Giordano bruno gli eroici furori PDF

Title Giordano bruno gli eroici furori
Author Alessandro Mazzarella
Course Letteratura italiana
Institution Università degli Studi di Napoli Federico II
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riassunto eroici furori giordano bruno...


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Gli Eroici furori sono l’ultimo testo dei sei scritti da Giordano Bruno durante il periodo londinese, ossia: Cena de le Ceneri 1584; De la causa, principio et uno 1584; De l'infinito, universo e mondi 1584; Spaccio della bestia trionfante 1584; Cabala del cavallo pegaseo 1585; De gli eroici furori 1585. Sono il testo più lungo: diviso in due parti ognuna delle quali ha cinque dialoghi in cui s’intrecciano tre modelli letterari: il dialogo filosofico, i versi commentati, e una raccolta di emblemi (in particolare nel V dialogo della I parte, e nel I dialogo della II parte). Innanzitutto è bene sottolineare la falsa indicazione di stampa (Parigi) e di editore (Antonio Baio): ciò era usuale in Inghilterra ed era dovuto al fatto che qui non c’era abilità tipografica per cui spesso si davano indicazioni sbagliate facendo riferimento alla Francia o all’Italia. Il vero editore di Bruno è John Charlewood il quale ha pubblicato tutti gli scritti londinesi eccetto il primo. Destinatario dei Furori è Philip Sidney il quale sostiene le spese di stampa facendosi così padrone di quel testo e assumendosene la responsabilità. Sidney vive in ambienti particolarmente vicini alla regina in quanto nipote di Robert Dudley, rappresentante del partito puritano a corte. E’ inoltre autore di una apologia della poesia (spesso attaccata alla corrente puritana), per cui vediamo che egli difendendo la poesia difende il modo in cui Bruno scrive il suo testo caratterizzato da alternanza di prosa e poesia (prosimetro). Sidney aveva anche interessi nei confronti della lirica petrarchesca ed è proprio in riferimento a quest’ultima che si apre l’argomento che precede i dialoghi e che funge da presentazione dei temi principali. ARGOMENTO DEL NOLANO In linea con la fortuna di Petrarca nel Rinascimento, anche Bruno corrisponde a questo bisogno di riferimento al modello petrarchesco, sebbene il suo non sia un riferimento benevolo; del resto la diffusione di Petrarca nel periodo rinascimentale non è soltanto indice di una ripresa del poeta, ma anche di una sua messa in discussione. Il merito di Petrarca fu quello di aver introdotto una prospettiva umanologica rispetto ad una prospettiva cosmologica indifferenziata; egli introdusse così il tema del sentire umano e quindi il tema amoroso delle passioni. La polemica di Bruno è, a tal proposito, dovuta al fatto che a suo modo di vedere la lirica petrarchesca ispira un sentimento amoroso che non ha nulla a che vedere con l’amore eroico. L’attacco, tuttavia, non è tanto contro Petrarca in sé, quanto piuttosto contro l’uso che è stato fatto del modello petrarchista, un uso lirico che potremmo definire antieroico. Tipico della lirica petrarchesca è, infatti, il riferimento alla donna, alla bellezza femminile che diventa in tal modo qualcosa di effimero e di esteriore che non induce al sentimento eroico, ma ad un sentimento volgare ed ingannevole che dà una specie di bellezza che non è tale. Egli afferma a tal proposito che vuole che le donne siano onorate ed amate, come devono essere amate ed onorate le donne, ossia devono essere amate per quello che sono, per la loro essenza. Ciò, però, non significa che dobbiamo leggere i furori come un testo allegorico per cui ad esempio parlando delle “belle guance” il filosofo intende alludere a qualcosa di soprasensibile. Egli dice pertanto che voleva chiamare questa opera Cantica come il Cantico dei Cantici (o semplicemente Cantico) di Salomone (un testo contenuto nella Bibbia ebraica e cristiana), ma non l’ha fatto per diverse ragioni. Bruno ne specifica soltanto due: innanzitutto dice che non ha chiamato quest’opera Cantica per non rischiare di attribuirle un titolo sacro e soprannaturale in quanto non vuole considerare l’amore eroico come qualcosa di trascendente proveniente dall’alto, perché secondo la sua concezione il divino è immanente alla realtà per cui l’amore eroico è completamente terreno; in secondo luogo perché il Cantico di Salomone si rivolge ad un’entità perfetta che non può valere come soggetto dei Furori che è un soggetto finito, per cui è necessario mantenere una distanza dal perfetto e dal divino. Bruno, dunque, non avrebbe mai potuto imitare il sapiente ebreo e tant’è che rivendica un’identità precisa della sua opera laddove dice che così come i furori di quel sapiente ebreo hanno i propri modi, ordini e titoli, che nessuno ha potuto intendere e potrebbe meglio intendere che lui se fosse presente, così o suoi Cantici (i Furori) hanno il proprio titolo, ordine e modo che nessuno può meglio dichiarare ed intendere che lui medesimo quando non è assente. Seguono a questo punto una serie di omaggi ed in particolare quello alla regina Elisabetta che egli non nomina, ma che chiama Diana e che fa parte di quelle che “non son femine, non son donne, ma in similitudine di quelle son ninfe, son dive, son di sostanza celeste”. Passa poi ad annunciare qual è lo scopo di questa sua opera ed afferma che è quello di apportare contemplazione divina, di mettere avanti agli occhi ed alle orecchie altrui furori non di volgari, ma eroici amori. Emerge così la profonda rivalutazione bruniana del corpo che fa sì che quella l’esperienza del furioso non sia mistica evocazione del

divino in quanto vi sono due sensi fondamentali, il sentire ed il vedere, immagini della volontà e dell’intelletto, che testimoniano come questo amore eroico stia dentro al materiale vitale dell’universo senza bisogno di trascenderlo. Ciò non significa che l’amore eroico sia volgare in quanto esso non si nutre di sentimenti brutali, ma sa partecipare all’oggetto finale (il divino) con un corporeità riabilitata, laddove invece l’amore volgare coincide con il piacere e non coinvolge la corporeità come via d’accesso al vero, bensì fa un uso limitato del corpo, un uso fine a se stesso. Nei Furori, inoltre, il corpo è completamente immerso nella vicissitudine della materia vitale, nelle sue continue trasformazioni, ma è proprio a partire dal flusso illimitato dei mutamenti che l’uomo afferra la verità assoluta; di conseguenza, proprio dalla accidentalità del corpo può scaturire l’esperienza rara ed estrema dell’unità. Da qui l’importanza dell’uso e del valore di contrari che in Bruno sono fonte di unità: ogni contrarietà si riduce ad amicizia per vittoria di uno dei contrari, o per armonia e contemperamento, o per qualche altra ragione di vicissitudine; ogni lite si riduce a concordia, ogni diversità ad unità. PRIMA PARTE PRIMO DIALOGO, INTERLOCUTORI: TANSILLO E CICADA Il primo dialogo si apre con un elogio di coloro che degnamente cantano cose eroiche: le cose eroiche cantate diventano modelli per la filosofia speculativa (intelletto) e morale (volontà), oltre che per la vita civile e politica. Questa naturalità della comunicazione tra poesia e filosofia s’inserisce, però, nella polemica antiaristotelica contro la precettistica, che vorrebbe predisporre rigidamente le condizioni del poetare. La poesia, dice Bruno, è riflesso della vita che si produce infinitamente, e pertanto deve essere libera da regole e fissi schemi gerarchici; solo se svincolata dalla sterile imitazione dei petrarchismi, essa può essere strumento di quella conoscenza che avviene sempre sulla base delle differenze. La pluralità dei tipi di poeti è l’espressione della molteplicità e della contrarietà dei sentimenti e delle invenzioni umane ed il furore, come già detto, si serve dell’energia sprigionata dalla lotta tra sentimenti contrastanti come base di partenza per poi poter giungere all’unità del vero. Per Bruno, dunque, la verità che si esprime attraverso la poesia non imita regole, ma fonda le regole; da qui l’elogio di Omero il quale non fu poeta che pendesse da regole, ma fu causa delle regole stesse le quali sono poi servite a coloro che sono più atti ad imitare che ad inventare. Emerge in tal modo la centralità della poesia come creazione fatta di necessità, fatiche e studi. A questo punto Bruno passa ad esporre i poteri e le prerogative dell’anima umana servendosi in particolare della metafora del capitano che chiama tutti i guerrieri superiori ed inferiori per dare loro ordine e far sì che tutti mirino ad uno stesso fine. Questo capitano è la volontà umana che siede in poppa all’anima e servendosi del timone della ragione riconosce le potenze superiori ed inferiori in continuo contrasto tra di loro, e cerca di dare loro un ordine verso un determinato fine. Frequentissima è, inoltre, l’immagine delle onde o del mare utilizzata per indicare la natura fluida e composita delle passioni, così come è di antichissima origine l’immagine dell’intelletto come capitano delle potenze inferiori che si costituiscono come nemici. Il concetto dello stretto parallelismo che esiste tra il mondo tumultuoso delle passioni e l’immagine dei nemici in perpetua lotta, costituisce, infatti, un tema ampiamente trattato dai neoplatonici. In particolare, le passioni vengono paragonate ad animali in perpetua lotta tra di loro e contro gli uomini, che, in questa linea interpretativa, diventano emblema delle potenze superiori dell’anima. Emerge così un rapporto tra anima e corpo in cui la prima è indipendente dal secondo e superiore ad esso. Per Bruno, inoltre, l’atto dell’intellezione è un esperienza intuitiva, non argomentativa, e ciò spiega la centralità della dimensione interiore a discapito di quella esteriore. L’entusiasmo del furioso punta, dunque, ad una riabilitazione dell’interiorità, tant’è che esso nasce scorgendo in sé il fervore degli affetti invece che nel sole, e l’umore degli occhi invece che nelle piogge. Sole e pioggia sono, infatti, fenomeni esterni, ma solo se facciamo riferimento al nostro proprio calore interno possiamo provare questo amore che appaga, l’amore eroico che, al contrario di quello volgare, non è affatto irrazionale. L’amore eroico, infatti, purifica l’intelletto rendendolo sveglio, studioso e circospetto e promuovendo così un’anima eroica; l’amore volgare, invece, rende gli uomini incapaci di gestire i loro sentimenti e di distinguere ciò che li favorisce da ciò che reca loro danno, facendoli così diventare soggetti di disprezzo, riso e vituperio (disonore, infamia). SECONDO DIALOGO Nel secondo dialogo emerge la centralità dei contrari per il raggiungimento della verità. Bruno afferma, infatti, che nessuna cosa è pura e

schietta, ma tutte le cose constano di contrari; da ciò deriva che se non fosse per l’amaro nelle cose non ci sarebbe neppure il diletto, che la separazione è la causa per cui proviamo piacere nella congiunzione; ed esaminando generalmente, si troverà sempre, che un contrario è ragione per cui l’altro contrario sia bramato e piaccia. Non c’è dunque diletto senza contrarietà. Nessuno si appaga, quindi, del proprio stato, fatta eccezione di qualche stolto o folle che non ha apprensione del suo male, gode del piacere presente, non teme il futuro, ed infine non ha il senso della contrarietà chiamata da Bruno scienza del bene e del male. Emerge così un tema molto presente nella poesia di Campanella, ossia quello della follia salutare che rende gli esseri viventi ciechi di fronte al ciclo dei mutamenti e li spinge a volersi mantenere nel loro stato. La pluralità delle vicende umane e l’alternarsi di gioia e dolore vengono interpretati come la condizione indispensabile perché possa realizzarsi il ciclo del cosmo e si manifesti il fondamento ontologico, positivo, della realtà. Tuttavia, l’uomo e gli altri esseri viventi si dimostrano ciechi di fronte a questa commedia universale, e spinti da questo folle amore di sé cercano in ogni modo di sottrarsi al mutamento, esaltando la parte al di sopra del tutto. Pertanto, la causa per cui l’uomo ama più i beni terreni che il sommo bene è solo l’ignoranza. Da qui la ripresa dell’espressione di Salomone “chi aumenta sapienza, aumenta dolore”. Da ciò deriva il fatto che l’amore eroico è un amore tormentato in quanto è animato allo stesso tempo da ambizione e timore verso la contrarietà. Del resto per Bruno la felicità perfetta non nasce dall’inerzia, ma si congiunge sempre al movimento ed alla vita; proprio per questo il furioso cerca la divinità nello scorrere inesauribile della vicissitudine, rifiutando decisamente ogni forma di quiete e di temperanza. Di conseguenza, l’odio per i mutamenti appare connaturato ad una scelta oziosa che assimila l’uomo agli essere bruti, ai folli, come già detto. Eppure, paradossalmente, quiete e stabilità sono anche attributi propri del sapiente (specie il sapiente stoico), che guarda con distacco il moto della vicissitudine, ponendosi nell’atto della profonda contemplazione in cui l’anima si trova in condizione stazionaria. La stasi accomuna pertanto due atteggiamenti dissimili, ma ugualmente estranei all’esperienza dell’amore eroico. Né la “beatitudine asinina”, né la “condizione stazionaria e quieta” del sapiente offrono accesso alla verità suprema, che si presenta, invece, attraverso la tensione, o, più precisamente, attraverso un tormento senza fine. L’equilibrio conseguito dal virtuoso è quindi sempre legato ad una condizione finita che non consente di procedere oltre l’orizzonte della vanitas; per accostarsi all’infinito occorre dunque far leva sul movimento e sulla tensione dei contrari: in una parola sul vizio. In tal modo Bruno conferma il limite insito nell’etica del sapiente, e imposta un’accezione originale del furioso intenso non tanto come virtù, quanto piuttosto come vizio, anzi più precisamente come doppio vizio. Laddove, infatti, la virtù si tiene nel mezzo cercando di contenere i contrari, il furioso intende vivere la contrarietà in una condizione viziosa in quanto non vuole stare distanti dagli estremi, ma vuole assumerli su di sé. TERZO DIALOGO L’argomento a cui è dedicato il terzo dialogo è la funzione della volontà; esso introduce tre specie di furori: l’amore per la vita dedita al piacere; l’amore per la vita attiva; l’amore per la vita contemplativa. Il primo è un amore volgare, mentre gli altri due ci fanno attingere ad una condizione superiore, sebbene soltanto il terzo sia il furore eroico vero e proprio. L’amore per la vita attiva riguarda infatti quegli entusiasti che conoscono per un sapienza che non proviene da loro, che sono quindi impregnati di una sapienza esterna e giungono ad una dimensione irrazionale di perdita di sé per far spazio alla divinità. L’amore per la vita contemplativa, invece, riguarda coloro che non ricevono la sapienza dall’esterno, ma sono avvezzi allo studio in virtù di un’ansia interna e dell’amore per la verità. Nei Furori è infatti determinante il peso dell’impegno inesauribile richiesto a quanti ricercano la verità, tant’è vero che il nodo cruciale dell’opera intreccia l’operazione intellettuale e la volontà. Irrompe così il grande tema del desiderare che Bruno continuamente pone a sigillo dell’intendere; l’entusiasmo dell’eroe non è infatti irrazionale, ma è caratterizzato da una lucida consapevolezza intellettuale che nasce da uno stimolo interiore. Il furore viene così presentato come un impeto interiore acceso dal sole intelligenziale che da’ valore all’anima. Bruno afferma, inoltre, che tutti gli amori (ammesso che essi siano eroici e non puri animali) hanno per oggetto la divinità, tendono alla divina bellezza la quale prima si comunica all’anime e per mezzo di queste ai corpi. Il corpo bello è quindi indice della bellezza dello spirito. La bellezza del corpo, tuttavia, è capace di accendere il fuoco, ma non di legare; l’amore eroico, infatti, non crea legami perché altrimenti porterebbe soltanto a non voler lasciar andare l’amante. Esso deve

essere qualcosa in più e tant’è vero che Bruno scrive “bello quel fuoco che m’accese, perché ancor fu nobile il laccio che m’annodava”. Il corpo non è dunque sufficiente per poter accedere all’oggetto finale il quale può, infatti, essere conosciuto soltanto indirettamente e in qualche similitudine derivante non dalla bellezza corporea per virtù del senso, ma dalla mente per virtù dell’intelletto. Emerge qui la polemica con la definizione aristotelica del corpo come luogo dell’anima in quanto Bruno ritiene che l’anima non è nel corpo localmente, ma come forma intrinseca e formatore estrinseco, come quella che figura il componente da dentro e da fuori. Il corpo dunque è nell’anima, e l’anima nella mente, dove la mente o è Dio, o è in Dio per mezzo dell’operazione intellettuale. L’amore eroico mira dunque a sì alta impresa la quale si configura come un percorso infinito e per avere consapevolezza del quale “basta che tutti corrano” scrive Bruno, ossia che ognuno faccia il possibile in quanto l’eroe furioso preferisce cadere nelle alte imprese, che eccellere in quelle meno nobili e basse. Riprendendo il tema pitagorico ed orfico del corpo come prigione dell’anima, Cicada chiede a Tansillo che relazione c’è tra la nobiltà d’animo e l’imperfezione del corpo. Tansillo risponde che nobiltà d’animo e imperfezione del corpo sono due cose distinte, ma non separate in quanto il vitale della natura materia è insieme di perfezione ed imperfezioni apparenti che si trasformano in perfezione. Tutto è un circolo senza un punto fisso caratterizzato da un convertirsi al meglio, ma anche da una continua vicissitudine associata all’immagine della ruota delle metamorfosi che ricorda molto la ruota della Fortuna della Consolatio philosophiae boeziana. QUARTO DIALOGO Il quarto dialogo, diviso in sette articoli, ospita l'episodio del mito di Atteone (presente in Boccaccio), uno dei punti centrali del testo. Il giovane cacciatore, Atteone, come Tansillo espone in versi nel primo articolo, durante la caccia si imbatte nell'immagine della dea Diana: in quel momento egli si tramuta in cervo e i suoi cani, non riconoscendolo lo assalgono. Tansillo spiega quindi a Cicada che Atteone è il furioso che cerca la «beltà divina», la sapienza. Costui slaccia i mastini (più forti) simbolo della volontà, e i veltri (più veloci) simbolo dell’intelletto che precede la volontà la quale, però, è più forte e perciò spinge avanti l’intelletto. Nel secondo articolo Tansillo chiarisce che guida del cacciatore è «un dio che da chi nulla vede | è detto cieco»: l'amore. Bruno rappresenta così in modo icastico il primato della volontà in quanto è la vivacità del desiderio che consente all’uomo di intrecciare nuovamente i fili interrotti del rapporto con la verità divina: è solo grazie ai veloci mastini della volontà che Atteone può in ultimo trasformarsi e convertirsi nella verità che sta inseguendo. Atteone che parte per la caccia e finisce dilaniato dai suoi stessi cani rappresenta infattiil destino autentico del furioso, che tale diventa solo quando diviene preda e meta dei propri pensieri, rinascendo così a una nuova vita. Atteone però finisce sbranato perché era stato tramutato in quel che stava cercando, un animale da cacciare: ciò che il furioso cerca è sé stesso, nel senso che quel sapere infinito che egli persegue è già dentro di sé, come il divino, e Atteone ne diviene consapevole non appena ha la visione dell'immagine riflessa della dea della caccia sulla superficie dell'acqua. La relazione con il vero, infatti, non è mai diretta, ma sempre specchiata: Bruno spiega che Diana è la luce che «splende nelle tenebre», ma non la luce assoluta, Apollo, inaccessibile all'uomo. Pur operando nel dominio dell'ombra, dunque il furioso può se non conoscere, almeno intuire il divino che lo anima, e quando questa intuizione è realmente profonda e sentita, egli si trasforma finalmente in ciò che cerca, si identifica col divino. In questo stato di unione egli ha la visione dell'unità delle cose, che non è dunque l'assoluto ma la sua immagine nel mondo: quello che cercava non gli può appartenere, ma il vero ingloba colui che cerca: c’è un forte movimento interiore di conversione del tutto in uno e dell’uno in tutto. La morte di Atteone diventa così simbolo della fine della vita del mondo dei sensi, pazzo e cieco, e dell’inizio della vera vita, di quella del mondo intellettuale dove c’è congiunzione tra divino ed umano. I contrari agiscono in unità e solo l’amore eroico coglie questa unità in quanto i pensieri di Atteone diventano preda del tutto che lo ingloba e che è la vera vita (diventar preda = rientrare nel tutto). Come abbiamo detto, però, la visione della verità non sarà mai diretta e in quanto tale essa si presenta come un percorso infinito in quanto l’infinito non può darsi come finito, ma è naturale che venga infi...


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