La badessa di Castro PDF

Title La badessa di Castro
Course Civiltà e lingue straniere moderne
Institution Università degli Studi di Parma
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Riassunto la badessa di castro...


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La badessa di Castro Storia di uno scandalo Riassunto

Prologo Nel 1859, si era tenuta a Londra una grande asta da Sotheby & Wilkinson nella quale era stata messa in vendita la collezione di manoscritti del patriota italiano (vissuto a lungo in Francia) Guglielmo Libri ed era venuto «alla luce» un codice di 253 fogli intitolato Inquisitionis Processus contra Elenam Orsini Abbatissam de Castro, pro fornicatione cum Episcopo Castrensi relativo all’autentico processo che, tra il 1573 e il 1574, aveva trattato questo caso scabroso. Il codice, quindi, arrivò a Londra nel 1859 all’interno della collezione del bibliofilo Guglielmo Libri, un ex patriota italiano che aveva vissuto per molto tempo in Francia. Accusato di aver sottratto illecitamente centinaia di libri e codici manoscritti, Libri fuggì a Londra, dove riuscì a rifarsi una reputazione nel mercato antiquario inglese. A causa di sopraggiunti problemi economici, Libri fu costretto a mettere all’asta una parte della sua collezione, curando personalmente il catalogo della vendita. L’asta ebbe un discreto clamore: collezionisti, librai e agenti letterari giunsero da tutta Europa per accaparrarsi una parte della collezione. Tra questi, era presente anche un agente della British Library, che riuscì ad aggiudicarsi il codice del processo di Castro. Nel catalogo, il codice era stato descritto da Libri come il manoscritto originale del processo intentato dal tribunale del Sant’Uffizio tra il 1573 e il 1574 contro la badessa del monastero di Castro, Elena Orsini, accusata di aver intrattenuto rapporti illeciti con il vescovo di quella città, Francesco Cittadini. Libri concluse la propria presentazione descrivendo il manoscritto come la fonte di ispirazione di un recente romanzo francese, alludendo alla pubblicazione de La Badessa di Castro di Stendhal. La presenza della formula Inquisitionis Processus nel titolo presentato da Libri, il riferimento alla pubblicazione di Stendhal e la presentazione del codice come un “manoscritto ritrovato”, erano tutti elementi di forte attrazione per gli amanti del lato oscuro del Cinquecento italiano, della Renaissance corrotta e dei pastiches letterari a «effetto Scott». Prima di tutto non si tratta di un processo del Sant’Uffizio, bensì di un altro tribunale, quello romano dell’Auditor Camerae. Il manoscritto si trovava nell’archivio di quel tribunale e fu successivamente rubato. Siamo nella seconda metà del XVI secolo: la nobile Porzia, figlia del conte Giovan Francesco Orsini e cugina della famiglia Farnese, entrò in convento nel 1557 e prese i voti l’anno successivo, adottando il nome di Elena. È l’inizio della drammatica vicenda che, circa un ventennio dopo, avrebbe coinvolto la giovane Orsini: una relazione proibita, la nascita di un bambino, lo scandalo, gli interrogatori e un processo, i cui atti originali degli interrogatori ispirarono, un secolo dopo, una serie di cronache anonime, circolate dopo la demolizione della città di Castro nel 1649 per ordine di papa Innocenzo X. Fu, probabilmente, una di queste cronache a finire nelle mani dello scrittore francese Marie-Henri Beyle, noto come Stendhal, durante il suo soggiorno romano nel 1833. Successivamente, la lettura della cronaca avrebbe ispirato il noto romanzo storico di Stendhal, L’Abbesse de Castro, pubblicato nel 1839 per la “Revue des Deux Mondes” ed entrato a far parte della postuma raccolta Cronache italiane. Stendhal presentò la vicenda come una traduzione tratta da tre manoscritti antichi: uno “fiorentino” in cui si narrerebbero le vicende precedenti alla monacazione di Elena; uno “romano” che narrava gli eventi accaduti all’interno del monastero di Castro; infine, gli “otto volumi in-folio” contenenti gli atti del processo, ritrovati in una biblioteca di cui l’autore non poteva rendere pubblico il nome. Oggi è noto che il contenuto della prefazione di Stendhal fu solo un espediente letterario tipico del romanzo storico ottocentesco, che utilizza il motivo ricorrente del “manoscritto ritrovato” per dare alla storia un’illusione di verità. In realtà, tra questi manoscritti, solo uno è stato ritenuto veritiero

dalla critica: il manoscritto “romano”, identificato con una piccola cronaca seicentesca intitolata Successo occorso in Castro città del duca di Parma nel monastero della Visitazione fra l’abbadessa del medesmo e il vescovo di detta città, trovata da Stendhal nella biblioteca di palazzo Caetani. È probabile che anche gli altri due manoscritti citati dall’autore, quello “fiorentino” e gli “otto volumi in-folio”, possano essere stati ispirati sempre dalla lettura del Successo occorso. Si tratta, dunque, di una storia ampiamente circolata già prima dell’epoca di Stendhal. I luoghi e le persone Cap.1 Una città imperfetta Castro era la capitale di un ducato, il ducato di Castro, creato da Paolo III Farnese nel 1537 per il figlio Pier Luigi. Castro si trovava tra l’Aurelia e la Cassia Cimina, al confine tra il granducato di toscana e lo Stato Pontificio. Era il luogo ideale per una capitale granducato poiché si trovava in un punto molto alto, in una rupe di tufo, quindi una vera e propria propria fortezza naturale, con a lato I due affluenti della Fiora, il fiume più importante della zona. La posizione molto alta, quindi, permetteva di vedere E dominare il territorio, ma allo stesso tempo la rendeva invisibile. Paolo III aveva cominciato una gigantesca operazione di investimento Sulla città. Egli infatti aveva chiamato uno degli architetti più importanti dell’epoca, Antonio da Sangallo. L’idea era quella di creare una specie di Pienza, la città ideale che il pontefice Pio II, al secolo Enea Silvio Piccolomini, aveva fatto edificare vicino Siena. Il territorio era un territorio molto importante, molto ricco, la terra era rigogliosa, si cacciava, vi erano molte coltivazioni E la transumanza degli animali che garantiva una serie di introiti. Per i Farnese era dunque una riserva economica molto importante, che permise alla famiglia di creare la bellezza di Parma. Successivamente I Farnese avevano un po’ abbandonato Castro, un po’ perché avevano investito altrove, un po’ perché a Castro si moriva, Si diceva che c’era l’aria cattiva, la malaria. L’ investitura di Pierluigi a duca di Parma E piacenza nel 1545 e la morte, l’anno successivo dell’architetto Antonio da Sangallo, lasciarono la città imperfetta. Buona parte dei lavori non fu portata a termine. Dopo una serie di vicende, la cura del Ducato fu affidata al cardinale Alessandro Farnese che costituì il governo provvisorio con la madre, la duchessa Girolama. Castro fu demolita e rasa al suolo nel 1649 perché i Farnese nel corso del seicento si erano enormemente indebitati. Il duca Ranuccio I aveva fatto un’ipoteca su tutto lo Stato per pagare i debiti. Questa città così ricca e fertile faceva gola a molti, tra cui i Barberini. Il primo a fare guerra ai Farnese per conquistare Castro fu Urbano VIII Barberini, nel 1641, ma il suo tentativo fu reso vano. I Farnese, infatti, poterono contare sull’appoggio di Venezia, Modena, ed il granducato di Toscana. Pochi anni dopo, nel 1649, papa Innocenzo X Pamphili, decise di muovere guerra a Castro. Il casus belli fu l’uccisione del nuovo vescovo di Castro, Cristoforo Giarda, il cui mandante fu ritenuto il duca Ranuccio II Farnese (non consultato per la scelta del vescovo). La città era già stata fortificata dopo il primo assedio. Tutti gli abitanti della città E dei dintorni si ripararono nella porta Lamberta e nella porta di castello. Dopo l’assedio, Castro ad un certo punto capitolò. Tutti credevano che il papa si sarebbe accontentato di assediarla e conquistarla, quando improvvisamente arrivò l’ordine demolizione. Il papa ordinò che fossero gli stessi abitanti a distruggerla ma molti scapparono e altri si rifiutarono, quindi furono assoldati gli operai. Si racconta che dal campanile del Duomo di San Savino, luogo più alto della città, fu visto il parroco sparare ai soldati del papa. Si dice inoltre che gli operai chiamati a distruggere la città non siano riusciti a demolire la cappella che si trovano il santuario del Santissimo crocifisso, come se una forza misteriosa paralizzò le loro braccia. La porta più importante della città ed anche la più bassa era la porta Lamberta. Di fronte alla porta Lamberta c’era un piccolo convento, il convento della visitazione. Non più di 300 passi separavano il convento dal vescovado, che si trovava di fronte al duomo di San Savino. Si dice che tra il convento e il vescovado si creò una strana relazione. Le cronache racconto che uno strano viavai di cose, Persone, e oggetti veniva dal vescovado al convento E viceversa. Il vescovo mandava servitori con ceste piene di selvaggina e frutti. Dal convento ripartivano ceste piene di dolci, ciambelle,

“zuccari et altre cose da monache”. Il paese cominciò a dire che c’è una strana relazione di oggetti e persone tra il vescovo della città e La badessa del convento della visitazione. Cap.2 Intollerabil dolore Porzia Orsini(questo è il vero nome della badessa) entrata in convento nel 1557, prese i voti l’anno successivo con il nome di Elena. Non sappiamo quanti anni avesse, ma è presumibile che fosse ancora molto giovane. Era figlia di Giovan Francesco Orsini, conte di Pitigliano, e di Rosata Vanni. Porzia aveva molti fratelli e fratellastri, inoltre si suppone dovesse essere la maggiore tra le femmine. Non sappiamo Dove fosse quando, L’11 giugno del 1547, il palazzo degli Orsini a Pitigliano fu messo a ferro e fuoco dai vassalli del conte Giovan Francesco, istigati dal figlio Niccolò. Porzia quindi crebbe in un clima di sopraffazione E di violenza. Si sarebbe probabilmente dovuta sposare con un Colonna, ma sia i fratelli sia la zia Gerolama (sorella del padre di Porzia e moglie di Paolo III Farnese) glielo impedirono, in quanto i Colonna erano ritenuti bene. La figura della zia fu una figura molto importante per Porzia. Infatti fu proprio la stessa zia a scegliere per Porzia la vita monacale. La sua presenza avrebbe dato lustro al nuovo monastero fondato a Viterbo da Gerolama. Per evitare commistioni pericolose per l’osservanza della clausura, il versamento di una dote diventò obbligatorio accentuando il carattere elitario monastero. La cerimonia solenne di vestizione dell’abito cistercense fu celebrata il 1 gennaio del 1558 a Viterbo. Non sappiamo con quale stato d’animo Porzia entrò quando prese voti. Molto probabilmente fu presa da sentimenti di frustrazione soprattutto quando, Nel 1563, fu ribadito dal concilio tridentino l’obbligo della clausura. Quando Porzia entrò in convento, la clausura veniva violata costantemente. Ciò che contava prima di tutto era lo status di provenienza che dava accesso alle cariche più ambite, come per esempio la badessa. Quest’ultima avevo inoltre il compito di curare gli affari economici del monastero. Era una posizione di potere e di prestigio che se da un lato permettevano alle famiglie esercitare il controllo sulle istituzioni, Dall’altro rendevano meno amaro l’isolamento attraverso una serie di vantaggi. Porzia seguì il cursus honorum previsto per lei. Nel 1562 Venne eletta priora e nel 1565 divenne badessa, incarico che rappresentava il punto di arrivo della strategia di Gerolama. La tranquilla vita nel convento fu turbata dalla decisione di Gerolama di spostare il monastero a Castro. Quando arrivò a Castro, Elena trovò un luogo tutt’altro che adatto alla sua condizione di monaca di clausura. Più che un monastero era ancora un agglomerato di quattro casette, con tante finestre senza grate molti punti di contatto con il mondo esterno. La vita di Porzia corrispondeva esattamente allo stereotipo della monaca schiacciata dal dispotismo di strategie familiari opprimenti, In questo caso della zia Gerolama. Elena, essendo nipote di Gerolama, era dunque prima cugina del duca Ottavio e del fratello cardinale Alessandro. Fu proprio lo stretto rapporto di parentela con i signori di Castro a determinare il primo incontro tra la badessa E il vescovo. Era l’inverno del 1569 e il vescovo Francesco Cittadini era appena arrivato a Castro. La duchessa ricevette il nuovo vescovo presentandolo non soltanto ai nobili del luogo ma anche alla badessa. Non sappiamo cosa si dissero ma sappiamo che la badessa fu chiamata a baciargli le mani. Gesto strano visto che il monastero era esente da qualsiasi giurisdizione e che l’unica autorità era quella del cardinal protettore. Al momento dell’incontro il cardinal Ranuccio era morto ed erano da poco entrate in vigore le norme del Concilio tridentino, che prevedevano che i vescovi avrebbero dovuto sovrintendere alla clausura anche nei monasteri esenti. Successivamente Gerolama si ammalò gravemente e per la badessa si prospettava il baratro. In una lettera al cardinale, Elena esprime il sentimento di gratitudine E di attaccamento per la zia. La morte della zia infatti potevo esporla all’ improvviso condizione di povertà. La duchessa morì nel luglio del 1569. Dopo la morte della zia, Elena lamentava il continuo pericolo di vita provocato dall’insalubrità dei luoghi E non faceva mistero dell’assillante popolazione su come ci sarebbe mantenuto il convento dato che non poteva più contare sulle generose elargizioni della duchessa. La badessa cominciò a chiedere con insistenza di tornare a Viterbo ma la sua richiesta non fu accolta. In seguito, la badessa ebbe uno screzio con il vescovo che pretendeva alcuni beni lasciati dalla duchessa. Elena si rivolse al cardinale che in questo caso ascoltò la sua supplica, ovvero che il monastero non venisse più molestato. Vittoria effimera, poiché con la morte della duchessa si era

dissolto il principale sostegno economico del monastero, ma anche il controllo sulle mosse del vescovo. Cap.3 Confinato a Castro Francesco Cittadini arrivò a Castro nel marzo del 1569. Egli prese possesso della diocesi con una cerimonia disciplinata sin nei minimi particolari e dal denso valore simbolico. Cittadini era arrivato parecchi mesi dopo la designazione a vescovo della città, e questo aveva indispettito molto il cardinale, molto irritato per la sua nomina. Dopo i festeggiamenti, il vescovo si rese subito conto che la città era deserta. Quanto al clima, Non aveva ancora riscontrato quall’aere cattivo che si dice. Ma il fatto stesso di sottolinearlo rivelava il timore, tutt’altro che infondato di ammalarsi. Il suo precedente incarico a governatore di Orvieto aveva provocato in lui la sensazione di esilio da Roma, Dove aveva iniziato una brillante carriera ecclesiastica godendo di tutti quei piaceri che la città e la corte romana potevano offrire. Se già si era sentito esiliato a Fano ed Orvieto, possiamo immaginare quale senso di desolazione potesse avergli provocato Castro. Si ripromise di continuare I lavori di restaurazione della cattedrale ma con l’arrivo dell’estate si ammalò e tornò a Castro soltanto parecchi mesi dopo. In quel periodo I rapporti con il cardinale Farnese erano più che distesi anche grazie alla sua disponibilità a sbrigare alcuni affari. Ma i suoi sforzi nel mantenere buoni rapporti con il cardinal Farnese si vanificarono ben presto, in particolare in due occasioni: la prima fu lo screzio con la badessa, la seconda fu la controversia assai più grave con la comunità delle città. Oggetto del contendere era il diritto di pascolo su alcuni terreni che la comunità rivendicava come propri. Nel corso della lite volarono molte cattive parole sul Cittadini, sempre più amareggiato da un’atmosfera che si faceva ancor più ostile. Il duca intervenne a favore del vescovo al quale, da quel momento in poi, la comunità avrebbe dovuto versare le dovute decime, da destinarsi al restauro della cattedrale. Il patto si rivelò fallimentare e i castrensi si lamentavano del danno economico scaturito dalla, tanto che il cardinale rimproverò il vescovo di aver gestito male la vicenda. Un altro episodio spiacevole fu il tentato rapimento del vescovo. Il mandante di tale rapimento era un nemico giurato del vescovo Sulla questione dei pascoli. Era una storia strana che si intrecciano con le dicerie a proposito delle sempre più frequenti visite che il vescovo faceva ormai da mesi su pretesto dei lavori di adeguamento dell’edificio che finalmente il duca Ottavio si era deciso a sovvenzionare. In questo periodo la fabbrica del convento diventò la fabbrica dei loro amori. Sicuramente I restauri rappresentarono un’occasione d’incontro più frequente e forse anche un diversivo rispetto alle angustie sofferte. C’erano molte cose, Infatti, che li accomunavano: a Castro si sentivano entrambi in trappola ed è in questa dimensione claustrofobica che nacque quel qualcosa, una fuga dalla realtà, una ribellione, un sentimento impedito dalle circostanze, oppure un capriccio, un cedimento, Dovuti forse alla noia di un’esistenza già predeterminata. Aldilà Demi possibile ipotesi, un bambino era nato in convento. Soltanto quando si ebbe questa notizia si consumò lo scandalo ed ebbe inizio il processo. Parte seconda: il processo Cap.4 Examinare l’abbadessa “si tiene per certo che la badessa di castro ha parturito uno putto, dicesi il padre esser il vescovo” questo riferiva un agente dei Farnese al duca Ottavio il 9 settembre 1573. In realtà, la voce si era già sparsa a castro alla fine di luglio. Una delle prime persone a diffondere la notizia fu una fornaia di nome Simona, che aveva aiutato la badessa a partorire; in cambio aveva ricevuto cinque scudi d’oro con la richiesta di mantenere il segreto. Ma poi, temendo che il marito l’accusasse di qualche cattiva azione, non resistette e raccontò tutto. La notizia si diffuse fino ad arrivare al cardinale Farnese E su sua disposizione il podestà di castro istruì l’inchiesta. Il primo a essere arrestato fu Cesare Del Bene, servitore del vescovo. Fu arrestata anche la fornaia Simona. Il reato di cui potevano essere accusati era quello di complicità in uno stuprum, inteso nel senso ti rapporto sessuale illecito, anche senza violenza, con una donna onesta. Era un reato di misto foro, Perché poteva essere giudicato sia da un tribunale secolare sia da un tribunale ecclesiastico. Secondo gli statuti farnesiani, in caso di fatto notorio, il podestà poteva procedere nelle indagini anche ex officio. Quanto gli arresti avrebbe potuto imprigionare dei sospetti solo su autorizzazione del duca. In questo caso però fu il cardinale

a prendere iniziativa. Non è inverosimile supporre che, affidando inchiesta alla giustizia feudale, avesse pensato di poterlo controllare meglio E di riuscire a circoscrivere lo scandalo localmente. In gioco non vi era soltanto la reputazione della cugina, ma anche altri interessi. La contea di Pitigliano era oggetto degli appetiti territoriali dei Farnese ma anche dei Medici. In quel momento Pitigliano era contesa fra Orso Orsini, fratello della badessa, E il fratellastro Niccolò appoggiato dai Farnese. Sei Elena fosse stata condannata, La reputazione degli Orsini ne sarebbe uscita gravemente compromessa, e ciò sarebbe tornato utile nella contesa; ma trattandosi comunque di sua cugina era bene che ciò avvenisse sotto il suo controllo in modo che tutta la colpa chi cadesse sul vescovo e la cugina ne uscisse con il minor scandalo possibile. Sei il diritto canonico prevedeva pene molto severe, gli statuti farnesiani prevedevano per il reato di stupro anche la condanna a morte. Per questo motivo il vescovo si affrettò ad informare i fratelli e un cardinale notoriamente molto vicino al pontefice. Si rivolse inoltre a monsignor Alessandro Riario, auditore del tribunale della camera Apostolica che avrebbe potuto avocare a sé la causa su ordine del pontefice. Il 9 settembre 1573 il pontefice diede l’ordine al riario di avviare il processo. Si potrebbe supporre che il cardinal Farnese avesse ritenuto opportuno O fosse stato obbligato a rivelare l’accaduto al pontefice, accettando quindi l’avvio della causa presso il tribunale romano. Concepito come tribunale autonomo nell’ambito della giustizia Romana e curiale, era di misto foro E poteva giudicare sia laici sia ecclesiastici. Primo passo verso l’ascesa al cardinalato, l’auditore generale era una carica di particolare rilievo ma nonostante ciò aveva delle limitazioni. Infatti il pontefice restava il giudice ultimo affermando quindi la sua supremazia non soltanto sul foro feudale ma anche rispetto agli ordini generali, confermando il primato della giurisdizione centrale...


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