Lingua e cultura degli Oschi tra caratteri indigeni e influenze latine: biculturalismo e bilinguismo PDF

Title Lingua e cultura degli Oschi tra caratteri indigeni e influenze latine: biculturalismo e bilinguismo
Author Matteo Calabrese
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Università degli Studi della Calabria Facoltà di Lettere e Filosofia Corso di Laurea in Lettere e Beni Culturali TESI DI LAUREA Lingua e cultura degli Oschi tra caratteri indigeni e influenze latine: biculturalismo e bilinguismo RELATORE CANDIDATO Prof. John B. Trumper Matteo Calabrese (matricola 12...


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Università degli Studi della Calabria Facoltà di Lettere e Filosofia Corso di Laurea in Lettere e Beni Culturali

TESI DI LAUREA

Lingua e cultura degli Oschi tra caratteri indigeni e influenze latine: biculturalismo e bilinguismo

RELATORE

CANDIDATO

Prof. John B. Trumper

Matteo Calabrese (matricola 124653)

_______________________________________ Anno Accademico 2011-2012

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Introduzione Lo scopo di questo lavoro è stato quello di discernere, nell’ambito delle testimonianze pervenuteci, i caratteri indigeni della lingua e della cultura degli Oschi da quelli riconducibili alle influenze latine. Onde evitare inutili fraintendimenti, riteniamo necessario specificare che abbiamo analizzato solo le testimonianze della lingua osca pertinenti alla varietà sannita, cioè l’idioma impostosi sulle altre parlate italiche meridionali a partire dalla conquista di Capua da parte dei Sanniti nel V sec. a.C., tralasciando, dunque, le varietà di osco non sannita, adoperate dai Campani presanniti e dai Bretti, e gli idiomi italici della Sicilia (il siculo e l’elimo).1 Poiché l’osco è una lingua di frammentaria attestazione e, per di più, non documentata da una letteratura indigena,2 tenuto conto dei limiti del metodo lessicalistico, a giusta ragione evidenziati da Campanile3 nel suo pregevolissimo Antichità indoeuropee, abbiamo proceduto integrando le informazioni ricavate da 26 testi oschi (da noi tradotti e commentati, due gruppi dei quali, le iovile e le iscrizioni dell’“eituns”, sono stati oggetto di un unico commento in quanto afferenti al medesimo contesto) con le fonti letterarie greche e, soprattutto, con quelle latine; successivamente, per verificare il carattere indigeno o latino dei dati linguistici e culturali oschi, abbiamo rivisto le fonti epigrafiche e letterarie alla luce delle più recenti acquisizioni della storia italica e, soprattutto, della linguistica indoeuropea, avvalendoci, tra gli altri, dei contributi fondamentali di Buck, Pisani, La Regina, Prosdocimi, Gamkrelidze-Ivanov, consapevoli che solo un approccio globale e paziente avrebbe potuto portare alla luce quei dati che invano si sarebbero cercati affidandosi alla mera analisi lessicale dei testi. Lo studio condotto sulle fonti epigrafiche, che coprono un arco di tempo molto lungo (dal IV sec. a.C. al I sec. d.C.), lungi dal vantare pretese di completezza, si è concentrato, piuttosto, su quei documenti che, per il loro valore intrinseco, costituiscono un bagaglio imprescindibile per lo studioso della lingua osca. 1

Cfr. Prosdocimi 1978a, pp. 551-555. Cfr. Buck 1904, p. 6. 3 Cfr. Campanile 1997, pp. 19-23. 2

2 Abbiamo adoperato il neretto per traslitterare lemmi o testi oschi scritti in alfabeto osco e il corsivo per quelli scritti in alfabeto latino,1 mentre i termini greci sono stati lasciati nel loro alfabeto. Il lavoro si articola in tre sezioni: alla Documentazione storica e letteraria, che include non solo le testimonianze storiche e letterarie, ma anche brevi spiegazioni sui testi esaminati, seguono la Documentazione epigrafica, contenente le 26 iscrizioni osche, da noi tradotte e commentate, e le Conclusioni, con il commento finale sui risultati del lavoro.

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Cfr. Buck 1904, pp. 19-23.

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Documentazione storica e letteraria Livio (40, 43, 1) racconta che nel 180 a.C. i Cumani chiesero a Roma il permesso di esprimersi nelle assemblee pubbliche e di effettuare vendite in latino (Cumanis eo anno petentibus permissum ut publice Latine loquerentur et … Latine vendendi ius esset): il caso dimostra, inequivocabilmente, che in quel periodo l’aristocrazia cumana era bilingue (o trilingue, se si considera che Cuma era una fondazione greca)1 in quanto la richiesta di condurre alcuni affari pubblici in latino teneva conto dei progressi straordinari compiuti nell’uso privato di questa lingua da parte dei notabili.2 Non esistono prove del fatto che i Romani intendessero eliminare la parlata indigena poiché l’iniziativa fu presa dagli abitanti stessi di Cuma, che, evidentemente, riconoscevano il prestigio del latino al punto da volerlo utilizzare come lingua pubblica e, nel fare ciò, volevano informare Roma della propria scelta. Ciò significa che nel II sec. a.C., assai prima della Guerra Sociale, l’aristocrazia osca, presso cui il latino guadagnava terreno, voleva ingraziarsi i dominatori romani con una richiesta che pure era priva di basi legali.3 È opportuno sottolineare che a Cuma l’abbandono dell’osco a favore del latino a livello ufficiale non implica necessariamente una sua decadenza nell’uso privato: prova ne è la Defixio Vetter 7, un testo misto di latino e osco4 risalente all’incirca al periodo di Silla, la cui origine cumana, se confermata, corroborerebbe la testimonianza di Livio, in quanto di più di un secolo successiva agli eventi raccontati dallo storico ma coerente, secondo Adams,5 con una “conoscenza residuale” dell’osco. Tale influenza del latino nelle aree oscofone coinvolse anche gli strati sociali inferiori,

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Sulla base della testimonianza di Diodoro Siculo (12, 76, 4), Adams (2003, p. 113 e p. 148) ritiene che la città fu conquistata dagli Oschi intorno al 421 a.C.; lo studioso aggiunge che il racconto di Livio è interpretato comunemente come prova della sostituzione del latino all’osco, sebbene sia possibile che la cultura greca fosse ancora viva (Strab. 5, 4, 4). 2 Cfr. Adams 2003, p. 113 e p. 151. 3 Cfr. Adams 2003, p. 114 e p. 151. 4 La mescolanza di lingue in questo testo non dipende dal fatto che il suo autore parlava una lingua mista, ma è il risultato di una scelta deliberata, in quanto le defixiones erano spesso scritte in un linguaggio cifrato, al fine di aumentarne il potere magico (Adams 2003, pp. 43-44 e pp. 127-130). 5 Il concetto di “conoscenza residuale” non dev’essere interpretato come giudizio sulla competenza comunicativa dello scrivente in quanto il repertorio delle defixiones può risultare più complicato per l’uso di un codice adeguato al contesto (Adams 2003, pp. 114-115, p. 127 e p. 130).

4 sebbene sia fuorviante il ricorso al termine “latinizzazione”: come notato da Poccetti,1 infatti, le defixiones osche precedono di uno o due secoli quelle latine e non è un caso che alcuni dei più antichi esemplari latini provengano proprio da aree oscofone come Cuma (CIL I² . 3128, 3129) e Pompei (CIL I² . 2541 = ILLRP 1147). È interessante osservare che, poiché varie formule delle defixiones latine sono l’esatta traduzione di espressioni ricorrenti in testi oschi, quest’imitazione di moduli sintattici oschi costituisce certamente una mutuazione di “nuove pratiche testuali” originatesi nel mondo italico:2 in particolare, ricordando brevemente il confronto istituito da Poccetti3 tra l’espressione latina nec loqui nec sermonare possit (CIL I² . 1012=ILLRP 1144, Roma) e nep deíkum nep fatíum pútíad della Defixio Vetter 4, rileviamo che la struttura generale rappresentata dalle congiunzioni negative necneip/nip4 + possit-pútíad ricorre sia in testi latini (CIL I² . 3129, proveniente da Cuma) che oschi (Defixio Vetter 4, proveniente da Capua).5 Anche nella religiosità privata la cultura osca mostrò segni di originalità: a Capua, infatti, sono state ritrovate alcune iscrizioni, risalenti al III sec. a.C., che si riferiscono a oggetti di natura imprecisata chiamati diúvila-/iúvila-. 6 È significativo che tutte le dediche delle iovile precedono il 211 a.C., anno della riconquista romana di Capua così come dell’abolizione dei meddíss della città:7 se i due eventi fossero connessi, si tratterebbe di un atto repressivo motivato dalla volontà di Roma di imporre la latinizzazione attraverso la distruzione dei culti preesistenti, come sarebbe dimostrato dal confronto con il senatus consultum de Bacchanalibus del 186 a.C. (CIL I 196) volto a reprimere il culto dionisiaco nell’Italia meridionale8 e, fuori dalla penisola, con la soppressione del druidismo in Gallia da parte di Claudio.9 Se l’interpretazione fosse corretta, l’episodio di Capua non contraddirebbe, ma completerebbe quello di Cuma, di un trentennio successivo, in quanto 1

Cfr. Poccetti in Adams 2003, p. 139. Cfr. Poccetti in Adams 2003, p. 139; . 3 Cfr. Poccetti in Adams 2003, p. 139. 4 La variazione grafica può essere spia della perdita d’uso della lingua. 5 Cfr. Adams 2003, p. 139. 6 Cfr. Buck 1904, p. 247; Pisani 1964, pp. 78-79. 7 Cfr. Buck 1904, p. 247; Pisani 1964, p. 80; Carpitella 1981, p. 378. 8 Cfr. Carpitella 1981, p. 298. 9 Cfr. Carpitella 1981, p. 484. 2

5 indicherebbe che i Romani non tentarono apertamente di eliminare l’osco, ma al tempo stesso, intraprendendo iniziative contro i culti privati, crearono le condizioni perché gli Oschi, intimiditi, acquisissero “spontaneamente” la lingua latina. Questa repressione romana della religiosità privata sarebbe confermata dalla Tavoletta dedicatoria di Agnone: tale testo, risalente all’incirca al 250 a.C.,1 pressoché contemporaneo, dunque, alle iovile, è il documento costitutivo di un’associazione che aveva in cura l’annesso santuario di Cerere.2 Il contenuto dell’iscrizione indica un’influenza orfico-misterica di derivazione greca, come emerge dalla presenza di numerosi grecismi, la cui abbondanza e coerenza riflette la realtà di Agnone, frutto della sintesi di due elementi, italico e greco.3 L’individuazione di un culto di derivazione misterica spiegherebbe, oltre alla contrapposizione tra un ciclo nell’orto sacro (húrtín) e uno presso l’orto (az húrtúm), anche la loro correlazione: per tale motivo Prosdocimi4 ipotizza che il culto esterno corrisponda alla prima fase della struttura cultuale, estesa poi all’orto. L’esigenza di formalizzare in un documento la riorganizzazione del culto nascerebbe da questa riforma, la quale, a sua volta, sarebbe legata alla latinizzazione successiva alla III guerra sannitica. In relazione al bilinguismo osco-latino, le testimonianze archeologiche ci hanno rivelato l’esistenza di situazioni di contatto tra i parlanti delle due lingue, come emerge dall’analisi dell’iscrizione Poccetti 1979, 21:5 questo testo bilingue, risalente al primo decennio del I sec. a.C.,6 fu inciso da due mani diverse su una tegola che ricopriva il tetto del “tempio B” di Pietrabbondante. Le persone che ne vergarono il contenuto, l’osca Detfri e la latina Amica, sono identificabili con due compagne di schiavitù che lavoravano in una fabbrica di tegole di proprietà di Erennio Sattio.7 Riservandoci di affrontare successivamente la questione della veste linguistica di questo testo, ci limitiamo a rilevare che il contesto allude a un ambiente di lavoro bilingue sia perché le due iscrizioni furono

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Cfr. Buck 1904, p. 256; . Cfr. Prosdocimi 1978b, p. 832. 3 Cfr. Prosdocimi 1978b, pp. 836-837. 4 Cfr. Prosdocimi 1978b, pp. 837-838. 5 Cfr. Adams 2003, pp. 124-125 e p. 151. 6 Cfr. Adams 2003, p. 124. 7 Cfr. La Regina in Adams 2003, p. 124. 2

6 realizzate nello stesso giorno e nello stesso luogo prima dell’asciugatura della tegola, sia perché il genitivo Herenneis, presente all’inizio dell’iscrizione latina, è declinato nella lingua di origine di chi lo portava e non in quella della scrivente. Questo tipo di code-switching, indicando una forma di deferenza linguistica da parte della latina Amica verso l’osco Erennio Sattio, dimostra che il termine “latinizzazione” non è applicabile alla situazione complessiva dell’Italia prima della Guerra Sociale: infatti, se è vero che i notabili oschi furono propensi ad acquisire la lingua dei dominatori, è altrettanto vero che in alcune comunità, soprattutto a un livello sociale inferiore, ciò non avvenne.1 Tuttavia, l’episodio di Cuma non deve far dimenticare che alla vigilia della Guerra Sociale si manifestarono resistenze al latino, sebbene sia esagerata l’asserzione di Adams2 che parla di “una specie di reazione nazionalistica”. Questa riscoperta delle proprie radici linguistiche è dimostrata dalla Tabula Bantina, in cui l’uso dell’osco al posto del latino si configura come dichiarazione politica di ostilità verso Roma, tanto più che i suoi artefici erano completamente latinizzati: è, infatti, inverosimile, come vedremo dall’esame del documento, dedurre dalla scarsa competenza dimostrata dal lapicida l’ignoranza degli autori del testo, appartenenti alle élites di Banzi, abituati non solo ad esprimersi, ma, addirittura, a pensare in latino3 e che, tuttavia, cercavano un’identità osca proprio nell’ispirarsi alla lingua del nemico, quasi che proprio nel riconoscimento della superiorità del latino dal punto di vista culturale consistesse il rigetto supremo di quest’idioma dal punto di vista politico. Furono, cioè, gli optimates i primi ad accettare la latinizzazione e i primi a resistervi. A tal proposito, è utile ricordare che all’epoca della Guerra Sociale i ribelli italici coniarono un enorme numero di monete, alcune su cui era scritto il termine latino Italia o il suo corrispondente osco víteliú (o vítelliú), altre con iscrizioni bilingui latino-osche, altre ancora, più rare, con la dicitura osca safinim. 4 Secondo Adams,1 l’uso dell’osco ha un significato simbolico in quanto non

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Cfr. Adams 2003, pp. 113-115, pp. 124-125, pp. 139-140 e p. 151. Adams 2003, p. 114. A quell’epoca non esisteva ancora il concetto di nazione nel senso oggi corrente: in latino, infatti, natio significa nascita, caratteristiche genetiche, gruppo etnico, classe sociale (Cic. Sest., 44). 3 Cfr. Adams 2003, p. 115 e p. 151. 4 Vedi pp. 51-53. 2

7 tutti i ribelli erano oscofoni e, pertanto, la presenza di diciture osche non era necessaria. Come rileva Burnett,2 queste monete italiche possono essere, con buona probabilità, considerate i primi coni battuti a fini propagandistici in quanto la loro produzione e le diciture presenti su di essi dovevano trasmettere un messaggio di difesa della propria identità veicolato dall’ostilità verso Roma. Con l’avanzata dei Romani, infatti, il primo atto compiuto da Lucani e Bretti fu quello di seppellire le monete in quanto simbolo della loro resistenza. Quest’iniziativa non era una novità assoluta poiché già durante la ribellione di Capua e di altre città satelliti (Atella, Calazia) scoppiata nel corso della guerra annibalica furono emesse monete sulle quali i nomi dei centri erano sempre in osco (kapv, kalati, scritti da sinistra verso destra).3 La stessa dicitura safinim presente sulle monete è la chiave di lettura della celeberrima Epigrafe dei Safinim: l’importanza di quest’iscrizione, risalente alla fase finale della Guerra Sociale, fu a lungo sottovalutata dagli studiosi (concentrati sull’Epigrafe di Vesulliaeo), finché Minervini ne ripropose il testo per sottolineare che “si considerava in quel tempo tutta la nazione dei Sanniti, come formante un sol corpo”.4 L’osco perdurò certamente fino alla tarda repubblica, se non, addirittura, fino all’età augustea.5 Molte aree in cui sono state ritrovate iscrizioni osche sono caratterizzate dalla presenza di epigrafi latine: questo fatto, che non costituisce di per sé una prova decisiva del bilinguismo osco-latino, lo è, tuttavia, nel caso di Pompei in quanto alcune iscrizioni osche ivi ritrovate risalgono a un’epoca relativamente tarda, in cui il latino si era già imposto. La città campana ricevette una colonia sillana di veterani poco dopo l’89 a.C. e i suoi cittadini furono iscritti nella tribus Menenia6, così che da allora il passaggio al latino accelerò notevolmente,7 come emerge dall’analisi di CIL X. 7948: quest’iscrizione, che ricorda la costruzione di un portico, è interessante in quanto il suo autore, un 1

Cfr. Adams 2003, p. 116. Cfr. Burnett 1998, p. 170 in Adams 2003, p. 116. 3 Cfr. Adams 2003, p. 116. 4 Cfr. . Sull’assenza del concetto di nazione nell’antichità vedi p. 6, nota 2 del presente lavoro. 5 Cfr. Adams 2003, pp. 150-151. 6 Cfr. Carpitella 1981, p. 1690. 7 Cfr. Carpitella 1981, p. 1690; Adams 2003, p. 146. 8 Cfr. Adams 2003, pp. 146-147. 2

8 certo Vibio Popidio, pur appartenendo a un’antica famiglia osca, scelse di scriverla in latino, a differenza di un suo antenato omonimo che aveva adoperato l’osco in un’iscrizione di contenuto analogo (Vetter 1953, 13). L’esempio di Popidio è, ancora una volta, indicativo del prestigio riconosciuto al latino dai notabili locali e della loro volontà di mostrare la conoscenza di questa lingua per scopi pubblici. Tuttavia, le élites osche, latinizzate con la forza, mostrarono talora un “orgoglio locale”1 che si attuò tramite il recupero deliberato dell’osco al posto del latino, com’è dimostrato dall’Iscrizione Vetter 11: secondo l’interpretazione di Poccetti,2 questo testo, che documenta la costruzione da parte di Vibio Vinicio Maras, questore di Pompei, di un edificio col denaro lasciato per testamento da Vibio Atrano alla vereiia pompeiana, sarebbe la copia, realizzata dopo il terremoto del 63 d.C., di un’iscrizione risalente al periodo tardorepubblicano (II sec. a.C.). Dall’analisi dell’Iscrizione Vetter 11 si possono trarre le seguenti conclusioni: nei 151/167 anni successivi alla fine della Guerra Sociale, alcune famiglie avevano ereditato una conoscenza rudimentale dell’osco, sebbene sia impossibile supporre un bilinguismo con competenza avanzata nel parlato, in quanto l’alfabetismo è diverso dall’apprendimento del linguaggio;3 inoltre, poiché l’iscrizione è la copia di un testo assai più antico, nulla si può dire sullo stato della lingua osca nel momento in cui la copia fu realizzata; infine, questo interesse antiquario per l’osco era inficiato dalla forma linguistica dell’originale, pieno di latinismi. In relazione al contatto osco-greco-latino, Adams4 fa riferimento a un passo delle Noctes Atticae in cui Aulo Gellio (17, 17, 1) afferma che il poeta Ennio diceva di avere tre cuori in quanto parlava greco, osco e latino (Quintus Ennius tria corda habere sese dicebat, quod loqui Graece et Osce et Latine sciret). Sebbene Ennio sia presentato come un estimatore di tutte e tre le lingue, questo passo pone, tuttavia, un problema di interpretazione in quanto egli era originario di Rudie, centro messapico della Calabria, ed è, pertanto, sorprendente che sia stato descritto come parlante osco 1

Adams 2003, p. 147. Cfr. Poccetti in Adams 2003, p. 147. 3 La pratica dell’osco da parte degli aristocratici era relegata all’uso domestico con i vernae. 4 Cfr. Adams 2003, p. 116. 2

9 piuttosto che messapico.1 Nonostante che non ci siano pervenute iscrizioni osche da quest’area, Skutsch2 invita a non mettere in discussione la testimonianza di Gellio: lo studioso, infatti, fa notare che il nome Ennius era tipicamente osco e che il figlio della sorella del poeta portava il nome osco Pacuvius. In realtà, come rilevato da Prosdocimi,3 tutte le spiegazioni del passo di Gellio, per quanto corrette, sono parziali, non perché non riflettano la realtà storica, ma perché trascurano la “pertinenza lingua”, cioè l’interpretazione delle parole del poeta sul proprio plurilinguismo: pur senza proporre una soluzione, egliosserva, infatti, che non ci si è sufficientemente soffermati sul significato di corda e sulle sue implicazioni ideologiche. I tria corda, che furono intesi dai commentatori di Ennio come i sensi all’origine dei sogni, alludono, invece, al fatto che Ennio parlava tre lingue poiché il significato “credere, aver fede” era espresso dalla locuzione, e poi composto, PIE *khret’- dheH-, letteralmente “mettere nel cuore”, contenente al proprio interno l’antica parola indoeuropea per “cuore” in Stato II, *khr-et’- (classe attiva);4 *khret’- dheHcostituisce un esempio di locuzione rituale-poetica indoeuropea:5 infatti, nella visione degli Indoeuropei antichi, in particolare nella tradizione indoiranica, la poesia era ritenuta espressione del pensiero divino “messo” nel cuore del poeta, il quale, a sua volta, la trasmetteva agli altri in locuzioni di sua creazione.6 A nostro avviso, inoltre, l’asserzione di Adams, 7 che ritiene infruttuoso qualsiasi tentativo di rintracciare l’influenza dell’osco sul latino di Ennio, non è del tutto appropriata, sia perché lo studioso non colloca nella giusta prospettiva tongeo, sia perché mette in dubbio l’origine osca di forme come famul e homon...


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