Libro Matteo Di Gesù PDF

Title Libro Matteo Di Gesù
Author Gi Benforte
Course Lettere moderne
Institution Università degli Studi di Palermo
Pages 6
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Summary

Latino e letteratura italiana...


Description

LIBRO L’ORLANDO FURIOSO L’ITALIA E I TURCHI Primo capitolo: 1. Due battaglie, Ferrara, l’Italia. Il capolavoro ariostesco, nella sua versione definitiva, è il poema della crisi del Rinascimento e rispecchia la problematica situazione politica italiana in cui versavano le signorie della penisola. Ad Ariosto si potrebbe attribuire la qualità di militante: cioè un narratore di storia e di fatti politici al servizio di Ippolito e Alfonso D’Este. Le vicende belliche che coinvolgo i paladini cristiani e i saraceni si proiettano sul tempo presente dell’autore, infatti la prima edizione del poema del 1516 esce all’indomani delle vittorie militari di Francesco I di Francia, del quale Ferrara è alleata. Invece l’ultima edizione, quella del 1532, avvenne dopo l’incoronazione di Carlo V a Bologna. Siamo di fronte ad un poema concepito, realizzato, integrato e corretto negli anni terribili delle guerre d’Italia, quelle che Asor Rosa ha chiamato “grande catastrofe italiana”. Le vicende belliche si proiettano sul tempo presente dell’autore e la sincronizzazione concorre a far sì che il “tempo umano” sia “tempo raccontato”. Nel canto XXXV (ottave 20-39) lo stesso autore formula una serie di considerazioni a proposito del rapporto tra storia e invenzione poetica, realtà e finzione letteraria piuttosto destabilizzanti. Le tesi di San Giovanni evangelista vengono compromessi gli assunti della cultura letteraria umanistica. Dopo queste considerazioni, l’evangelista mette in mostra una rassegna di eroi letterari e storici, virtù e difetti che gli scrittori ci hanno tramandato e non con la loro effettiva verità: Enea non era così pietoso, Achille così forte e Nerone ebbe una cattiva fama perché non seppe tenersi amici gli scrittori. La battaglia della Polesella e di Ravenna sono eventi rievocati all’interno del poema, che videro protagonisti Ippolito e Alfonso d’Este. Nel III canto nella grotta di Merlino, quando viene predetto il destino di Bradamante dalla maga Melissa, di capostipite della dinastia ferrarese, troviamo i primi due riferimenti alle due battaglie. Il lessico rimanda all’intera penisola piuttosto che solamente alla signoria ferrarese con parole abbastanza elevate. A partire dall’ottava 50 si arriva all’elogio dei duchi estensi, ciascuno lodato per il successo militare: Alfonso per la battaglia di Ravenna (elogio che occupa 5 strofe, si fa cenno ad altri successi militari come quello tra spagnoli e le truppe di Giulio II) e Ippolito per quella della Polesella. BATTAGLIA POLESELLA (22-12-1509): Ferraresi guidati da Ippolito, attaccarono i veneziani risalendo il Po con 17 galee, fu una piena che gli permise di aprire il fuoco. Molte navi affondarono e i soldati veneziani arsero vivi, annegarono o fatti prigionieri. BATTAGLIA RAVENNA (11-04-1512): ferraresi e alleati francesi si scontrarono con le truppe della Lega Santa con almeno 15mila morti. Per la prima volta si fece ricorso alle armi da fuoco: l’utilizzo di queste avrebbe sconvolto le strategie e l’etica della guerra e del gareggiare, lo scontro individuale nel quale ciascun campione provava il proprio valore. Questi eventi vanno in relazione alla vicenda di Cimosco del IX canto col suo “abominoso ordigno” gettato in mare da Orlando. Questo canto è una delle importanti giunte dell’edizione del 1532, in cui l’autore proietta il suo stato d’animo nei sentimenti del paladino. Indotto dal rimpianto per la civiltà cavalleresca e per i suoi ideali tramontati (Orlando sconfiggerà Cimosco, sottraendogli l’archibugio con cui lo ha ferito e lo getta in mare, perché sarebbe stato il ricorso ad un’arma impropria per l’etica di un cavaliere. È un “maledetto abominoso ordigno” che uccide senza dimostrare il valore dei cavalieri). La battaglia di Ravenna è ricordata nel proemio dello stesso XIV canto nel quale ha avvio l’assedio di Parigi da parte del re pagano Agramante, Rodomonte e le sue truppe. Qui è presente la lode per la magnanimità di Alfonso il quale dopo aver catturato Fabrizio Colonna, condottiero della Lega Santa, si era rifiutato di consegnarlo agli alleati francesi per via delle efferatezze commesse da loro. La battaglia della Polesella è accennata nelle prime due ottave del XV canto e ancora, nel proemio al canto XXXVI, la magnanimità di Bradamante verso i cavalieri saraceni da lei sconfitti viene contrapposta alla deplorevole efferatezza delle milizie contemporanee rievocando un episodio dei fatti della Polesella: i

mercenari di Venezia che decapitano il condottiero Ercole Cantelmo sul ponte di una galea dopo averlo fatto prigioniero. *(pagina 3) L’autore nota, all’apertura del LX, chi, come gli abitanti di Ferrara, hanno assistito allo scontro vittorioso delle Polesella, come se fossero “in teatro”, allora saranno contenti per la terribile rotta della marineria pagana. (le imbarcazioni da guerra cristiane guidate da Dudone intercettano la flotta di Agramante che sta rientrando in Africa e la attaccano avendo la meglio - canto XXXVI). Tra i canti XXXVI e LX c’è un’interferenza tra passato e presente, come se la verosimiglianza del racconto d’invenzione debba calibrarsi sui fatti del tempo presente. Le due grandi battaglie diventano momenti rappresentativi della crisi italiana che riguarda gli stati dell’intera penisola. L’attualità penetra nelle pieghe del poema sino a diventare il poema della “fine degli incanti”, il romanzo della “grande catastrofe italiana”. 2. “L’afflitta Italia” e i “barbari insulti”: il tracollo di una civiltà. Nel XXVI canto Ruggero, Aldigiero e Ricciardetto, con Marfisa, Malagigi e Viviano, appena liberati da un gruppo di soldati saraceni che li teneva prigionieri, sostano presso una delle quattro fontane di Merlino. Le pareti marmoree che cingono la fontana sono ornate da una serie di splendidi bassorilievi. L’allegoria della cupidigia, di evidente ascendenza dantesca, una belva mostruosa che ha seminato strage e terrore, viene finalmente colpita da un cavaliere dalla testa coronata di alloro: è Francesco I di Francia affiancato da altri tre giovani sovrani, Massimiliano d'Austria, Carlo V ed Enrico VIII d'Inghilterra, e da un leone (papa Leone x); la bestia è infine uccisa con l'aiuto di «nobil gente» nel frattempo accorsa. In questa digressione encomiastica il più tenace nemico del mostro sarà comunque Francesco I: Malagigi interpreta l’affresco nel quale esalta la vittoria militare francese a Marignano contro la Lega Santa, grazie alla quale aveva vendicato la sconfitta di due anni prima a Novara e riconquistato il ducato di Milano, e soprattutto la sua liberalità. Segue un ulteriore elenco di nemici dell'infernal bestia che annovera Bernardo da Bibbiena, Francesco Gonzaga, Ludovico d’Aragona, Ippolito e Giuliano de’ Medici e altri… È significativo rilevare come nelle varianti dell'edizione del 1532 Ariosto non abbia voluto tenere conto, in questo canto, degli eventi intercorsi tra un'edizione e l'altra esaltando Francesco I come principe vittorioso militarmente ed omettendo ogni riferimento alle successive sconfitte. La "sincronizzazione" dell'episodio si limita di fatto a una sola significativa modifica (quello che in A e B (prima e seconda edizione) è «Carlo di Borgogna» in C diventa «Carlo quinto imperator»), tanto è vero che i sovrani avversari Carlo V e Francesco I di Francia sono alleati contro il mostruoso avversario. la rassega di principi e signori andrebbe letta come una celebrazione delle virtù cortesi esse sono antitesi della cupidigia e garanzia di buon governo e pace. Queste ottave che Ariosto lascia inalterate vogliono rimarcare una sorta di comune identità della civiltà delle corti. Nel XXXIII canto viene raccontato l’episodio degli affreschi nella sala della rocca di Tristano, nella quale giunge Bradamante alla ricerca del suo amore. Gli affreschi sono una serie di pitture alle pareti per opera di Merlino e dei demoni nelle quali in forma di profezia viene illustrata una sintesi della storia d’Italia, realizzata rievocando le discese dei francesi nella penisola. A essi la sorte sarà favorevole solo fino a quando difenderanno l’Italia, mentre sarà loro fatale ogni bramosia di conquista e di dominio sulla penisola. Le correzioni storiche del Furioso sono destinate a rettificare la linea politica del ducato estense, oltre che a dar conto degli stravolgimenti politici e militari in corso. Nell’episodio degli affreschi è possibile cogliere la simpatia dell’autore per Francesco I e per l’alleato francese. La descrizione delle pitture della sala si chiude con l’immagine del sacco di Roma, scelta che sembra voler alludere al tracollo di una civiltà da una prospettiva ormai nazionale e a quanto siano ormai lontani i nobili ideali della tradizione cortese. Nel canto XL verrà descritto il saccheggio di Biserta, per mano delle truppe cristiane guidate da Orlando e Astolfo, con un realismo nel riflettersi di passato e presente. Proprio nel canto in cui le sorti volgono a favore dei Franchi la vicenda si avvia ad un epilogo in cui sembrano dissolversi gli ideali cavallereschi.

Secondo capitolo: 1. L’invettiva del XVII canto. Il XVII canto del Furioso è considerato di transito. Fino all’ottava 16 lo scenario è quello dell’assedio di Parigi condotto da Rodomonte, che dopo aver fatto strage di nemici, è ormai giunto a ridosso del palazzo reale e re Carlo si lancia insieme ai suoi paladini allo scontro con il saraceno. L’ottava 17 dirotta il lettore in un’altra capitale, l’azione si trasferisce a Damasco. Qui Grifone uscirà vincitore da una giostra indetta dal re Norandino ma Martano si farà premiare al suo posto a causa dello scambio di persona. A Grifone tocca subire la beffa e la pubblica umiliazione, mentre Martano e Orrigile lasciano la città. Il terzo blocco narrativo è preceduto da un racconto: un cavaliere spiega le origini del torneo, che viene allestito per ricordare l'esito fortunato di una avventura capitata a Norandino e alla sua sposa Lucina. Di ritorno da Cipro, isola natale di Lucina, dopo le nozze, la nave dei siriani, còlta da una tempesta, trovano riparo su un’isola del Mediterraneo, dove un orco rapì i sovrani e l'equipaggio. Dopo aver messo in salvo con uno stratagemma i compagni superstiti, ma non ancora l'amata Lucina, il sovrano rimase quattro mesi nella grotta del mostro, travisato da capra, per non abbandonarla, fino a quando anche lei non riuscì a scampare venendo liberata da Mandricardo e Gradasso casualmente approdati sull'isola. Ricongiuntosi finalmente con l'amata a Damasco, Norandino decise di celebrare lo scampato pericolo e la riconquistata libertà con una giostra da tenersi una volta ogni quattro mesi in memoria di quella vicenda. Un racconto nel racconto (si sviluppa per ben 45 stanze), in cui la novella di Norandino e Lucina, evidentemente ispirata all'episodio di Polifemo nell'Odissea, parrebbe avere la funzione di esaltare il coraggio e l'abnegazione del sovrano siriano, indirettamente contrapposti all'abiezione e alla viltà del personaggio di Martano. Le virtù cavalleresche e la magnanimità di Norandino spiccano sullo sfondo di una pagania «cortese», dal paesaggio dolcissimo, ornata di castelli, logge, giardini, e palazzi fastosi. È in questo snodo della trama, di fatto proprio a metà del canto, mentre i damasceni si radunano per assistere alla giostra e i contendenti, armati e bardati, procedono in corteo verso la piazza, che lo sviluppo del racconto nuovamente si interrompe, stavolta passo a una digressione del narratore, il quale prorompe in un'invettiva inattesa. Jo Ann Cavallo si sofferma sulle armature siriane fatte a imitazione di quelle di Francia, il quale «contraddice il fatto che gli occidentali che rimanessero per un po' di tempo in Oriente si vestivano secondo la moda araba». Cavallo osserva che la fama del personaggio di Norandino, campione pagano di etica cortese, nell'Orlando furioso è compromessa; lo dimostrano, già in questo canto, l'episodio dell'inganno di Martano, il mancato riconoscimento di Grifone e il suo maltrattamento. “Il re siriano presentato da Ariosto, insomma, non è più un modello di cortesia capace di riconoscere a prima vista il valore, risultando al contrario un tiranno ottuso e imprudente la cui figura rasenta la codardia”. Secondo la studiosa, anche questo ridimensionamento della figura di Norandino spiega e giustifica il fatto che Ariosto, in un Oriente arabo posto sotto il dominio cristiano e occidentale, invita a una nuova azione militare da intraprendere nel presente per mantenere in primo piano il conflitto tra cristiani e musulmani e, dunque, tra europei e Turchi. Nei canti nei quali vengono evocati episodi cruenti del conflitto franco-spagnolo non mancano considerazioni che offrono il pretesto per celebrare le virtù militari e la magnanimità di Alfonso d'Este. Mentre in altri canti fatti e personaggi del tempo dell'autore possono rivelarsi nelle figurazioni allegoriche scolpite dal mago Merlino o ancora la storia d'Italia e le sue sorti, soggette all'arbitrio dell'alterna Fortuna, venire riassunte in forma di pseudo-profezia negli affreschi della Rocca di Tristano. Toni altrettanto vibranti di quelli del XVII, a essi assimilabili, all'interno del poema si trovano probabilmente solo in apertura del canto XXXVI, dove viene ricordata la battaglia della Polesella del 1509 e Ariosto in questa occasione si sofferma sull’episodio dell’esecuzione di Ercole Cantelmo il quale, fatto prigioniero dalle truppe mercenarie assoldate dai veneziani, venne decapitato al cospetto del padre duca di Sora e dell’intero esercito estense. *(pagina 1) Sempre in questo canto l’autore compara la crudeltà dei mercenari schiavoni a quella dei Mongoli, dei Turchi e dei Mori.

Nel XVII 73-79 l’esortazione alle potenze europee ad abbandonare ogni desiderio di conquista del territorio italiano per coalizzarsi e indire una nuova crociata riprende motivi frequenti nella poesia civile del 500. Sono motivi associati alla lamentazione per le sorti dell’Italia, trasfigurata nella prosopopea di una donna nobil e augusta un tempo e ora lacera, piagata, sottomessa e violata dallo straniero. A sollecitare l’urgenza è la congiuntura delle mire espansionistiche francesi e spagnole, l’invasione delle truppe mercenarie e straniere e le devastanti guerre d’Italia. Nell’ottava 74 vi è l’ammonimento a francesi, spagnoli, svizzeri e tedeschi denominati nelle ottave successive come “cristianissimi” e “cattolici”. L’appello a indire una nuova crociata ha il suo palinsesto letterario nella canzone petrarchesca O aspectata in ciel, beata e bella (Rvf, 28), nella quale il referente storico è la progettata crociata del 1333. Nell’ottava 75 vi è il parallelismo tra l’appello a riavere Gerusalemme e Costantinopoli o ccupata dai Turchi. Nell’ottava 76 vi è un’invettiva si rifà alla canzone civile 53 del Canzoniere petrarchesco, Spirto gentil, da cui discende la personificazione, ricorrente nella poesia civile del Rinascimento, dell’Italia che dorme. Ulteriori tracce di questi archetipi andrebbero cercate nelle Rime, spazio letterario più consono all'esercizio dell'imitazione petrarchesca, sebbene Ariosto non volle mai pubblicare i suoi versi nella forma canonica di un canzoniere, presumibilmente non reputandoli qualitativamente all'altezza delle altre sue opere. Nella canzone V della raccolta, nella quale l'autore finge che Giuliano de' Medici, defunto, risponda alla moglie, che a lui si era rivolta nella canzone precedente, ad esempio, ricorrono, tra i numerosi motivi petrarcheschi presenti nella silloge, sia una perifrasi che ricalca quasi quella che chiude il sonetto 146 dei Fragmenta («al paese gentil ch’Appenin fende, /el'Alpe e il mar diffende», vv. 132-133), che la trasfigurazione canonica dell'Italia in un corpo piagato, cui solo il Magnifico seppe offrire momentaneo e vano ristoro. 2. L’immagine del Turco nella poesia civile del Rinascimento: una digressione. Carlo Diosotti in un suo saggio sulla guerra d’Oriente rilevava che la collezione di poesia storico-politica si faceva cospicua a ridosso dalla battaglia di Lepanto del 1571, evento che ha ispirato alla scrittura. Spicca un sonetto di Bembo dedicato alla battaglia di Mohacs del 1526 nella quale le truppe turche avevano sopraffatto quelle ungheresi. Dal regno di Napoli, stato direttamente coinvolto nel conflitto orientale, provengono componimenti di Sandoval di Castro e di Ludovico Paterno del quale va ricordata la canzone Sacro pastor che con la grave soma, di stampo petrarchista nella quale si esorta il pontefice a muovere guerra contro gli infedeli. Anche negli stati non coinvolti al conflitto la produzione di lirica civile è proficua, come con Trissino che esorta nelle sue canzoni i papi Leone X e Clemente VII ad intraprendere la nuova crociata contro gli ottomani. Nelle forme di rappresentazione del Turco nella lirica civile si possono ritrovare affinità con le ottave ariostesche: il Turco, ricorrendo all’allegoria animale, è raffigurato come una bestia feroce come un serpente di volta in volta preda dell’aquila (Spagna imperiale), del gallo (Francia) e del leone (Venezia). È il papa che deve farsi carico di mobilitare gli stati cristiani contro l’infedele, il nemico (“empio”, “ingiusto”, “bugiardo”) seguendo l’esempio di Urbano II che ha indetto la prima crociata, il quale in nome di Dio si appellava ai regnanti affinché smettessero di combattere l’uno con l’altro e rivolgessero le armi contro i musulmani. Considerando le questioni affrontate nei versi di alcuni autori, la ragione della coalizione cristiana antiturca sembra essere quella di distogliere le mire delle potenze europee dalla penisola e placare i conflitti che la stanno insanguinando, piuttosto che quella di scatenare una guerra di religione per liberare il Santo Sepolcro. A suffragare l’immagine del Turco restituita dalla lirica civile del Rinascimento tornano altre fonti dell’epoca. Pubblicazioni come Libri tre delle cose dei Turchi di Ramberti o Della origine del Turco et imperio della casa ottomana, di Cambini, descrivono una potenza violenta, dispotica e testimoniano che nella cultura italiana di quegli anni, oltre ad un sentimento di ostilità, andava maturando una curiosità per la Sublime Porta (anche Porta ottomana, è uno degli elementi architettonici più noti del Palazzo di Topkapı di Istanbul, antica residenza del sultano ottomano. L'espressione, nel corso dei secoli, è stata usata come metonimia per indicare il governo dell'Impero ottomano). E’ Paolo Giovio, con il suo Commentario delle cose dei turchi, ad abbandonare le rappresentazioni del nemico ottomano ostili e negative, tratteggiando il ritratto di un interlocutore fiero, coraggioso, colto e flessibile.

3. L’Orlando Furioso, l’Italia, gli Ottomani: considerazioni conclusive. Negli anni in cui Ariosto componeva il suo capolavoro e ne licenziava alla prima edizione, gli Ottomani non costituivano un pericolo incombente per l’Europa poiché i Turchi avevano diretto le proprie mire espansionistiche, sul fronte orientale, verso i Mamelucchi che occupavano la terra Santa e verso la Persia, ma ritornando poi in Europa, ponendo Vienna sotto assedio. Ma l’accordo del 1503 tra venezia e l’Impero ottomano segnò l’inizio di un disimpegno turco dall’Europa che durò sino al 1521, gli anni corrispondenti alla composizione del Furioso che furono dunque estanei al pericolo dell’aggressione ottomana. Le strofe dell’invettiva si trovano già nel XV, l’invocazione a papa Leone X del XVII canto ci consente di risalire con precisione al periodo di composizione dell’apostrofe, compreso tra l’ascesa di Giovanni de’ Medici al soglio pontificio nel 1513 e la sconfitta degli svizzeri a Marignano nel 1515 con la loro cacciata dal territorio italiano, mentre nell’ottava 77 si accenna alla loro presenza in Lombardia. D’altro canto, piuttosto che allearsi per fronteggiare i turchi, gli stati europei erano impegnati a combattersi l’uno con l’altro. Le imprese di Ruggero nei Balcani aggiunte alla terza edizione (XLIV-XLVI) gli consentono di acquisire il regno di Bulgaria e sposarsi con Bradamante, evocano il tema dello scontro con il nemico. Belgrado, la città dalla quale hanno inizio le avventure balcaniche del futuro capostipite della dinastia estense, infatti era stata conquistata dagli Ottomani nel 1521; a difendere la capitale serba dagli assalti turchi era stato il padre di quel Mattia Corvino, campione della cristianità, celebrato nel proemio del canto XLV, il qu...


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