Gangster story - analisi tecnica del film PDF

Title Gangster story - analisi tecnica del film
Course Storia e critica del cinema
Institution Università degli Studi di Catania
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analisi tecnica del film ...


Description

Nel periodo storico della Grande Depressione la nazione subiva un ampliamento della forbice già significativa tra ricchi e poverì, con tassi di disoccupazione altissimi e beni primari non sempre a disposizione dei più. Il potere economico era uno spettro non comunicante con i meno abbienti e di conseguenza i banditi giovani (letti anche come futuro) in combutta con le istituzioni rappresentanti le detestate autorità (le forze dell'ordine) erano una delle poche risorse verso un proletariato da fondare. GANGSTER STORY Gangster Story (Bonnie and Clyde) è un film del 1967, diretto da Arthur Penn, che narra la vera storia di Bonnie e Clyde, coppia criminale che ha imperversato negli Stati Uniti nel periodo 1930-1934. Nel 1992 è stato scelto per la conservazione nel National Film [1] Registry della Biblioteca del Congresso degli Stati Uniti. Nel 1998 l'American Film Institute l'ha inserito al ventisettesimo posto della classifica dei migliori cento film statunitensi di tutti i tempi[2], mentre dieci anni dopo, nella lista aggiornata, è sceso al quarantaduesimo posto.[3] Lo stesso istituto l'ha inserito al quinto posto nella categoria gangster.[4] Nell'ambito della storiografia sul cinema e non solo, si è soliti far coincidere Gangster Story di Arthur Penn con l'inizio della New Hollywood, quel movimento di autori che affonda le proprie radici nei Sessanta per poi dominare i Settanta, fino a rendere un nuovo canone l'innovazione, tematica e stilistica, del linguaggio cinematografico. Il lieto fine e il découpage classico cedono il passo a una rivoluzione dei costumi, della sessualità, dei generi cinematografici. Gangster Story lo mette in chiaro sin dalle prime inquadrature. Dallas, 1933: Clyde Barrow, giovane ladro d'auto, e Bonnie Parker, cameriera, si mettono insieme e diventano, con alcuni complici, la banda di rapinatori di banche più famosa d'America. Fu così grande la sua influenza nei vari campi (la moda degli anni '30, la diffusione della violenza nel cinema, uso del rallentatore, ecc.) che risulta difficile valutarne serenamente i valori espressivi. Film capitale nella storia del genere gangsteristico e nell'itinerario di Penn. Immaturi, disadattati, ribelli, Bonnie e Clyde si esprimono con una violenza frenetica e un'esuberanza fisica che è anche un allegro gioco di atti e gesti. In base alla bella sceneggiatura di David Newman e Robert Benton (scritta per F. Truffaut), il regista non segue la tradizione romantica delle coppie ribelli e disperate e non concede ai suoi personaggi la consapevolezza della rivolta: il loro resta gioco, tragico ma gioco. Ebbe 11 nomination agli Oscar vincendone 2 per la fotografia di Burnett Guffey e la caratterista Parsons che interpreta la cognata di Clyde.

-Con Gangster Story Arthur Penn rivoluziona l’industria cinematografica hollywoodiana riscrivendo la Grande Depressione attraverso la lente della nouvelle vague. Si può iniziare a parlare di un film partendo dal suo finale? Nel caso di Gangster Story è quasi d’obbligo. Nelle intenzioni del regista, il grande Arthur Penn, il finale del film doveva infatti essere qualcosa di indimenticabile, unico e mai visto prima: le intenzioni sono state perfettamente onorate al punto di dover iniziare proprio dalla fine, da quella mitragliata di oltre ottanta inquadrature in poco meno di tre minuti, girate da quattro cineprese e in due ciak, e poi montate da Jerry Greenberg Il regista realizza un balletto di morte, una danza macabra suddividendo in quattro punti di vista fondamentali l’imboscata che la polizia mise in atto contro Bonnie Parker e Clyde Borrow interrompendo continuamente l’azione attraverso un uso del montaggio rivoluzionario, folgorante e stordente. Alla fine di quei quasi tre minuti – in cui una raggelante violenza ci mostra il corpo di Bonnie (Faye Dunaway) accasciarsi progressivamente crivellato di colpi e il corpo di Clyde (Warren Beatty) rigirarsi agonizzante a terra sincopato da leggeri ralenti prima della stasi assoluta – Penn non fa poi quello che ci si aspetterebbe in una messa in scena classica, ovvero un totale che ricomponga la segmentazione percettiva, la pioggia di proiettili visivi che hanno colpito anche l’occhio dello spettatore. Nessun totale andrà a mostrarci Bonnie&Clyde assieme ai poliziotti fuoriusciti dai cespugli e nessuna musica si leverà con afflato epico o anche solo drammatico prima del fatidico THE END. Penn, prima di chiudere bruscamente il film, fa “solo” un movimento di macchina elegantissimo, contrappunto alla tempesta mortale che lo ha preceduto come un arpeggio quieto dopo un’indiavolata slavina di note: la macchina da presa è dietro lo sportello aperto dell’auto e, dallo spazio del finestrino abbassato, mostra due uomini di colore accorrere sulla scena del delitto e posizionarsi vicino alla “talpa” che ha di fatto consegnato Bonnie e Clyde alla morte; da qui la cinepresa fa un movimento rotatorio mostrando la fiancata della macchina, bucata dalle pallottole, per poi raggiungere il vetro posteriore in una posizione in cui il quadro è segmentato in tre parti (rispettivamente: il vetro anteriore e i due finestrini dell’auto). Qui la cinepresa si ferma: al centro dell’inquadratura c’è il foro di un proiettile nel vetro posteriore mentre fuori, a ridosso dell’auto, arrivano i poliziotti e lo sceriffo. Gli uomini accorsi e il vecchio contadino complice sono ormai mischiati al riflesso degli alberi che proviene dal vetro anteriore; al centro – quasi coincidente con un foro di proiettile – c’è lo sceriffo munito di mitra assieme al suo vice; sulla destra, all’altezza del finestrino del retro, un altro poliziotto che anziché guardare in basso – come fanno gli altri – i corpi dei morti (che noi non vediamo) guarda nella direzione della macchina da presa. Una ricomposizione del quadro pittorica che nega allo spettatore la scena del massacro per concentrarsi sulla legge che lo ha perpetuato e degradare subito a riflesso la società, la povera gente, posizionandosi all’altezza del foro di un proiettile che ha bucato il vetro dell’auto, il cavallo del XX secolo su cui si muovono i fuorilegge di un western infinito. Dopo una delle sequenze di montaggio più belle della storia del cinema, cui segue una stasi funebre sul mondo esterno dei vivi e non sui cadaveri dei caduti, finisce la storia di Bonnie e Clyde raccontata

da Gangster Story e si apre un’era. L'inaudita violenza dell'epilogo è restituita in una stasi che assembla con esemplare continuità riprese da più angolazioni e rallenty. Nell’ora e cinquanta minuti precedente la morte di Bonnie e Clyde, la rapsodia cinematografica di Gangster Story avanza per sussulti sempre più mortuari e subisce accelerazioni ritmiche progressive. Ma esordisce con un tono straniante – dato che la fine dei personaggi è nota – smagliante e molto simile a quello di una commedia. Una commedia romantica, addirittura, nella prima magnifica sequenza che ci presenta Bonnie, che si dimena annoiata nel suo letto, ci viene presentata da dettagli del volto: la bocca, poi lo sguardo, il volto in primissimo piano, immagini tipiche del cinema autoriale francese, e poi Clyde, che sta pensando probabilmente di rubare una macchina proprio sotto la finestra della ragazza. L’incontro tra i due è leggiadro e le carrellate che accompagnano la loro prima passeggiata ricordano davvero la svagatezza di Jean-Paul Belmondo e Jean Seberg lungo gli Champs-Élysées in Fino all’ultimo respiro. La prima sequenza è una danza di corteggiamento cui fa seguito un riconoscimento psicologico immediato tra i due e lo scorno erotico dell’impotenza di lui, perché i due sono belli e innamorati ma ovviamente non saranno mai una coppia felice. Questi ribelli senza causa sono incompiuti nel desiderio, incrinati nell’animo anche quando ridono e circondati da un mondo misero, impoverito e imbruttito dalla grande crisi che il film racconta per tutto il suo svolgersi ma su cui si sofferma particolarmente in alcuni quadri. Perché, appunto, si può tranquillamente affermare che Gangster Story sia diviso in “quadri” scenici, che non abbia uno sviluppo narrativo cogente, ma un dipanarsi fantasmagorico in cui vengono mostrati elementi e sentimenti che diventano conflitti e duelli mortali. E in cui, da un certo momento in poi, restano come elementi strutturanti soltanto da una parte la legge che vuole catturare Bonnie e Clyde e dall’altra i protagonisti con cui lo spettatore non può far altro che aderire perché Penn ha assunto il loro punto di vista fin dalla prima inquadratura. Fino al primo omicidio del film (che, va detto, non ricalca affatto fedelmente né la storia d’amore né le gesta dei veri Bonnie e Clyde), Gangster Story ha però un tono leggero e sbruffone, seduttivo e affascinante come i suoi due personaggi. La morte irrompe dopo una rapina in banca quando, già in fuga sopra una delle tante automobili rubate, Clyde fredda un cassiere, che è riuscito a raggiungerli, colpendolo in faccia: Penn non lesina nel primo piano dell’ammazzato, come a voler interrompere il limbo in cui lui stesso ha condotto lo spettatore. -- Una prima sequenza di capitale importanza la si ha quando il primo omicidio di Clyde ci viene mostrato crudo e diretto. Il climax è quello allegro di un'automobile imbrigliata in una strettoia proprio nel successivo momento culmine di una rapina: un uomo anziano si aggrappa alla vettura e, inquadrato il suo volto dietro al vetro del finestrino, la pistola di Clyde entra nell'inquadratura. La macchina da presa non stacca sul criminale, ma restando sull'esagitato vecchietto ci mostra lo sparo in pieno volto, e di conseguenza la morte e la notevole quantità di sangue, a distanza ravvicinata. La violenza viene introdotta con la puntualità di una secca e decisa sberla-- Un limbo che ha già portato all’identificazione nei due antieroi condannati al macello che, però, sono anche degli assassini. In seguito a questa prima uccisione, la morte accompagnerà sempre il racconto e, avanzando verso la fine, lo accompagnerà sempre più violentemente. Da riprese morbide

contrassegnate da un montaggio più regolare e classico, il film si fa anche sempre più nervoso e il montaggio sempre più centrale. Quando il fratello di Clyde, Buck (Gene Hackman), entra nella banda criminale assieme alla moglie, le cose precipitano come se la gravità dell’essere in troppi avesse la meglio sulle illusioni. Nonostante questo, il film si prende ancora libertà narrative spiazzanti come la scena – del tutto ininfluente dal punto di vista dell’intreccio – in cui fa il suo esordio cinematografico Gene Wilder e che è un momento di isterico divertimento in una situazione già ampiamente senza via d’uscita. La scena spezza, ancora una volta, il tono emotivo precedente come se il regista volesse alienare lo spettatore dall’inevitabile linea narrativa o non fargli percepire fino in fondo il pesantissimo punto di caduta. Come se ci fosse sempre ancora tempo per morire. Ben prima del finale ci sono due sequenze di pura azione, in cui i nostri rischiano la vita, girate e montate in maniera sontuosa: sono quelle in cui la polizia fa irruzione nei luoghi in cui la banda ha trovato rifugio. La prima è però, ancora una volta, punteggiata da un tocco comico visto che la moglie di Buck (interpretata da Estelle Parsons, che per il film vinse l’Oscar come miglior attrice protagonista) fugge goffamente a piedi in preda a una crisi di nervi, sfidando le pallottole e venendo recuperata dall’auto di Clyde. La seconda sequenza è invece un’esplosione di violenza crudissima che prelude al finale. Prima di arrivarci Penn innesta un momento chiave di abbagliante lirismo nella visita della coppia alla famiglia di Bonnie: anziché la luce naturale, utilizzata prevalentemente per tutti gli esterni giorno, un semplice filtro conduce lo spettatore in una landa onirica sprofondata in un paesaggio sospeso, in un momento irreale che potrebbe essere anche solo sognato (ma non lo è), in cui la fine è già presente e il desiderio di una vita diversa dalla povertà dei genitori e del 25% degli americani disoccupati si infrange per sempre. Passato e futuro, realtà immaginata e vissuta, ricordo e premonizione rendono questa scena il momento più intimo, struggente e centrale del film. Che rivela qui, palesemente, la sua natura romantica. La successiva sequenza della morte di Buck (il secondo grandioso momento d’azione di cui si parlava) torna terrigna, con un montaggio mozzafiato per la sparatoria e l’inseguimento, e si conclude con l’agonia del fratello di Clyde, partendo da un bellissimo campo lungo per terminare su un dettaglio (la mano di Gene Hackman che smette di muoversi). Da questa violenza di vivida bellezza si approda a un’altra sparatoria cui Bonnie e Clyde riescono a fuggire per miracolo trovando veloce riparo tra un gruppo di accampati, di poveracci senza casa, di vittime della Depressione che li ammirano come divi del cinema. La verità è che Gangster Story si muove in maniera incessante tra tonalità narrative, depistando lo spettatore che non si trova di fronte esattamente a un film sui fuorilegge come dovrebbe essere né esattamente a un film d’amore o a un film sociale, e usa il fraseggio del cinema europeo degli anni Sessanta per raccontare una storia americana. Se il vissuto è un riflesso psichico dei personaggi (come nel cinema francese) e il gangsterismo è una scrittura implicita nell’inconscio americano stesso, Penn scardina comunque tutto in continuazione, mescolando le carte e ridandole come se avessero attraversato lo specchio di Alice. Niente è più dove si trovava prima, le cose non hanno più il significato che credevamo avessero, tutto è filtrato da altro ma è totalmente primigenio: lo specchio ha trasformato ogni cosa che è diventata diversamente lirica, diversamente tragica, diversamente romantica e politica. La modernità di questa opera d’arte sta certamente nella collisione tra immaginari a servizio

della vicenda degli amanti-criminali più famosi d’America (forse del mondo), moderni Jesse James, giovani, belli e dannati. Ma il valore seminale del film di per sé non sarebbe sufficiente a renderlo quello che è, ossia un capolavoro di tragico lirismo: nella composizione peculiare di Penn/Beatty/Benton/Newman c’è qualcosa di più sublime e profondo. C’è il desiderio impossibile di dimenticare la morte, di farsene beffa raccontando un’ultima cosa senza valore, di poter deviare il tempo fino all’ultimo. E la volontà di vivere per poter anticipare in una poesia la propria fine. È un film di regia e montaggio Gangster Story, la regia di Penn è talmente vibrante e ricca da far quasi dimenticare tutto quello che era successo prima delle riprese. I futuri sceneggiatori del film, Robert Benton e David Newman in quel periodo Benton era inoltre un grandissimo appassionato della Nouvelle Vague ed era rimasto particolarmente affascinato da Fino all’ultimo respiro e Jules e Jim che diventano per lui i modelli della sceneggiatura di Gangster Story. Il film cambia spesso tono, dal comico al serio, e lo fa da una scena all’altra: una cosa che fino a quel momento avevano fatto quasi solo i registi francesi della Nouvelle Vague, una delle più influenti correnti cinematografiche della storia. Dalla Nouvelle Vague Bonnie and Clyde prese anche un montaggio agitato, dinamico, che si faceva notare. Tanto gli sceneggatori quanto il regista giocano con le possibilità di ribaltare l'immaginario ancestrale del fuorilegge, attuando talvolta un meccanismo degli opposti, capace di rendere al film quella complessità che supera puntualmente la superfice dell'apparenza. Nell'inevitabile confronto con la trasposizione sul grande schermo si denota una fedeltà iconografica di fondo che si sposa con meditate e dunque significative differenze: gli abiti - dal cappello al foulard, dalla giacca alla gonna - sono rimeditati partendo dal materiale originale. Forme, colori, conseguenti movenze e sorrisi ricalcando quelli poveri d'epoca subiscono però una parafrasi temporale credibile anche per ipotetici banditi degli anni 60. Alcune scenografie, i costumi, i volti dei personaggi prendono colori e valenze contemporanee secondo una formula penniana di un nuovo immaginario che sa parlare di stile. E di uno stile che, di conseguenza, sa farsi contenuto. Altra scelta cardine di questa riformulazione risiede nell'utilizzo del colore piuttosto che del bianco e nero che aveva segnato le gesta dei criminali più famosi del cinema. Il montaggio, frutto del lavoro di Dede Allen fu considerato da molti come una grande innovazione in seno al cinema americano, anche in questo caso associato molto al cinema francese di Truffaut e Godard, che in questo film disgrega improvvisamente le sequenze con primi piani improvvisi, spesso con quelli della sensuale Bonnie. La fotografia, la quale si aggiudicò l’oscar, è anch’essa memore della nouvelle vague, del quale ritroviamo molti elementi come gli inseguimenti in automobile, gli improvvisi cambi di angolazione, l’uso del rallenty e tanto altro, molti dei quali sono rintracciabili nella sola scena finale, che non solo elimina l’alone romantico del film, ma esprime un’idea di morte molto scarna, quasi surreale e molto cruenta.

Servirebbe un libro per enumerare gli effetti di Gangster Story per la storia del cinema americano: Disperati in un mondo in rovina, relitti e reietti, Bonnie e Clyde sognano cose impossibili come l’emancipazione dallo stato di indigenza e di necessità, e si ribellano con efferata violenza a una società che del resto non ha alcuna cura degli esseri umani. Diventando miti per una classe di diseredati. Criminali di fronte a istituzioni e leggi senza pietà, i due disseminano terrore in un paesaggio di cittadine tutte uguali, di case abbandonate da cui sono stati cacciati dei poveracci, di spettri esistiti solo per essere seppelliti il prima possibile e rimossi subito da un Paese che non vorrebbe mai più ricordarli. Ma il cui cinema, a metà degli anni Sessanta e dopo la fine degli happy days, è pronto ad accoglierli e raccontarli (nuovamente). Gangster Story è un film di morti, una fotografia di defunti convinti di vivere ancora come nelle novelle gotiche, in fin dei conti un film sulla transitorietà della Storia. Gangster Story è un foto d’epoca replicabile in ogni momento, l’eco del passato un istante dopo che è fluito: “I’ve got the blues so bad” dice Faye Dunaway dopo aver visto sua madre. Se il film parla agli Usa e degli Usa, la sua ossessione è la transitorietà del vivere, l’inconsistenza del presente: solo la morte non si può mostrare e, infatti, non verrà mostrata come dato finito al di là della sua scomposizione percettiva. Questo sentimento radicale ed esistenziale, che fa rientrare il film tra i titoli altamente perturbanti del cinema americano, si sposa inoltre con una rinnovata spinta politica, altrettanto radicale. È probabilmente da questo milieu che nasce qualcosa di unico. Nelle intenzioni di Penn Gangster Story era stretto parente di Furore di John Ford, come chiaramente mostrano i titoli di testa (di Wayne Fitzgerald) in cui il “clic” di un’ipotetica macchina fotografica intervalla scatti della povertà della Grande Depressione con i credits del film. I fantasmi di Walker Evans, di Steinbeck, di Ford aleggiano fin da principio e le mitragliate finali, tanto brutali ed esplicite, sono anche il correlativo di quegli scatti fotografici iniziali perché sono il loro unico compimento sociale. “I’ve got the blues so bad”. Sono così triste. Sto per morire. Stiamo morendo. Nel Texas del 1930, nel Vietnam del 1967, negli Stati Uniti e per gli Stati Uniti. Il film vinse due premi Oscar, uno alla già citata Estelle Parsons e il secondo per la fotografia a Burnett Guffey. Penn non si sentì dell’umore per andare alla cerimonia. Pochi giorni prima avevano sparato a Martin Luther King....


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