la crisi petrolifera del 1973 PDF

Title la crisi petrolifera del 1973
Author joni metko
Course Scienza politica
Institution Università degli Studi di Milano
Pages 2
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storia contemporanea...


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LA CRISI PETROLIFERA DEL 1973 All’inizio degli anni ’70, si interruppe il ciclo espansivo dell’economia mondiale che aveva contraddistinto l’intero dopoguerra. Non si trattò di una “normale” pausa nel processo di sviluppo, ma di una svolta dalle conseguenze traumatiche, non solo sul piano economico. La svolta fu segnata soprattutto da due eventi. Il primo, nell’agosto 1971, fu la scelta degli Stati Uniti di sospendere la convertibilità del dollaro in oro, convertibilità che costituiva il pilastro del sistema monetario internazionale disegnato dagli accordi di Bretton Woods del 1944 e basato su rapporti di cambio fissi fra le monete dei paesi aderenti. Tale decisione era il segno più evidente delle difficoltà dell’economia americana che, appesantita dagli enormi costi della guerra in Vietnam e da un crescente passivo della bilancia commerciale, non era più in grado di garantire con le sue riserve auree il cambio di una grande massa di dollari circolante nel mondo o custodita nelle banche centrali europee e asiatiche. Ma era anche l’inizio di una lunga fase di instabilità e di disordine monetario internazionale, con continue oscillazioni nei prezzi delle materie prime e nei cambi fra le monete e con una generale tendenza all’inflazione. Ancora più gravida di conseguenze fu la decisione presa dai principali paesi produttori di petrolio nel novembre 1973, in seguito alla guerra arabo-israeliana, di quadruplicare il prezzo della materia prima. Questo improvviso aumento fu l’inizio di una progressiva ascesa delle quotazioni del greggio che si sarebbe protratta per l’intero decennio: alla fine degli anni ’70, anche a causa della rivoluzione iraniana del 1979, il prezzo del petrolio era dieci volte più alto di quello del ’73. Lo “shock petrolifero” colpì in varia misura tutti i paesi industrializzati, in particolare quelli che dipendevano quasi completamente dalle importazioni per il loro fabbisogno energetico, come l’Italia e il Giappone (gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica ne risentirono in misura minore in quanto disponevano di proprie risorse petrolifere); e fu il fattore scatenante di una crisi economica seria e profonda, anche se meno lunga e violenta di quella degli anni ’30. Ovunque, fra il ’74 e il ’75, la produzione industriale fece registrare un brusco calo, per poi riprendere a crescere a partire dal ’76, ma con ritmi più lenti rispetto al periodo precedente. Contrariamente a quanto era accaduto nelle crisi del passato, tutte caratterizzate dal calo dei prezzi, in questo caso la recessione produttiva si accompagnò a una generale crescita dell’inflazione, con tassi di aumento del costo della vita, nei paesi industrializzati, altissimi. Questo fenomeno inedito, che è stato definito col termine “stagflazione”, ovvero “stagnazione più inflazione”, era dovuto in parte all’origine “esterna” dell’inflazione (l’aumento dei prezzi del petrolio e delle materie prime in genere), in parte alla maggiore rigidità dei salari che, in virtù dei meccanismi di copertura introdotti nei decenni precedenti, tendevano ad adeguarsi automaticamente alla crescita dei prezzi creando a loro volta nuove spinte inflazionistiche. Sul piano sociale la conseguenza più grave della crisi fu la crescita della disoccupazione, che si mantenne molto elevata per tutto il decennio, anche se, soprattutto in Europa occidentale, il problema era reso meno drammatico dalla presenza di numerosi “ammortizzatori sociali”: i sussidi di disoccupazione, le sovvenzioni statali alle industrie in crisi, la stessa preesistente condizione di benessere. Ma a subire gli effetti della crisi fu lo stesso modello del Welfare State, che, affermatosi in tutte le democrazie occidentali come strumento di stabilizzazione economica oltre che di perequazione sociale, cominciò allora a mostrare chiari segni di difficoltà. La crescita continua della spesa pubblica, non più sostenuta da un adeguato sviluppo produttivo, costrinse i governi a portare a livelli sempre più alti la pressione fiscale suscitando, in vasti settori dell’opinione pubblica e del mondo economico, un crescendo di critiche contro lo Stato assistenziale e contro l’intervento pubblico in economia e un parallelo ritorno in auge delle teorie liberiste e del monetarismo. L’avvento al potere dei conservatori in Gran Bretagna con Margaret Thatcher (1979) e l’elezione alla presidenza Usa del repubblicano Ronald Reagan (1980), l’una e l’altro presentatisi agli elettori con la promessa di tagli delle spese e delle tasse, furono anche il prodotto di questo mutamento del clima politico e culturale.

Giunta al termine di una lunga fase di sviluppo pressoché ininterrotto e di benessere crescente, la crisi petrolifera costituì per l’Occidente un trauma fortissimo sul piano psicologico prima ancora che economico: rivelò un’insospettata fragilità dei paesi più avanzati; contribuì a rendere instabile lo stesso quadro politico mondiale, preparando i grandi mutamenti che avrebbero segnato la fine del secolo XX; e fece sorgere una serie di interrogativi sul futuro della società industriale. Il primo problema che la crisi petrolifera del ’73 rese evidente fu quello del carattere limitato, e dunque esauribile, delle risorse naturali del pianeta: un dato che contraddiceva, almeno in apparenza, la prospettiva ottimistica di una crescita illimitata, della produzione, dei consumi, della stessa popolazione, su cui si era fino ad allora fondata la filosofia ispiratrice della civiltà industriale. Questa prospettiva cominciò allora ad apparire a molti non solo irreale, ma anche dannosa, in quanto portava con sé la tendenza allo spreco energetico, alla dissipazione delle risorse naturali, alla modifica violenta dell’ambiente. Alla protesta ideologica contro la civiltà dei consumi si sovrappose, e in parte si sostituì, una critica più concreta animata dai movimenti ambientalisti (o verdi), attenta soprattutto alle tematiche dell’ecologia e fondata sulla denuncia delle minacce portate dall’azione degli uomini, in particolare dall’industrializzazione e dall’urbanizzazione indiscriminata, all’equilibrio naturale del pianeta. Il degrado dell’ambiente aveva radici lontane, legate ai primi passi della rivoluzione industriale; ma nel corso del XX secolo si era aggravato, soprattutto per il crescente utilizzo dei combustibili fossili, prima il carbone poi il petrolio. Se all’inizio del ’900 la principale responsabile dell’inquinamento dell’aria era ancora la combustione del carbone nelle industrie e nelle abitazioni, negli anni ’60 il traffico automobilistico aveva già cominciato a contenderle questo primato: nel 1990 sarebbe diventato la maggiore fonte di inquinamento a livello mondiale. Più in generale, l’eccezionale sviluppo economico del pianeta lungo tutto il XX secolo comportò il consumo di una quantità straordinaria di energia: dieci volte più che nei mille anni precedenti, secondo i calcoli di alcuni studiosi. Se dunque si voleva continuare a sostenere la crescita economica senza compromettere irrimediabilmente le condizioni ambientali, già alla metà degli anni ’70 appariva necessario abbassare i consumi o utilizzare fonti di energia alternative ai combustibili fossili. All’indomani della crisi petrolifera, i governi si mossero in entrambe le direzioni, anche sulla base di esigenze economiche immediate: da un lato adottarono politiche di risparmio energetico, cercando di limitare la circolazione dei mezzi di trasporto privati e di contenere i consumi di elettricità, dall’altro promossero la ricerca e l’uso di nuove fonti di energia. Alcuni Stati (Usa, Francia, Germania federale, Giappone) puntarono sullo sviluppo delle centrali nucleari, in grado di fornire energia a costi sensibilmente inferiori a quelli delle centrali termoelettriche, ma contestate dagli ecologisti per i problemi legati allo smaltimento delle scorie e per i danni irreversibili che potevano provocare in caso di guasti o incidenti: come dimostrò, nel 1986, il caso della centrale nucleare di Chernobyl in Ucraina. Altrove si riscoprì il carbone o si avviò lo sfruttamento dell’energia solare e di quella eolica: energie pulite e inesauribili, il cui impiego stentò però ad affermarsi soprattutto a causa delle difficoltà tecniche e degli elevati costi iniziali. Tra la fine degli anni ’80 e l’inizio dei ‘90, l’emergenza ambientale sembrò per molti aspetti ridimensionarsi. La scoperta di nuovi giacimenti petroliferi, se da un lato rallentò la spinta alla ricerca di fonti alternative, dall’altro fece apparire eccessivi gli allarmi lanciati negli anni della crisi, quando autorevoli studiosi formulavano previsioni catastrofiche sull’esaurimento delle risorse energetiche entro la fine del secolo....


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