta e poi, grazie a innesti o sostituti sintetici, si tenta di ripristinare la rima articolare. Infine si stabilizza il tutto con placche o viti. Al giorno d’oggi le placche in titanio vengono usate soprattutto per le protesi perché si integrano meglio alla struttura ossea, per cui ne risulta difficile la rimozione. Al contrario, i mezzi di sintesi, il cui scopo terapeutico è riconducibile esclusivamente alla guarigione della ferita, sono fatti in acciaio, un materiale non bio-compatibile. Questo non è un problema in quanto, visto il loro scopo, tali materiali sono mantenuti in sede solo per un periodo di tempo limitato.]

Ricordiamo che, anche in questo caso, le fratture che non possiamo trattare possono essere temporaneamente stabilizzate con un fissatore esterno. Molto utile in caso di questo tipo di fratture è l'artroscopia. Soprattutto nelle fratture di pura compressione dove l'articolazione non è compromessa, per vedere la superficie articolare e vedere come viene sollevata la linea articolare e quando diventa congruente. Il trattamento con fissatore esterno viene effettuato quando: 1. le condizioni della cute non permettono un'aggressione chirurgica immediata, 2. per damage control quando è necessario stabilizzare temporaneamente la frattura e trattare qualcos'altro di più urgente, 3. come trattamento definitivo quando le fratture sono talmente comminute che non sono possibili mezzi di sintesi interni poiché i frammenti sarebbero troppo piccoli.

FRATTURE DELLA ROTULA

(Anche in questo caso l’immagine è “fratturata”…) Sono fratture molto frequenti e il meccanismo traumatico è spesso diretto, nella porzione anteriore del ginocchio. Vengono anatomicamente suddivise in: • •

• •

Trasversali: in assoluto le più frequenti; l’apparato estensore tende a dislocare la rotula prossimalmente. Verticali/sagittali (meno frequenti); sono piuttosto difficili da diagnosticare poiché i sintomi non sono evidenti ed è una frattura che non tende a scomporsi per assenza di forze muscolari agenti sui frammenti. Comminute, pluri-frammentate, possono portare a una perdita di sostanza e sono difficili da trattare sia con approccio chirurgico che conservativo; Osteocondrali: caratterizzate dal distacco di piccole porzioni di tessuto osteocondrale a livello della superficie articolare della rotula; possono portare facilmente a un esito artrosico.

E’ importante sottolineare la diagnosi differenziale con la cosiddetta “rotula bipartita”, una variante anatomica solitamente benigna in cui la porzione supero-laterale della rotula non si fonde con il resto dell’osso rotuleo durante la sua formazione. L’analisi radiografica potrebbe trarci in inganno se non si presta attenzione alla morfologia dei margini, più regolare e meno netta nella rotula bipartita. L’anamnesi risulta essere molto utile per la diagnosi differenziale, inoltre spesso la rotula bipartita è bilaterale e quindi richiedere un RX del ginocchio controlaterale ci può tutelare dal punto

di vista medico-legale nel caso di un paziente che si presenta in pronto soccorso dopo un trauma al ginocchio. La frattura di rotula si accompagna spesso a tumefazione, versamento evidente, emartro, ecchimosi, dolore, impotenza dell'apparato estensore soprattutto in quelle trasversali. Le complicazioni precoci comprendono l’esposizione della frattura e quindi il coinvolgimento dei tessuti molli e della cute soprastante; tra le complicazioni tardive, soprattutto nelle fratture pluriframmentate in cui è più difficile ricostituire una superficie articolare “anatomicamente corretta”, si può avere un’artrosi secondaria o una rigidità articolare in flesso-estensione. Il trattamento è raramente incruento, perché si tratta di fratture che tendono a scomporsi; nella maggior parte dei casi vengono trattate quindi chirurgicamente con una sintesi particolare detta “dinamica”. Possono essere effettuate delle sintesi con delle viti, soprattutto nelle fratture verticali, e in casi gravi (fratture molto comminute) si asporta una porzione di rotula (emipatelectomia) o la rotula intera (patelectomia) e fare una sutura tendine con tendine, con conseguente perdita della forza dell’apparato flesso-estensore per cambiamento della meccanica articolare. Il trattamento incruento è effettuato tramite immobilizzazione con una ginocchiera in leggera flessione o ancora meglio in estensione per evitare o limitare la trazione muscolare; è effettuato in pazienti anziani, pazienti con scarsa limitazione funzionale o in fratture con rime di frattura molto composta. Nel caso di frattura osteocondrale è possibile risintetizzare anche artroscopicamente con utilizzo di piccole viti. La sintesi dinamica, attuabile solo in poche sedi anatomiche, viene effettuata tramite una sorta di “tirante”, costituito da mezzi metallici, che impedisce che l’azione muscolare e la flesso-estensione del ginocchio “aprano” questo tipo di frattura.

Osservando le immagini per capire meglio, notiamo che ci troviamo davanti a una frattura trasversale che viene inizialmente ridotta e poi stabilizzata con questi due fili metallici; successivamente viene installato il tirante, che è una sorta di cerchiaggio a forma di 8. Il cerchiaggio posto anteriormente alla rotula fa sì che, quando si flette il ginocchio (sintesi dinamica), si verifichi una compattazione della rotula stessa. La sintesi dinamica richiede una mobilizzazione precoce, ovviamente non eccessiva. Nel caso di una frattura verticale è possibile utilizzare le viti. Nel caso di fratture molto comminute e impossibili da sintetizzare si procede con una patellectomia parziale o completa; questo tipo di intervento porta ad una limitazione funzionale dell'articolazione poiché viene meno l'azione della rotula che scompone i vettori forza dati dai muscoli ed inoltre aumenta il rischio di artrosi.

8-DISTORSIONI La distorsione è un trauma indiretto che sollecita le articolazioni oltre i limiti fisiologici. E’ una condizione molto frequente; non è solo un trauma dello sportivo, ma capita anche alle persone comuni. Colpisce prevalentemente le articolazioni più mobili, come il ginocchio, la caviglia, la spalla, il polso, le metacarpofalangee e le interfalangee. Il meccanismo traumatico può essere diverso e le sollecitazioni possono avvenire su tutti i piani; il meccanismo è sostanzialmente divisibile in due categorie: • •

Puro → quando la sollecitazione avviene su un solo piano (es. sollecitazione latero-laterale o antero-posteriore). Misto → quando la sollecitazione avviene su più piani (es. rotazione o eversione, che coinvolge più piani dello spazio).

Ora cerchiamo di capire la differenza fondamentale che sussiste tra distorsione e lussazione. Durante la distorsione i due capi articolari possono perdere il loro rapporto, ma alla fine del meccanismo traumatico il rapporto tra i due capi torna ad essere congruente. Nella lussazione, invece, la perdita del rapporto articolare si protrae anche dopo la fine del trauma. Dunque, in tutte le distorsioni, alla fine del trauma, i rapporti articolari risultano conservati, invece nella lussazione alla fine dell’evento traumatico i rapporti non sono conservati. In basso ci sono due immagini radiografiche in proiezione antero-posteriore: a sinistra abbiamo un esempio di distorsione (i due capi articolari sono congruenti), mentre a destra uno di lussazione (i rapporti articolari sono persi e vi è una lussazione del femore sulla tibia).

Le distorsioni si classificano in tre gradi in base alle lesioni delle strutture capsulo-legamentose che compongono l’articolazione ed è una classificazione di gravità: • I GRADO → è il grado più semplice; è caratterizzato da uno stiramento delle strutture, senza una loro rottura. Il trauma distorsivo ha prodotto uno stiramento dei legamenti senza una loro rottura; non vi è nessuna lesione delle fibre capsulo-legamentose. Alla risonanza possiamo vedere un po’ di edema, ma in generale la continuità dei tessuti è mantenuta. • II GRADO → la struttura subisce sì una rottura, ma mantiene comunque la propria continuità. Il trauma distorsivo ha prodotto una rottura parziale dei legamenti: vi è una lesione parziale di alcune fibre capsulo-legamentose. Dunque, una parte del tessuto è rotta, ma la parte principale rimane in continuità. • III GRADO → la rottura è completa; la struttura si rompe e i due capi sono beanti. Ovviamente, è il grado più grave. Nell’immagine in basso a destra notiamo una rottura del legamento collaterale mediale del ginocchio.

Da sinistra verso destra notiamo una lesione di primo grado, una di secondo e una di terzo. La sintomatologia classica di tutte le distorsioni, di qualunque distretto, è data da: • Dolore • Tumefazione → può essere più o meno evidente. E’ espressione del versamento articolare: infatti il fenomeno traumatico causa un’infiammazione, che crea un’iperproduzione di liquido sinoviale all’interno dell’articolazione, che si manifesta con il gonfiore. In aggiunta si può anche avere un emartro o delle goccioline lipidiche all’interno dell’articolazione, espressione di una rottura ossea concomitante. • Ecchimosi → non sarà presente in prima istanza, ma comparirà in un secondo momento. E’ espressione secondaria di uno spandimento ematico o di un emartro; questi si riassorbono o si espandono ai tessuti circostanti e con l’ossidazione dell’emoglobina si crea l’ecchimosi, caratterizzata dal classico colore bluastro iniziale. Ce la si aspetta nelle distorsioni dal secondo grado in su; nel primo grado ci si aspetta solamente un versamento articolare modesto, con dolore. • Versamento articolare • Limitazione funzionale L'intensità e la presenza dei sintomi dipende dalla gravità della distorsione, infatti non sempre sono presenti tutti i sintomi in una distorsione. La diagnosi si fa con una serie di indagini che abbiamo a disposizione. Qualsiasi indagine deve essere pensata e mirata; si richiedono prima le indagini più semplici, per arrivare, eventualmente, a indagini più complesse e invasive. Nell’ordine dall’indagine più semplice alla più complessa troviamo: • Radiografia standard → va fatta principalmente per verificare che non ci sia un’eventuale frattura, associata alle lesioni capsulo-legamentose (principalmente nelle distorsioni di secondo e di terzo grado); in caso di frattura, ovviamente, il trattamento cambia. Bisogna ricordare che va sempre fatta in due proiezioni (antero-posteriore e latero-laterale), perché non è detto che la frattura (soprattutto se scomposta) sia visibile in entrambe le proiezioni. A volte la trazione dei legamenti è talmente forte da portare a un distacco dei capi ossei dell'articolazione coinvolta visibile alla radiografia senza però un danno visibile ai legamenti. • Radiografia dinamica → non viene fatta in acuto poiché il paziente presenta dolore ed è riservata solo ad alcuni distretti corporei; è utile soprattutto per valutare dei parametri di stabilità. Bisogna sempre confrontare il lato patologico con il controlaterale. • Ecografia → ci fa vedere bene i tessuti molli e i versamenti articolari; è meno specifica per

le lesioni capsulo-legamentose, soprattutto per quelle più profonde. Le immagini ecografiche sono difficilmente interpretabili e la tecnica è strettamente operatoredipendente, perciò va valutata e studiata nell’esatto momento in cui viene eseguita, non successivamente. • Risonanza magnetica → è il gold standard! Ci fa vedere benissimo le strutture capsulolegamentose, eventuali versamenti e ci dà anche una visione d’insieme dell’osso. Qui la definizione è molto alta e un altro vantaggio è che le immagini sono facilmente interpretabili. • Artroscopia → è riservata soltanto a pochissimi casi e viene effettuata solo quando tutti i precedenti esami non hanno prodotto nessun risultato significativo. Si tratta di un’artroscopia diagnostica, in cui si va a vedere all’interno dell’articolazione se c’è o meno una lesione. Ormai si effettua raramente, data la disponibilità di risonanze magnetiche ad alte Tesla, che hanno una risoluzione molto alta; inoltre, nei pochi casi in cui viene effettuata, si prevede già un intervento chirurgico da attuare simultaneamente. Il trattamento in acuto è peculiare ed è schematizzato dall’acronimo RICE (Rest, Ice, Compression, Elevation): • Rest → il paziente deve stare a riposo per tutta la durata delle indagini. • Ice → è utile, costa poco ed è un buon antiinfiammatorio; non va messo a contatto con la pelle! • Compression → utile a ridurre il gonfiore e l'ematoma post-distorsione poiché se grande può portare a un forte esito cicatriziale soprattutto nei gradi 2 e 3; non va fatta a pressione troppo elevata, perché può esserci un versamento articolare, caso in cui una compressione troppo forte può essere pericolosa. • Elevation → l’arto va tenuto in scarico, per alleviare il gonfiore. Per il trattamento nelle f...


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