L\'età carolingia PDF

Title L\'età carolingia
Author Ruben Elia Scorsone
Course Lettere Classiche
Institution Università degli Studi di Palermo
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L'età carolingia...


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L'età carolingia (sec. VIII - IX) La conquista franca del regno longobardo I territori lombardi facenti parte del regno longobardo vennero conquistati dal re franco Carlo Magno nel 774, a seguito di una campagna militare avviata l’anno precedente che, dopo uno scontro decisivo avvenuto in Val di Susa, si concluse con la conquista di Pavia. Carlo Magno assunse quindi il titolo di rex Francorum et Langobardorum, inglobando il regno longobardo in quello franco. La conquista della Langobardia fu essenziale per i progetti espansionistici carolingi, costituendo una testa di ponte per il controllo di tutta la penisola italica, anche se rimasero escluse ancora una volte le terre dell’Italia meridionale. Nella fase iniziale Carlo Magno preferì non sconvolgere troppo il preesistente ordinamento politico e amministrativo, lasciando duchi e funzionari longobardi al loro posto, e mantenendo come capitale Pavia. La conquista carolingia del regno dei longobardi non fu d’altronde accompagnata dalla migrazione massiccia di uomini provenienti dal regno dei franchi, bensì dalla sostituzione, graduale per quanto non indolore, del ceto dirigente. Ciò si rese particolarmente necessario dopo una rivolta dei duchi dell’Italia nord-orientale, capeggiati da Rotgaudo del Friuli e appoggiati da Tassilone di Baviera (775). Carlo procedette quindi alla sistematica immissione di ufficiali pubblici e di vescovi reclutati tra i propri vassalli, provenienti da élites di oltralpe, sia franche, sia bavare, alamanne, burgunde, ovvero originarie da regioni di nuova annessione carolingia. Ai longobardi, che comunque non vennero del tutto esclusi, furono dunque presto assimilate altre etnie importate dai vincitori carolingi. Il nuovo dominio franco si caratterizzò quindi sia per continuità sia per innovazione. La nuova impalcatura statale si fondò su elementi di ordine pubblico e personale al tempo stesso, dati i legami vassallatici che univano il re ai suoi rappresentanti, spesso tratti dal ceto ecclesiastico. Il nesso tra franchi e papato, che aveva sancito la definitiva affermazione carolingia sui Merovingi in cambio del loro appoggio alla chiesa di Roma contro i longobardi, fu consacrato con la restaurazione dell’impero romano d’occidente. Il Natale dell’anno 800, Carlo ricevette a Roma da papa Leone III la corona imperiale, su acclamazione del popolo romano. La restaurazione dell’impero romano d’occidente, resa possibile dalla momentanea debolezza bizantina, fu in realtà parziale: l’impero carolingio comprendeva infatti solamente l’Europa centro-occidentale, vale a dire le odierne Francia, Germania, e Italia centro-settentrionale.

Il regno italico Carlo Magno, pur continuando a operare una stretta vigilanza sui territori italici, nei quali accumulò in soggiorni successivi una permanenza complessiva di quattro anni, ne affidò il governo al figlio Carlomanno, che prese il nome del nonno Pipino. Questi, così come i suoi successori, assunse il titolo di rex Langobardorum: come recitavano le stesse fonti del tempo l’Italia carolingia, d’altronde, «era anche detta Langobardia» (Italia vero quae et Langobardia dicitur). Alla prematura morte di Pipino nell’810 gli subentrò il figlio Bernardo. Sia Pipino sia Bernardo salirono al potere in giovane età e vennero pertanto affiancati da ecclesiastici e laici di grande esperienza politica, come Waldo abate di Reichenau, Adalardo abate di Corbie, e Wala conte di Corbie, tutti uomini di fiducia di Carlo Magno. Questa organizzazione rispecchiava il peculiare ordinamento pubblico creato dai Carolingi, imperniato sulle fondamentali figure funzionariali dei conti, dei marchesi, e dei missi dominici. Nell’818 Bernardo si ribellò allo zio Ludovico il Pio, nel frattempo asceso al trono imperiale dopo la morte di Carlo Magno (814). Nell’817 Ludovico, con un provvedimento noto come Ordinatio imperii, aveva infatti predisposto una successione che avrebbe escluso dal trono italico Bernardo, pur designato re da Carlo

Magno, privilegiando i suoi propri figli: a Ludovico detto il Germanico sarebbero spettati i territori orientali dell’impero carolingio, a Pipino quelli occidentali, mentre quelli centrali, compresi in una lunga striscia che dal nord Europa arrivava sino al sud inglobando le due capitali dell’impero, Aquisgrana e Roma, sarebbero pervenuti a Lotario, il quale avrebbe anche avuto diritto alla corona di re d’Italia e di imperatore. In questo quadro non vi era dunque spazio per Bernardo e per un regno d’Italia separato dal resto dell’impero. Conti e vescovi delle terre lombarde parteciparono in maniera diversa alla rivolta di Bernardo: mentre i rappresentanti dei poteri pubblici ed ecclesiastici di Milano e Cremona si mantennero a lui fedeli, il conte di Brescia Suppone si schierò con Ludovico, ricevendo in cambio l’ambitissimo ducato di Spoleto. Bernardo, una volta sconfitto, venne condannato alla pena dell’accecamento, morendo per le conseguenze della ferita. La sua morte aprì una fase di vuoto di potere e di intermittenza politica nel regno d’Italia, durante la quale si affermarono le iniziative autonome di conti e vescovi. Solo nell’822 Lotario riuscì a farsi incoronare re d’Italia, ma la situazione di instabilità non mutò, anzi si accrebbe quando otto anni dopo anche Lotario si oppose al padre, rifugiandosi in Italia dove pure trovò l’opposizione di personaggi fedeli all’imperatore Ludovico il Pio. Nell’843 Lotario, dopo strenue lotte contro i fratelli per la successione al padre conclusesi con il trattato di Verdun, ottenne il titolo imperiale e con esso il regnum Italiae. Egli aveva però di fatto da tempo rinunciato ad esercitare qualsiasi funzione in Italia, delegandone l’amministrazione ai suoi fedeli e al figlio Ludovico II, il quale nell’844 venne incoronato rex Langobardorum e nell’855 imperatore. Ludovico, nato e cresciuto nel cuore della Langobardia, tra Milano, Brescia e Pavia, impresse quindi una svolta nel governo del regno italico, ora più al centro che in passato degli interessi carolingi. A lui si deve il tentativo di frenare il processo di dissoluzione dell’ordinamento carolingio che però era ormai in atto in tutti i territori dell’impero e che giunse a compimento nell’888 con la deposizione dell’ultimo imperatore carolingio, Carlo il Grosso. Con la fine dell’impero si aprì una nuova fase per il regnum Italiae che cessò di essere prerogativa dei Carolingi per essere conteso dai grandi del regno, in particolare dalle famiglie ducali di Spoleto e del Friuli.

Le istituzioni civili Comitati e marche Superata la fase di conquista del regno longobardo, emerse l’esigenza di dare un assetto amministrativo ai territori di cui i franchi avevano assunto il controllo. Vennero così istituiti anche in Italia i comitati e le marche, a capo dei quali furono preposti funzionari pubblici denominati rispettivamente conti e marchesi. Questi rappresentanti in sede locale del potere centrale furono quasi sempre legati a Carlo Magno, e ai suoi successori, da un rapporto di fedeltà vassallatica. Solitamente i comitati in Italia rispecchiarono l’antica distrettuazione di impronta romana, che già aveva condizionato quella diocesana, mentre le marche furono più estese, in quanto risultanti dall’insieme coordinato di più comitati situati in aree strategiche di frontiera e di forte connotazione militare. I franchi non riuscirono però ad estendere l’istituto comitale a tutte le regioni del regno italico. In Friuli, nella Tuscia, a Spoleto ad esempio sopravvissero le organizzazioni amministrative dei ducati già longobardi, simili per estensione e funzioni alle marche. Conti e marchesi non venivano retribuiti in denaro: in cambio del loro servizio e della loro lealtà essi ricevevano un appannaggio, che inizialmente consisteva in terre, tratte per lo più dai patrimoni fiscali ed ecclesiastici. In un secondo momento la stessa carica pubblica, l‘«onore» comitale, dal momento che apportava numerosi vantaggi e privilegi anche economici a chi la deteneva, venne essa stessa considerata alla stregua di un beneficio. I pubblici ufficiali potevano infatti trattenere una parte dei proventi derivanti dall’esercizio delle loro funzioni sotto forma di ammende, pedaggi, gabelle. Compito di questi funzionari era soprattutto

mantenere la pace e l’ordine, amministrare la giustizia, e arruolare i liberi atti a portare le armi. Il conte era assistito da ufficiali inferiori, visconti e sculdasci, dagli scabini, esperti di diritto, e nelle assemblee giudiziarie anche dai boni homines. Nei primi decenni del IX secolo l’operato di conti e marchesi venne sottoposto al controllo di speciali inviati del potere centrale, i missi dominici, scelti fra i grandi del regno, che assunsero anche il compito di farsi portavoci dell’autorità del sovrano, proclamando nei luoghi pubblici le nuove leggi (i capitolari, così detti perché composti da molti capitoli) imperiali. I missi dominici agivano nei distretti pubblici solitamente in coppia: un laico, spesso funzionario della corte imperiale, e un ecclesiastico, il vescovo della diocesi coincidente con il comitato, a conferma della compenetrazione realizzata dai Carolingi tra l’ordinamento ecclesiastico e quello del regno. Ricordiamo che non bisogna confondere i comitati con le contee, o le marche con i marchesati. I termini non sono infatti sinonimi. Per marca e comitato si intende la circoscrizione di origine carolingia i cui titolari avevano un rapporto di tipo funzionariale, più o meno intenso a seconda dei periodi, con i sovrani, mentre nella contea e nel marchesato la storiografia aggiornata vede quelle formazioni territoriali signorili, posteriori al secolo XI, che prescindevano dai confini delle circoscrizioni pubbliche carolinge: nelle contee e nei marchesati il potere esercitato da conti e marchesi (che non necessariamente discendevano da antiche famiglie comitali e marchionali) dipendeva ormai non tanto dal rivestimento di un ufficio, quanto dal potere effettivamente esercitato sul territorio e sugli uomini, un potere appunto signorile.

Dinastie marchionali e comitali in Lombardia Grazie anche alla progressiva tendenza all’inamovibilità dei vassalli e alla trasmissione familiare dei feudi, di cui nell’877 il capitolare di Quierzy-sur-Oise prendeva atto (pur con l’intento di porvi ancora rimedio), a partire dal secolo IX nacquero delle vere e proprie dinastie marchionali e comitali, alcune delle quali dotate di una singolare capacità di durata. In area lombarda le prime e più potenti furono quelle dei Supponidi, degli Attonidi, dei Bernardingi e dei Gisalbertini, così dette in età moderna dai nomi ricorrenti portati da molti loro esponenti. I Supponidi, forse la maggiore tra le famiglie franche insediatesi in Italia, dovevano la loro ascesa a Suppone I, già conte di palazzo (funzionario preposto all’amministrazione della giustizia regia) e conte di Brescia, nominato nell’822 duca di Spoleto probabilmente in cambio del sostegno dato all’imperatore Ludovico il Pio per l’eliminazione del re d’Italia Bernardo. La potenza della casata si accrebbe grazie ai prestigiosi legami parentali instaurati con altre grandi famiglie dell’aristocrazia italica e d’oltralpe, alle numerose cariche ricoperte dai discendenti di Suppone – che furono conti a Parma e Piacenza, duchi a Spoleto, ma anche vescovi e messi imperiali nelle parti più importanti del regno d’Italia -, cui si univa il possesso di un ingente patrimonio fondiario, dislocato soprattutto nella pianura bresciana ed emiliana, e l’esercizio su questo di diritti signorili. Grazie a possedimenti privati e a cariche pubbliche la dinastia supponide operava così su un vasto piano padano, esteso tra Brescia, Parma, Piacenza, Modena e forse Torino e Asti, con incursioni nell’Italia centrale. Gli Attonidi concentrarono invece la loro presenza pubblica e privata nelle zone alte della Lombardia, dal lago di Como, a Bergamo, alla val Camonica, al lago d’Iseo, dove rivestirono cariche funzionariali, anche se non si fecero mancare possessi fondiari in area veneta ed emiliana. La predilezione per l’alta Lombardia si rafforzò nel X secolo: nelle carte di questo periodo gli Attonidi cominciano infatti a portare il predicato «di Lecco» che dovrebbe riflettere un tentativo di radicare e organizzare la dinastia in tale sede. Tra le più antiche famiglie comitali lombarde figuravano anche i Bernardingi, discendenti proprio di quel Bernardo re d’Italia la cui eliminazione aveva fatto la fortuna dei Supponidi. Spesso infatti queste casate

erano in contrapposizione l’una contro l’altra. I Bernardingi lo furono ad esempio con i Gisalbertini per il dominio sull’area della bassa bergamasca. Attestati nel IX secolo come vassalli regi, i Bernardingi furono via via conti di Parma, di Pavia e di Sospiro, corte del cremonese, ed infine vassalli del vescovo di Cremona (primi XI secolo). Il percorso di affermazione familiare è simile a quello sopra illustrato anche se è più evidente il ridimensionamento delle ambizioni politiche e sociali dagli orizzonti nazionali alla realtà locale: in compenso, questo ridimensionamento rafforzò la posizione della casata nel ceto dominante della città di Cremona, grazie all’inserimento nella clientela vassallatica vescovile, e stimolò un più attento sfruttamento economico e signorile della terra. I Gisalbertini, vassalli imperiali e conti palatini, ottennero il comitato di Bergamo nel 923: il loro potere come rappresentanti regi fu però debole, per la concorrenza di altri gruppi parentali, e venne pertanto sostenuto da abili strategie matrimoniali. Essi riuscirono così ad allacciare rapporti con casate dell’alta aristocrazia italica, dagli Arduinici marchesi di Torino ai Canossa marchesi di Tuscia (ma il potere canossano si estendeva anche sull’area padana), e con famiglie di rango minore ma potenti in quelle zone – cremonese, lodigiana, bergamasca, bresciana – cui i Gisalbertini guardavano per l’ampliamento dei loro possessi signorili. I Gisalbertini furono inoltre particolarmente attenti ai rapporti con la chiesa: si legarono vassallaticamente ai vescovi e al clero dei capitoli delle cattedrali di Cremona, Bergamo, Lodi, Piacenza, traendone prestigio e appoggi finanziari, e fondarono ben cinque monasteri benedettini: il cenobio di S. Stefano al Corno, nel Lodigiano, il priorato di S. Paolo d’Argon nel Bergamasco, i monasteri di S. Benedetto di Crema e di S. Fabiano di Farinate nel Cremonese, e quello di S. Vigilio di Caruca, o di Macerata, vicino a Quinzano d’Oglio (BS). Per completare il quadro delle famiglie comitali lombarde ricordiamo brevemente quelle dei conti di Lomello, dei conti di Pombia e dei conti di Biandrate affermatesi però in età post-carolingia in comitati di nuova origine. Intorno al castello di Lomello sorse agli inizi del secolo X il comitato omonimo, costola del più ampio comitato pavese: dapprima conferito alla famiglia franca di Maginfredo I e ai suoi discendenti, che occuparono anche titolo comitale e dignità vescovile a Verona, in seguito il comitato di Lomello pervenne alla famiglia longobarda del giudice pavese Pietro I, amministratore dei beni pavesi del monastero di S. Silvestro di Nonantola. Questa seconda casata di conti di Lomello fu molto legata alla dinastia sassone degli Ottoni che si impose sul trono italico ed imperiale dalla metà del secolo X, traendone grande forza politica e militare. Anche i conti di Pombia legarono la loro ascesa sociale agli stretti rapporti intrattenuti con i sovrani sassoni e con il re d’Italia Arduino d’Ivrea, estendendo – grazie a uffici funzionariali, cariche ecclesiastiche, possessi fondiari – la loro influenza dall’originaria area del comitato, posto tra Sesia e Ticino, alle terre del Monferrato, del Milanese, del Piacentino e del Modenese. Dalla casata di Pombia nacque infine quella dei conti di Biandrate, che prendeva il nome da un centro incastellato della campagna novarese. Messisi in luce per la partecipazione alla crociata organizzata nel 1100 dall’arcivescovo di Milano Anselmo da Bovisio, i conti di Biandrate si inserirono presto nel ceto dirigente della città di Milano. Questi rapidi esempi dimostrano come al centro del potere delle grandi aristocrazie non vi fosse una sola città, o un solo castello, ma un territorio vasto e disperso, con significative presenze cittadine e rurali, dove risiedevano quelle clientele armate che potessero sorreggere ambizioni anche regie. Dopo la disgregazione dell’impero carolingio (888), infatti, il potere nel regno italico venne conteso fra le dinastie funzionariali e le grandi famiglie signorili che avevano assunto il controllo del territorio.

Le istituzioni religiose Vescovi e politiche ecclesiastiche

Tratto distintivo della dominazione franca, sia nelle terre di origine sia in quelle di conquista, fu lo stretto nesso instaurato fra il ceto dominante militare e il ceto ecclesiastico. Questo nesso, che permise ai tempi dell’affermazione dei franchi nella Gallia romana (V-VI secolo) di operare una sinergia tra le forze germaniche e quelle di origini e tradizioni latine, fu perpetuato in maniera feconda anche nell’età successiva (VII-VIII secolo), quando lo stesso ceto ecclesiastico cominciò ad essere per lo più reclutato all’interno dei ranghi dell’aristocrazia militare-fondiaria germanica. Anche vescovi e abati erano infatti tenuti al servitium regis, il servizio a favore del re, che prevedeva un obbligatorio contributo militare. La protezione accordata alle chiese del regno permise inoltre ai Pipinidi/Carolingi di sfruttare il patrimonio di queste a fini politici-militari, concedendo alle proprie clientele le terre ecclesiastiche. A fondamento dell’affermazione dei Carolingi stette dunque la commistione tra istituzioni religiose e ordinamento secolare: fondamentale in ciò fu il legame che essi riuscirono a creare anche con la chiesa di Roma (che allora aveva solo un primato d’onore su tutte le altre chiese) grazie a un’alleanza in funzione antimerovingia e antilongobarda. Dopo la conquista carolingia, si estese alle terre longobarde il tradizionale connubio tra chiese potenti e potere politico. Fin dall’inizio, infatti, i Carolingi concessero importanti privilegi, immunità giurisdizionali, beni e proventi fiscali a chiese vescovili e ad abbazie, in particolare se collocate lungo importanti vie di comunicazione terrestre e fluviale dell’Italia settentrionale, onde garantirsi – tra il resto – il loro appoggio durante le spedizioni militari. Nel 781 Carlo Magno tenne a Mantova un’assemblea in occasione della quale estese al regno italico una riforma approvata due anni prima a Heristal relativa all’assetto ecclesiastico e amministrativo del dominio franco. In base a questa riforma, veniva confermata e rafforzata la suddivisione del regno in province ecclesiastiche, rette da metropoliti, che avrebbero vigilato sulle gerarchie ecclesiastiche, sulla corretta riscossione delle decime, sulla condotta dei fedeli, sul patrimonio di chiese e monasteri. Il re assumeva dunque un ruolo centrale nel garantire la disciplina delle chiese e nell’assicurare loro il controllo sui beni e sulla popolazione. Sebbene rimanesse in vigore l’antica norma canonica che voleva l’elezione del vescovo da parte del popolo e del clero, i Carolingi intervennero pesantemente nella scelta dei vescovi, imponendo ad esempio personaggi di origine franca a Novara e a Piacenza. Ciò non escluse che tradizioni ed elementi italico-longobardi potessero mantenere il loro peso. Lo dimostra la presenza di presuli di origini longobarde in sedi prestigiose, come Milano, Bergamo, Verona, Lucca, e lo sviluppo del culto di s. Ambrogio a Milano durante l’episcopato di Angilberto II (824-859), pur di origini transalpine. Il ricorso a prelati franchi, sulla fedeltà dei quali si poteva maggiormente contare, fu infatti con il passare del tempo sempre meno necessario. Nell’Italia carolingia, mediatori tra la popolazione e i poteri ufficiali furono dunque tanto i conti quanto i vescovi, spesso vicini ai re franchi per l’instaurazione di legami vassallatico- beneficiari. Un capitolare, ovvero una legge, emanato da re Pipino stabilì che conti e vescovi dovessero reciprocamente aiutarsi nell’espletare i propri compiti, agendo con «concordia ed affetto». I due poteri, secolare ed ecclesiastico, avrebbero dovuto funzionare paralleli ma uniti da un comune progetto di pace, giustizia, ...


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